domenica 22 marzo 2020

Il volontariato

di Livia Colnaghi

Livia Colnaghi il 9 aprile avrebbe compiuto 97 anni. Se ne è andata qualche giorno prima. Una donna dal carattere forte e combattivo, Livia, fiera, solidale e molto legata alle sue radici, alla sua famiglia e al paese ove nacque, nel 1923. Le piaceva leggere, documentarsi, approfondire i fatti, scrivere poesie, brani e racconti tratti dall’esperienza della sua lunga vita. Ricordo con piacere ed emozione quando, a casa sua, di fronte ad una tazza di caffè, mi raccontava, lucidamente e appassionatamente, pezzi della storia della sua vita e delle vicissitudini della “nostra” famiglia (mio nonno Beniamino era il fratello di suo padre Giuseppe), durante gli anni bui del fascismo e della guerra, dei soprusi, della fatica e delle privazioni a cui  i contadini e gli operai erano costretti per mandare avanti la famiglia.
Qualche anno fa mi diede alcuni sui scritti, che puntualmente ho pubblicato su questo blog. “Il volontariato” è  l’ultimo in mio possesso. Lo pubblico ora in suo ricordo. (b.c.)

Il volontariato è un settore molto importante della società, animato dall’impegnativo lavoro dei volontari, attività che lascia poco spazio all’improvvisazione ma che richiede preparazione, attitudine, dedizione, pazienza e spiccate competenze comunicative.
Riconosciuto dalla comunità e apprezzato per il ruolo che occupa, il volontario procede con coraggio, animato da spirito di forza e di volontà. Ed è una persona vitale, operosa, che si sente felice di lavorare per coloro che hanno bisogno di aiuto: non vuole essere felice da solo, al contrario si sente soddisfatto nel dare agli altri un po’ di sé stesso.
Il volontario parla di bontà, sa essere sereno in ogni circostanza, regala un sorriso alle creature che incontra; riconosce il valore del sorriso, sa che è il preludio di un dolce viso, ricorda che arricchisce chi lo riceve, senza impoverire chi lo dona, si accorge che non dura un istante e che il suo valore è eterno, sente che dà forza e consolazione a ogni pena e impara ogni giorno che è un rimedio naturale d’amore per chi soffre.
Rafforza la propria vitalità con la sua opera, sostenuta e rafforzata dal senso del vivere bene, il suo lavoro è d’esempio a sviluppare la propria capacità di cambiamento e a impegnare risorse personali verso il cambiamento collettivo.
Fare volontariato dovrebbe innalzarsi a valore sociale e condiviso: ad ogni età, animato da buon cuore, si potrebbe sostenere la solitudine e l’emarginazione, rendere disponibili le proprie risorse a chi necessita e di sostegno alle normali attività quotidiane, come essere accompagnati negli spostamenti dalla propria casa verso l’ospedale per poter fare le visite e gli esami.
Sentendosi sempre pronto e disponibile nel servizio agli altri, da un aiuto per piccoli problemi quotidiani a chi non ha le risorse per affrontarli, da forza al morale, crea atmosfere di serenità e lo fa discretamente, senza spettacolarizzazione, ma con grande, sorridente soddisfazione interiore.
La cosa più bella del volontariato, oltre naturalmente al servizio offerto, è il senso di appartenenza e di condivisione che si instaura fra i volontari di tutte le età e classi sociali. Questi impegni creano gruppo, squadre, famiglia, comunità.
Ad oggi, nella Regione Lombardia, il vento ha soffiato forte lanciando voce a persone di buon cuore, chiamandole a partecipare con impegno e sacrificio al servizio del volontariato, fornendo soluzioni di solidarietà nella prospettiva della democrazia sociale.
Il mio augurio e il desiderio di questo mio scritto è di far riflettere sulle molteplici attività di volontariato, alle quali ognuno di noi potrebbe partecipare attivamente, portando un po’ di sé come sa fare… sarebbe bello che ognuno di noi si muovesse per ottenere informazioni più specifiche sulle diverse attività erogate, che conoscesse la realtà del territorio, i centri, le associazioni e che incontrasse altri modi di vivere, difficoltà oggettive e sofferenze soggettive, paure, coraggio, gioia, speranza e fede.
 
Gli altri articoli di Livia contenuti nel blog:
 
Inoltre:
 
 

sabato 14 marzo 2020

"Si muore soli. Il virus ci impone di rinunciare al culto dei morti"

Intervista al monaco e tanatologo Guidalberto Bormolini: “Stiamo rinunciando a due momenti che sono costitutivi della civiltà umana: l’accompagnamento alla morte e il rito funebre. Ma si resta umani solo riscoprendo il bene comune"

di Giulia Belardelli, giornalista HuffPost, 13.03.2020

In questi giorni sempre più spesso negli ospedali si muore soli, con o senza coronavirus, a causa delle stringenti regole giustamente imposte per contenere la diffusione del virus. E per legge, almeno fino al 3 aprile, si viene sepolti quasi da soli: i funerali sono vietati, è concessa solo una breve benedizione o un saluto laico, poche persone direttamente al cimitero. Se ne sono andati così gli oltre mille morti affetti da Covid-19, e con loro gli “altri”: persone il cui fine vita, per età o accidente, ha incrociato la Grande Storia della pandemia. D’un tratto la morte si è impossessata dei telegiornali, ha invaso i social network. L’attesa per il bollettino delle 18 della Protezione civile – quello sperare con tutte le forze che il numero s’abbassi - è diventato il nostro rito collettivo, un contatto comune con la morte.
È un contatto che in questo tempo solitario e sospeso sta probabilmente scavando in molti di noi. Ne abbiamo parlato con Guidalberto Bormolini: monaco, antropologo, tanatologo, docente al Master End of Life dell’Università di Padova, fondatore della prima scuola in Europa per l’assistenza spirituale non confessionale al fine vita nella malattia grave, a Prato. Qui – ci racconta - si sono formati alcuni medici e infermieri che in queste ore sono in prima fila nella lotta al virus. Un virus che ha colpito direttamente anche la sua famiglia.
 “Mio zio è morto a Brescia per il virus e per ore non veniva nessuno ad accertare la morte, nemmeno il medico legale. Ho dovuto avvertire io mio padre che suo fratello era morto e la prima cosa che mi ha chiesto è stata ‘e col funerale come facciamo?’ Questo perché la socializzazione del lutto è uno strumento fondamentale che in questo momento ci viene meno”.
Presso la vostra scuola si sono formate centinaia di medici e infermieri che si occupano della relazione di cura, in particolar modo nel fine vita. Molti di questi sono impegnati in prima fila nelle zone più colpite dal coronavirus. Li sta sentendo in queste ore?
“Passiamo giornate intere a confortare persone che ci chiamano dal Lodigiano, da Brescia, da Milano, dal Cremasco... Sono medici e infermieri che si trovano di fronte a quesiti morali e spirituali drammatici. Sono le storie di cui abbiamo letto in questi giorni: criteri da applicare in terapia intensiva, scelte da prendere. Sono situazioni drammatiche vissute in condizioni estenuanti. Purtroppo abbiamo pochi strumenti di conforto, se non quelli virtuali, che sono un salvagente ma non possono essere paragonati alla presenza, all’esserci”.
Qual è il costo emotivo e morale di questa pandemia?
“Il virus ci sta costringendo a rinunciare a due momenti che sono costitutivi della civiltà umana: l’accompagnamento alla morte e il rito funebre. La pandemia non ci nega solo il funerale, ma anche il momento prima della morte, i saluti, che sono molto importanti. L’aspetto terribile è che le persone muoiono in isolamento: non si può accompagnare il proprio caro, negli ospedali non possono entrare altre persone. Se anche la patologia non è il coronavirus, c’è una fortissima limitazione negli ingressi agli ospedali. Quindi si muore da soli e si è sepolti quasi da soli. È il contrario di ciò che è sano antropologicamente”.
Cosa è “antropologicamente sano”? Si è mai verificata nella storia moderna una circostanza simile, il divieto di salutare collettivamente i propri cari?
“Questa pandemia ci priva di un aspetto antropologicamente costitutivo della nostra civiltà, che è il culto dei morti. La civiltà inizia con la sepoltura dei cadaveri, che è il segno della fiducia in una vita ultraterrena. Non per nulla i cadaveri venivano sepolti in posizione fetale o colorati di ocra rossa. Le prime sepolture risalgono a 100 mila anni avanti Cristo. Siamo privati di qualcosa che, secondo gli storici e gli antropologi, ci rende umani. L’umano nasce con la cultura dei morti. Qui abbiamo di fronte una circostanza che toglie l’umano ad una società già disumana sotto molti aspetti, come lo sfruttamento del pianeta e degli esseri umani, la non-accoglienza, l’individualismo, il predominio del profitto sul bene comune...”.
Nelle società occidentali il fine vita è spesso considerato un tabù. Può un’epidemia globale stravolgere il nostro rapporto con la morte?
“Nell’Occidente contemporaneo l’occultamento del pensiero sulla morte, l’evitamento della parola morte è generalizzato. Siamo impreparati come Paese e come cultura. Per questo è più facile che sia messo in ginocchio un Paese che ha il terrore della morte rispetto a uno che con la morte ha più dimestichezza. Del resto, nel Medio Oriente il coronavirus non può impattare più di quanto abbia fatto la pace minata ormai da tempo. Qui invece eravamo in una bolla di benessere, un sistema fortemente consumistico, dove molti valori etici erano crollati. Anche le grandi mobilitazioni più recenti sono state sempre mosse dalla paura. Persino quella contro l’inquinamento spesso non è nutrita dall’amore per la natura, ma dalla paura per il proprio futuro. La nostra cultura tende a evitare la morte, ma la morte resta il movente di tante scelte e tanti orientamenti”.
Come Paese, secondo lei, c’è qualche risorsa che possiamo “elaborare” da questa esperienza collettiva di dolore e sacrificio?
“Siamo a un bivio. O apriamo gli occhi e superata l’emergenza nasce un Paese migliore, o seppelliamo definitivamente la nostra umanità. Il rischio c’è, bisogna essere realisti, ma per me la speranza è sempre più forte di qualsiasi ipotesi apocalittica. Questa secondo me è la grande occasione che ci è data di capire che quando c’è un problema, come diceva Don Milani, o se ne viene fuori tutti o neanche qualcuno. Ho sentito dire “il bene comune deve prevalere sul bene dell’individuo”… No, non mi piace: il bene comune è la forma migliore per tutelare ogni individuo. È un modo più nobile di esprimerlo. Dopo anni di individualismo, questo momento ci sta insegnando che l’unico modo di uscire da una crisi è il bene comune. Non lo abbiamo applicato durante la crisi economica, forse possiamo farlo adesso”.
Molti analisti sono concordi nel ritenere che l’impatto economico della pandemia sarà devastante. Perché dovremmo “svegliarci” proprio adesso?
“Perché questa situazione ci sta privando di ciò che ci mantiene umani anche dopo la morte. Perché se la morte è relazione, noi viviamo anche oltre la morte. Questo sembra insegnare la tradizione, l’antropologia stessa, senza entrare nella religione. Marcel Mauss, un grande antropologo del Novecento, diceva che si è umani quando si è donatori. La morte è l’ultimo dono che facciamo agli altri. Come moriamo rimane nella memoria di tutti. La morte ci costringe a donare tutto, volenti o nolenti. La differenza è in chi la accoglie. Ecco, il dono che ci possono fare le persone che stanno morendo ora è di farci capire l’importanza della relazione con chi sta per morire e della relazione con chi è già morto, così da restare veramente umani. Se accettiamo questa scommessa fino in fondo, usciremo da questa crisi con un Paese rinnovato, verso un’idea di bene comune altissima e nobilissima. Io lo spero”.

martedì 10 marzo 2020

Il paesaggio romanico lombardo nel Triangolo lariano

di Alberto Novati (architetto)

Volendo studiare il romanico non possiamo sottrarci alla necessità di intrecciare i temi dell’urbanistica con quelli dell’architettura. Solo in questo modo si riuscirà a fornire qualche contributo apprezzabile alla ricostruzione storica del definirsi del romanico nel cosiddetto triangolo lariano. Invece, utilizzando nei fatti un ampio spettro di indagini, si potranno restituire le modalità insediative e i processi di civilizzazione di lunga durata che caratterizzano l’evo medio.
Dobbiamo subito chiederci: dopo il declino dell’impero romano, come la cristianità ha voluto e saputo costruire il proprio consistere nel pagus e nel castrum e come ha reinterpretato globalmente l’insediamento umano?  
Collochiamoci, da subito, in un preciso orizzonte macrourbanistico: la direttrice est-ovest proveniente da Aquileia e da Ivrea passante per il ponte di Olginate, nelle diverse alternative e varianti locali, si interfaccia nel territorio lariano con la direttrice europea nord-sud che metteva in comunicazione il bacino del Reno con la Lombardia e il mar Mediterraneo.
Flussi di merci, uomini e idee connessi non solo dalla città di Como ma da una serie di porti che, seppur di dimensioni ridotte, come il porto di Nesso(1), costituivano i nodi di interscambio dell’altopiano lariano. Altri porti, posti su entrambi i rami del lago, costituivano una valida alternativa al porto di Nesso.

Su questo assetto macrourbanistico si innesteranno le reti dei villaggi del romanico realizzando, nei fatti, un sistema insediativo completamente diverso da quello del castrum romano. E’ una vicenda antica. La struttura territoriale a rete, a grafi, radicalmente diversa da quella derivata in quache modo dalla modellistica gravitazionale (geocentrica tolemaica o eliocentrico copernicana-newtoniana) era, fin dall’antichità, ampiamente conosciuta e utilizzata nella costruzione del paesaggio umanizzato come testimonia Tucidide a proposito della città-villaggio di Sparta. Infatti, l’occupazione militare romana del bacino lariano del 196 a.C., tramandataci dallo storico Tito Livio, ha reso visibile la forma preesistente a rete dell’organizzazione territoriale, come testimoniano anche gli studi di Giorgio Luraschi. Con questa premessa urbanistica, fu compito della Pieve organizzare e utilizzare appieno le potenzialità di quei nodi urbanistici innestando e integrando le funzioni dei centri plebani con quelle dei porti.
Quel lago, quei luoghi, quelle cose, quegli animali, quelle donne e quegli uomini furono i soggetti dei dipinti di Giuseppe Canella e di Giovanni Segantini.
Il lavoro e quelle armature urbane resero possibile la costituzione del surplus economico che venne gestito dalla Pieve e utilizzato per la costruzione degli apparati monumentali dei centri plebani e delle tappe intermedie degli itinerari. Fu così che, in alternativa alla città romana-vescovile, si costruirono veri e propri santuari extraurbani frequentati da popolazioni che si andavano, pian piano, riorganizzando dopo il tracollo dell’impero romano. Primari centri monumentali che non furono mai subalterni al castrum comense. Si pensi a San Pietro al Monte o a Galliano, dove sono ancora ben visibili quei cicli pittorici capaci di interpretare, di qua delle Alpi, quello spirito nuovo europeo che si andava affermando nelle scuole pittoriche al di là delle Alpi, come alla Reichenau o a Müstair.
Lo scritto del monaco Raoul Glaber (985 circa – 1047 circa) ha la capacità di ben sintetizzare dati quantitativi e qualitativi del candido manto di chiese che ammantò la nascente Europa agli inizi dell’anno Mille. Così scrive: “Si era già quasi all’anno terzo dopo il mille quando nel mondo intero, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si ebbe un rinnovamento delle chiese basilicali… Pareva che la terra stessa, come scrollandosi e liberandosi della vecchiaia, si rivestisse tutta di un candido manto di chiese.”
Come si attuarono quelle strategie insediative? Furono le parole dell’antico linguaggio architettonico ad interpretare e costruire lo spazio pieno europeo non univocamente incentrato sulla città romana. Fu così che la costituzione del nuovo paesaggio  del romanico venne condotta dalle figure matrici della basilica, della crociera, della pianta centrale, dell’abside, del portale, della cripta, del recinto, del tumulo, della tomba a torre, del masso avello e dalle matrici urbanistiche dell’agorà, dell’acropoli e della piazza sagrato.

Lasnigo, chiesa di Sant'Alessandro

Secondo Virgilio Gilardoni (Il Romanico, Mondadori, 1963), “Lo spirito di rigorosa coerenza stilistica ha trascinato a sua volta un rivolgimento generale dei modi e delle concezioni costruttive, d’altronde richiesto dalle nuove esigenze tecniche e tettoniche, ha sollecitato il paesaggio dal sistema conglomerato della costruzione romana a quello elastico romanico.”
Sulla scrittura architettonica romanica “nessun ordine riveste più l’edificio: scompaiono le colonne sovrapposte, le antiche trabeazioni, sostituite da una sola colonna, da una parasta o da fasci di colonne e di paraste, da bande e da segna piani suggeriti sempre dalle masse stesse o da ragioni comunque costruttive. Predilezione cosciente che si afferma nella genuina dichiarazione delle forme costruttive… Lo spazio acquista misure narrative e drammatiche, si scioglie in elementi e volumi che non rinunciano alla propria individualità: l’atrio, il nartece, la centrale, le navatelle, i bracci del transetto, il presbiterio, la cripta, l’abside, le cappelle, le torri scalarie, il tiburio, la cupola, la torre o le torri finestrate del transetto; ma tosto, appena liberate nella loro individualità, le parti si riconnettono nell’unità del ritmo segnato dalle paraste, dalle archeggiature, dalle fasce di archetti pensili, dalle cornici, che rispondono allo scheletro interno di pilastri e di arcate e che dichiarano, nella nudità del loro sforzo, la tensione di spinte e controspinte, l’organamento dei corpi murari, il conflitto misurato, calcolato, delle masse costruttive e delle masse atmosferiche.”

Albese con Cassano, San Pietro

Anche oggi possiamo abitare quei paesaggi e quelle architetture del romanico, ancora prodotte, quasi per filiazione, da quell’antico linguaggio architettonico che ha dato forma al mondo.
Scrive Giovanni Testori: “Ormai i soli nomi che riesco a scrivere senza essere sopraffatto da un’impressione di falsità, sono i nome dei luoghi d’origine della mia famiglia: Lasnigo, Sormano… Per me, deve esistere sempre, mentre scrivo una precisa incarnazione, o co-incarnazione. Col passare del tempo… mi accorgo che in tutto questo corre qualcosa di fondamentale, di decisivo”.
 
Bibliografia
Alberto Novati, Francesco Sala, Tra i due rami del lago di Como: paesaggi del romanico lombardo, GWMAX, Erba 2016.
 

lunedì 10 febbraio 2020

Brianza: storia, toponomastica, sviluppi religiosi, economici e sociali

Il nome del territorio denominato Brianza, interamente compreso in Lombardia, deriva probabilmente dal termine celtico brig (colle, altura). Secondo altre fonti, il nome dovrebbe essere fatto risalire a Brianteo, generale al seguito delle truppe di Belloveso, principe della Gallia, che nel VII secolo a.C. avrebbe occupato il territorio dell'Insubria, in Italia settentrionale, fondando l’antica Mediolanum (l'odierna Milano). Da menzionare inoltre i Briganti, una tribù celtica della Britannia che abitava tra i fiumi Tyne e Humber e che potrebbe avere avuto origini comuni con tribù di Briganti Celti delle Alpi, con stazionamenti prealpini. Suggestivo è il possibile rafforzarsi del termine dovuto al brigantaggio, quello dei bravi di manzoniana memoria, che in Brianza avrebbero trovato rifugio tra boschi e colline (dove vi erano i malcanton, ove i viandanti potevano incontrare dei briganti che li affrontavano dicendo o la bursa o la vita).
Comunque sia l’origine del nome Brianza più accreditata è quella che deriva da brig, bricch, alture.  E’ divertente menzionare anche i termini brik'kone', briccone, che indicano persona senza scrupoli ma anche persona simpaticamente astuta, persona scaltra, chiusa, ma anche scherzosa.
Un'altra ipotesi, secondo ricercatori di storia della popolazione, si ricollega a studi sulle popolazioni, sulle loro migrazioni e soprattutto sui relativi nomi di origine etnica. I Briganzi (in latino Brigantii), appunto dalla radice celtica brig, il cui nome è interpretabile col termine di montanari o di persone provenienti da alture, abitavano in particolare la città celtica di Brigantion, poi romanizzata e denominata Brigantium (l’attuale Bregenz, in Austria). Questi, spinti dalle invasioni barbariche, con la caduta dell'Impero romano migrarono in Lombardia e si sarebbero portati nella zone di Como-Varese-Milano-Monza-Lecco, fermandosi nella attuale Brianza, allora Brigantia/Briantia.
Successivi trasferimenti, al di fuori della Brianza, di singoli o di nuclei familiari hanno comportato anche una certa diffusione del cognome derivato Brianzoli e di quello Brianza, o talora di varianti per lo più a causa di errori di trascrizione nei documenti. Esistono in Italia anche il rarissimo cognome Brianta ed i cognomi Brianti e Brianzi. Da rammentare poi come esistano diversi toponimi, riferiti a centri abitati, che derivano da brig.

Vediamo alcuni diffusi suffissi di nomi di città e paesi briantei:
ate: suffisso di origine celtica;
ano: suffisso la cui origine è la desinenza aggettivale latina -anus, -a, -um; serviva per formare i nomi delle proprietà dai nomi personali (proprietà di...);
asco: suffisso di origine simile ad -ano; è il suffisso la cui origine è la desinenza aggettivale latina aticus (possedimento di ...);
ago: suffisso di origine celtica-romanizzata (acos→ pagus);
engo: suffisso di origine germanico-longobarda esprimente comunque un rapporto di appartenenza;
nomi che terminano in 'sone' oppure in 'one' derivano da Son che in celtico può significare bastone, palo, palizzata, recinto, fortificazione;
usco: suffisso secondo alcuni studiosi serberebbe il ricordo di un primitivo insediamento di popolazioni liguri; secondo altri studiosi il suffisso troverebbe origine da componenti celtiche-rurali;
fare: erano famiglie longobarde quasi sempre imparentate tra loro, resta tutt'oggi il ricordo nei nomi di alcune località, come Fara d'Adda.
Luoghi popolati che terminano in ame, iame, ioma, aglia, eglia/o derivano o dal latino "alia" indicante ‘da altra parte’ o sono memoria di antiche invasioni germaniche-slave, dove jame significava grotte-posti per soffermarsi.

A Milano e nelle terre circostanti come la Brianza, dopo il periodo preistorico e protostorico pre cultura celtica, vi fu la cultura della popolazione celtica che durò finché Roma non sottomise definitivamente l’Insubria, con la susseguente completa romanizzazione anche delle terre brianzole. Dopo molti secoli, nel 313 d.C., Costantino si accordò con Licinio per consentire, con l'Editto di Milano, la pratica del culto cristiano. Nel periodo del vescovo Ambrogio e dell'imperatore Teodosio I, Milano, insieme alle terre circostanti, divenne centro molto influente della Chiesa d'Occidente. In queste terre Sant'Agostino fu convertito al cristianesimo nel 386 e ricevette il battesimo l'anno seguente. Infatti, Agostino d'Ippona parla di Cassiciaco come del luogo dove abitò nel tempo in cui si preparava al proprio battesimo. Cassiciaco sembra si possa identificare con Cassago Brianza (Lecco). ‘Settimane Agostiniane’ vengono oggi organizzate presso la Chiesa SS. Giacomo Maggiore Apostolo e Brigida Vergine d’Irlanda, proprio in Cassago Brianza. Rispetto al cattolicesimo, in queste terre vi fu fra l’altro anche l’influsso del cattolicesimo irlandese. L’originalità del monachesimo celtico si manifestava attraverso molte caratteristiche fra cui il rimarcare la cosiddetta peregrinatio pro Domino per mare, ovvero la partenza in nave e l'arrivo in una terra dove sarebbe sorto un nuovo monastero. Per quanto concerne il ricordo dell’antica impronta Benedettina, da menzionare l’ex monastero di Brugora a Besana in Brianza. Riguardo ai Francescani, suggestiva è la storia del Convento di Oreno (frazione di Vimercate). Movimenti religiosi degli Umiliati, dei Patarini e dei Catari si svilupparono per poi morire in diversi paesi della Brianza durante il Medioevo.
Negli ultimi anni dell'Impero romano vi furono numerose scorrerie barbariche nel territorio, fino al prevalere dei Longobardi. Dopo l'epoca Longobarda si arrivò alla annessione ad opera dei Franchi. Nell'XI secolo Milano e le terre circostanti come la Brianza acquistarono una crescente importanza ed indipendenza dal Sacro Romano Impero. Milano distrutta nell'aprile del 1162 da Federico I, detto il Barbarossa, rinacque dopo la vittoria della Lega Lombarda nella battaglia di Legnano del 29 maggio 1176.  
Federico Barbarossa trovò una alleata nella città di Monza. Federico permise a Monza anche il diritto, solitamente concesso solo alle città di "sede regia", di riscuotere tasse doganali. Nel periodo delle lotte contro Milano e le altre città della Lega, Monza (la residenza-capitale estiva del regno d’Italia all’epoca di Teodolinda e Agilulfo) era soprattutto un centro amministrativo. Questo periodo della storia monzese dura fino al 1185 quando il Barbarossa conclude la pace di Costanza con i rappresentanti dei Comuni appartenenti alla Lega Lombarda.
Anche Como (con altri comuni comaschi) fu alleata del Barbarossa. Nel 1159 il Comune lariano ospitò lo stesso Barbarossa con la consorte Beatrice di Borgogna che erano di passaggio. In quegli anni Como partecipò alla distruzione di Milano (nel 1162) e dell'Isola Comacina filomilanese. In data 23 ottobre 1178, Federico Barbarossa donò alla comunità di Como, quale premio alla sua  fedeltà, alcuni possedimenti. Qualche anno più tardi, Lecco sostenne il nipote del Barbarossa, l'imperatore Federico II, nella disputa fra papato ed impero, che fece riesplodere la divisione fra guelfi e ghibellini.
Sul finire del XIII secolo la Brianza subì le conseguenze delle lotte per il possesso di Milano tra le famiglie dei Della Torre e dei Visconti che si conclusero con il predominio di quest’ultima famiglia.
L’epoca del Ducato di Milano iniziò con i Visconti. Dopo l'episodica 'Aurea Repubblica Ambrosiana’ vi furono poi il Ducato degli Sforza, il Ducato francese, il periodo ‘spagnolo’ e la presenza asburgica austriaca. A seguito della campagna di Napoleone Bonaparte nell'Italia settentrionale, nel 1797 il Ducato fu ceduto dagli Asburgo alla Repubblica francese. Dopo la caduta di Napoleone e lo svolgimento del Congresso di Vienna, con la restaurazione, si costituì il Regno Lombardo-Veneto, dipendente dall’Impero Austriaco.
La guerra franco-piemontese contro l'impero austriaco del 1859 vide confrontarsi l'esercito franco-piemontese e quello dell'Impero austriaco. Con la sua conclusione, la Lombardia, tranne Mantova, fu ceduta al Regno di Sardegna, ponendo le basi per la costituzione del Regno d'Italia del 1861.

Nel 1898, pressoché 40 anni dopo, la situazione economica era gravissima. Si ricorda che in quegli anni emigrarono circa 519.000 lombardi. A Milano, nel 1898, a seguito dell'aumento del costo della farina e del pane, gravati dall'esosa tassa sul macinato, la popolazione affamata insorse e assaltò i forni del pane. L'insurrezione durò vari giorni e fu repressa nel sangue con i fucili e i cannoni al comando del generale Fiorenzo Bava-Beccaris, che poi per questa azione fu insignito con la Croce di grand'ufficiale dell'ordine militare di Savoia. Nella feroce repressione militare alcuni calcolano che vi furono più di cento persone uccise e centinaia di feriti. Tra le vittime, su di cui si sparò a mitraglia, vi furono anche le persone in fila per ricevere la minestra dai frati. Moti con le conseguenti repressioni vi furono anche in Brianza. Vi fu una caccia a persone in condizioni di vita miserevoli, innocue ma definite, in senso dispregiativo, briganti. Gaetano Bresci, secondo la filosofia di un certo anarchismo militante non pacifista, intese vendicare l'eccidio, perciò decise di uccidere re Umberto I d'Italia, in quanto responsabile in capo di questi tragici avvenimenti. L'attentato di Bresci, che risultò fatale per il Re, avvenne a Monza il 29 luglio 1900. Tutti gli amici più stretti e i parenti dell’anarchico vennero arrestati. Il giornale socialista L'Avanti, divenuto capro espiatorio nonostante non fosse affatto vicino agli anarchici, subì un'aggressione, in seguito alla quale vennero arrestati alcuni lavoratori del giornale. Molti anarchici (o ritenuti tali), vennero arrestati in tutta Italia e considerati colpevoli di apologia di regicidio.
In questo clima, il Listone, noto anche come Lista Nazionale, fu un'alleanza politica ideata e presieduta da Benito Mussolini, già al potere dopo la Marcia su Roma, che si presentò nelle elezioni politiche dell'aprile 1924. In dette elezioni il Listone, che su scala nazionale ebbe una media non inferiore al 60% dei votanti, in Brianza ottenne solo il 18,7 %. In alcuni comuni brianzoli la percentuale dei voti ottenuti fu addirittura poco superiore al 13%. Il fascismo non perdonò questo territorio, tanto che si instaurò un clima di terrore e vi furono  ritorsioni che colpirono molti circoli cattolico-popolari e circoli socialisti e comunisti.
Con l’avvento della democrazia post fascista, dopo il 1946, il territorio della Brianza rimase frazionato per molti anni nelle province di Como e di Milano. Nel 1992 venne ulteriormente diviso con la neo-istituita provincia di Lecco; dal 2004, a causa dell’enorme sviluppo urbanistico e demografico del territorio, la Brianza fu ulteriormente frazionata fra le province di Como, Lecco, Milano e la nuova provincia di Monza e della Brianza.

Nella giurisdizione ecclesiastica della Chiesa cattolica, pressoché tutti i comuni del territorio della Brianza fanno parte dell'arcidiocesi di Milano. Questa arcidiocesi segue il rito ambrosiano. Tuttavia, molti comuni appartenenti alle quattro provincie brianzole seguono il rito romano.
La Brianza situata nella provincia di Lecco fa parte dell'arcidiocesi di Milano e segue il rito ambrosiano; la parrocchia di Civate è di rito romano pur appartenendo all'arcidiocesi di Milano. Nella Brianza situata nella Provincia di Como i comuni del decanato di Cantù e Mariano Comense e dei decanati di Asso-Canzo, fanno parte dell'arcidiocesi di Milano e seguono il rito ambrosiano, mentre i comuni afferenti ad altri decanati appartengono alla diocesi di Como e seguono il rito romano; la parrocchia di Montorfano era fino al 1981 nell'arcidiocesi di Milano e di rito ambrosiano; Capiago Intimiano: Intimiano è di rito ambrosiano e fa parte dell'Arcidiocesi di Milano mentre Capiago è di rito romano e appartiene alla diocesi di Como. Nella provincia di Monza e della Brianza, i comuni della Brianza ex milanese sono di rito ambrosiano, mentre i comuni del Monzese: Monza, Brugherio e Villasanta, in considerazione di peculiarità storiche, seguono invece il rito romano. Nella provincia di Monza e della Brianza anche Cornate d'Adda, Busnago e Roncello, sono di rito romano. I comuni brianzoli rimasti nella provincia di Milano, fanno parte dell'arcidiocesi di Milano e sono di rito ambrosiano tranne quelli del decanato di Trezzo (Grezzago, Pozzo d'Adda, Trezzano Rosa, Trezzo sull'Adda e Vaprio d'Adda) che pur facendo parte dell'arcidiocesi di Milano, seguono il rito romano.
 
Dopo il periodo preistorico e protostorico pre-celti, il periodo dei celti, la romanizzazione, e, successivamente, le numerose invasioni barbariche, fino al prevalere dei Longobardi e quindi dei Franchi, con le relative fusioni di popolazioni e culture, il patrimonio delle tradizioni della Brianza si è formato nelle antiche tradizioni contadine ed artigiane del ‘periodo delle Pievi’, dopo il primo millennio. Le pievi videro poi anch'esse un succedersi di dominazioni in parte lombarde e in prevalenza di stranieri, che come in precedenza comportarono fusioni di popolazioni e culture, ben incardinate ed amalgamate dalle pievi. Alla fine del periodo, la Brianza vide i maggiori cambiamenti nel secondo millennio dopo nascita della Repubblica Italiana e poi con l'avvento del terzo millennio. Di seguito si tratta per l'appunto di questo continuum di contesti. Le tradizioni della Brianza derivano dunque da un'antica cultura intimamente legata al suo territorio ed alla sua storia. Il termine nominale contemporaneo di Brianza ha origine secondo la tradizione all’incirca dopo l'anno Mille. Il documento scritto in cui compare, con tutta probabilità per la prima volta il nome ‘Brianza’ è datato 16 agosto 1107. Si tratta di un lascito attraverso il quale la vedova del milanese Azzone Grassi dona i suoi possedimenti che aveva, «in loco et fundo seu monte qui dicitur Brianza», per la fondazione del monastero cluniacense di San Nicolao, presso Villa Vergano. Ma il toponimo non sarebbe stato ad indicare solo un monte: già nella iniziale suddivisione in parrocchie e poi in pievi, dei primi vescovi di Milano, (il capoluogo della Lombardia e sede vescovile dell'attuale arcidiocesi di Milano che ha fra le diocesi suffraganee anche quella di Como), si potevano definire sotto il nome di Briantia, quantomeno i villaggi ‘Briantini’, che si affacciavano sulla valle di Rovagnate e Perego (attualmente fusi nel nuovo Comune di La Valletta Brianza, in provincia di Lecco).
All'inizio del XV secolo, il nome di Brianza si conferma come area regionale. Lo si evince dal patto fatto dai procuratori omnia communia Montis Briantie contrate Martescane al duca Filippo Maria Visconti. Con ‘’….. contrate Martescane …..’‘ si fa riferimento a suddivisioni territoriali di cui viene talora trascurata l'importanza rispetto alla storia e alle tradizioni della Brianza. Queste suddivisioni territoriali erano essenzialmente connesse alle pievi e queste ultime alle autorità del clero e alle autorità civili, autorità fra di loro nel tempo anche in conflitto. Se il termine Pieve indicava infatti una circoscrizione ecclesiastica inferiore alla diocesi, in seguito assunse anche funzioni civili. Le pievi hanno determinato le basi forse più intense delle tradizioni della Brianza e  furono a lungo importanti, intrecciandosi intimamente con molte vicende storiche. Nel XII secolo, in età comunale, ad esempio, le pievi che sottostavano a precise autorità, si divisero in filo-milanesi e in favorevoli a Federico Barbarossa. La Brianza afferiva prevalentemente a pievi milanesi del contado della Martesana e solo alcuni comuni appartenevano a pievi limitrofe o a pievi del contado di Como dell'omonima diocesi. Al capoluogo delle pievi facevano riferimento i villaggi circonvicini, da cui in definitiva trassero origine gran parte degli attuali comuni. Queste strutture (intese sia come enti dipendenti dal clero sia come enti dipendenti da autorità civili) perdurarono fino a tutto il XVIII secolo, e fino ad allora ebbero un'importanza decisiva anche nel divenire storico-linguistico della Brianza, con influenze che durano tuttora.
Da quanto fin qui esposto risulta forse opportuno enunciare i nomi di dette pievi. Quelle milanesi erano le pievi di Agliate, di Brivio, di Desio, di Galliano, di Garlate, di Mariano, di Missaglia, di Oggiono, di Pontirolo, di Seveso, di Vallassina e di Incino, di Vimercate; le altre entità amministrative milanesi assimilate alle pievi e concernenti la Brianza erano: Squadra di Nibionno, Squadra dei Mauri, Corte di Casale detta in origine Squadra di Canzo. Altri comuni della Brianza, come complessivamente intesa, erano limitrofi a dette Pievi, oppure appartenenti al territorio del contado di Como. In definitiva furono profonde le trasformazioni, comunque interpretabili, del tessuto sociale brianteo ed indotte dal ‘sistema’ delle pievi con le autorità che le dirigevano. Il ‘sistema’ iniziato ecclesiasticamente in epoca medievale, dal XII secolo assunse anche funzioni civili, si modifica parzialmente nel XVII e nel XVIII secolo e si esaurisce nel XVIII secolo, quando vi fu verso di esso il momento di maggior rottura.

Nel XIX secolo la Brianza si caratterizzava per una economia che si fondava sull’artigianato e soprattutto su una fiorente agricoltura, oltremodo redditizia per le grandi quanto poche famiglie di possidenti. Oltre allo sviluppo dell'agricoltura, che mostrava sistemi avanzati e tecniche colturali intensive, nell'Ottocento iniziò anche il processo di industrializzazione della Brianza. Dopo la seconda metà del secondo millennio, (più precisamente nella seconda metà del XX secolo), si è trasformata in una delle zone più industrializzate d'Italia. Peculiari del periodo, dopo la nascita della Repubblica Italiana, erano le molte piccole e medie imprese, talora a carattere artigianale/familiare, e l'intensa immigrazione interna italiana stimolata dalle numerose opportunità di lavoro disponibili. Con "Briantitudine" (Brigantia, Briantia, Briansa / Brianza; -itudine) si intende un sentimento di riconoscimento di caratteristiche proprie ed identitarie della Brianza e della sua gente. La Briantitudine contiene in sé un apparente paradosso. Considerando, infatti, i flussi immigratori, la loro entità e le loro componenti (tutte le identità regionali della Repubblica Italiana), la fusione con gli autoctoni, il melting pot e la densità abitativa, si può affermare che un'identità prettamente locale di un'area regionale della Repubblica Italiana, rappresenti anche la complessità dell'identità italiana. Da rilevare come con l'inizio del terzo millennio è aumentata la presenza di cittadini dell'Europa comunitaria e di persone di provenienza extracomunitaria ed è iniziata altresì anche un'iniziale fusione con gli stessi. Il brianzolo, sia pure con le parlate leggermente diversificate da paese a paese ed anche da quartiere a quartiere, è ancora usato e/o compreso in Brianza, specie dalle persone più anziane.

Sulla Brianza nel blog sono presenti altri articoli interessanti, tra i quali:
 
 

venerdì 24 gennaio 2020

27 gennaio “Giorno della Memoria”
Renia Spiegel, la ragazza ebrea polacca che scrisse un diario come Anna Frank

«C’è sangue ovunque io mi giri. Lo sterminio è terribile. Ovunque morte e uccisioni. Dio onnipotente, per l’ennesima volta ci umiliano davanti a te, aiutaci, salvaci! Signore Dio, lasciaci vivere, ti prego, voglio vivere! Ho vissuto così poco della vita. Non voglio morire. Ho paura della morte. È tutto così stupido, così meschino, così poco importante, così piccolo. Domani potrei smettere di pensare per sempre».
È il 31 luglio 1942 quando la diciottenne ebrea polacca Renia Spiegel, rifugiata in un nascondiglio segreto, scrive sul suo diario queste ultime, drammatiche righe. Poche ore dopo viene scoperta dai nazisti e uccisa a colpi d’arma da fuoco. Di lei rimangono sette quaderni scolastici cuciti insieme: centinaia di pagine che raccontano gli ultimi tre anni e mezzo della sua vita. Un diario fitto di appunti, ricordi, confidenze e brevi poesie, ma anche osservazioni e pensieri sul mondo che le stava lentamente crollando addosso.
 
 
Aveva cominciato a compilarlo il 31 gennaio 1939, all’età di 15 anni, alcuni mesi prima dell’invasione nazista della Polonia e dell’inizio della Seconda guerra mondiale. All’epoca era una quindicenne appassionata di poesia, che viveva con la famiglia nella Polonia meridionale, non lontano dal confine con l’Ucraina. Una famiglia benestante, quella degli Spiegel: il padre Bernard proprietario terriero, la madre Rose una donna colta e poliglotta, la secondogenita Ariana lanciata nel mondo del cinema e del teatro. Anni spensierati, che ben presto lasciarono il passo alla tragedia. Con l’inizio della guerra e l’avanzata delle truppe naziste la famiglia Spiegel venne travolta dagli eventi, come moltissime altre.
Di lì a poco sua madre sarà costretta a trasferirsi a Varsavia per lavoro e Renia, insieme alla sorella minore Ariana, rimarrà con i nonni a Przemysl, una cittadina popolata in larga parte da famiglie ebree, nella parte di territorio controllata dai russi. Un luogo che con l’arrivo dei nazisti si trasformerà in un gigantesco ghetto. Nelle pagine del suo diario Renia documenta la vita prima dell’occupazione, poi il lento precipitare degli eventi, l’inizio dei bombardamenti, la fame e le privazioni, la misteriosa scomparsa delle famiglie ebree. «Ricordate questo giorno, ricordatelo bene -,scrive il 15 luglio 1942 - Ne parlerete alle generazioni future. Dalle otto di oggi siamo stati chiusi nel ghetto. Ora vivo qua. Il mondo è separato da me e io sono separata dal mondo».
Alcuni giorni prima il diario riporta il racconto del suo amore per un ragazzo di nome Zygmunt Schwarzer. figlio di un importante medico ebreo, che cercherà invano di salvarla. Il giovane fa scappare lei e sua sorella dal ghetto prima che entrambe vengano deportate dai nazisti: affida Ariana al padre di un’amica e nasconde Renia nella soffitta di una casa dove viveva suo zio. Ma i soldati tedeschi scoprono il nascondiglio e la uccidono. Da quel momento in poi la storia di Renia scivola lentamente nell’oblio, dove rimane fino ai giorni nostri. Soltanto in tempi recenti si è venuti a sapere che era stato lo stesso Zygmunt a recuperare il diario, e a concluderlo aggiungendo queste parole: «Tre colpi! Tre vite perse! Tutto ciò che sento sono i colpi, i colpi». Dopo la guerra, sopravvissuto ad Auschwitz, il ragazzo l’aveva restituito alla madre e alla sorella di Renia, che nel frattempo si erano rifugiate negli Stati Uniti. Ma quelle pagine facevano riaffiorare il ricordo della ragazza inghiottita dagli orrori dell’Olocausto ed erano troppo dolorose per i suoi familiari, che non riuscirono neanche a leggerle e preferirono dimenticarle. I sette quaderni furono depositati nella cassaforte di una banca newyorkese, dove sono rimasti confinati per quasi settant’anni, finché nel 2016 Alexandra Bellak, figlia di Ariana, e quindi nipote di Renia, non ha deciso che era giunto il momento di rendere pubblico il diario della zia, facendolo pubblicare da un piccolo editore polacco.

"Ero curiosa del mio passato, della mia eredità, di questa donna speciale da cui ho preso il nome - il mio secondo nome è Renata - anche se non parlo polacco. Mia mamma non ha mai voluto leggermelo perché era troppo doloroso per lei", ha detto Alexandra in un’intervista televisiva.
Quando lo legge per la prima volta Alexandra si commuove. "Ho capito la sua profondità e maturità, la scrittura fine e la poesia, e con l'attuale ascesa di tutti gli  'ismi' - antisemitismo, populismo e nazionalismo - mia madre ed io abbiamo pensato di riportare in vita il diario".
Le prime reazioni di chi ha già letto il libro sono state travolgenti. "Tanto i giovani quanto i meno giovani ne stanno lodando la scrittura eccezionale, il desiderio di una vita normale, la nostalgia per sua madre", ha sottolineato Alexandra.
Renia Spiegel (Fonte Wikipedia, nel pubblico dominio)
 
Qualcuno ha tentato un rischioso paragone tra il diario scritto da Renia e quello più famoso di Anna Frank. Altri hanno preso le distanze, precisando che le due ragazze hanno vissuto vicende assai diverse, che non consentono un paragone credibile. Renia visse pochi giorni nel ghetto, nel quale trascorse un’esistenza difficile e di breve durata, prima di essere uccisa nell’estate del 1942. Invece Anna Frank si trasferì insieme alla sua famiglia nell’alloggio segreto di Amsterdam con scorte di cibo per appena un mese. Sperava di non restarci più di poche settimane, ma alla fine vi rimase due anni. Oltre alle differenti condizioni dell’ultima fase della loro vita, è dunque lo scarto temporale a tracciare un solco tra i due diari. Quando Renia Spiegel muore, Anna Frank ha iniziato a compilare il suo diario soltanto da pochi giorni. Anna viene arrestata nell’agosto del 1944, quando la Germania è ormai in ginocchio. All’epoca Hitler aveva deciso di far sterminare tutti gli ebrei, e in Ungheria, per fare un esempio, c’era quasi riuscito. Anna Frank era a conoscenza della fine degli ebrei ungheresi, perché nel suo nascondiglio ascoltava Radio Londra. In quei lunghi mesi patisce la sofferenza della solitudine ma anche la paura, poiché nei diari completi alcuni passaggi testimoniano i suoi timori di essere scoperta. Lei sa che gli ebrei vengono deportati e poi uccisi nelle camere a gas. Renia invece non può ancora avere questa consapevolezza, e infatti è all’oscuro di tutto. Ciò non toglie che il diario di Renia Spiegel rappresenti un documento dall’importante valore storico e sia assai utile per conoscere la vita quotidiana degli ebrei nei ghetti durante la Seconda guerra mondiale.
Quanto mai toccanti sono le ultime pagine del diario: “Mio caro diario, mio caro, caro amico! Abbiamo attraversato momenti così terribili insieme e ora il momento peggiore è alle porte. Potrei avere paura adesso. Ma colui che non ci ha lasciato, allora ci aiuterà anche oggi. Ci salverà. Ascolta, Israele, salvaci, aiutaci. Mi ha tenuto al sicuro da proiettili bombe, dalle granate. Aiutami a sopravvivere! E tu, mia cara mamma, prega per noi oggi, prega, prega intensamente. Pensa a noi e possano i tuoi pensieri essere benedetti”.
Poche ore dopo, come detto, Renia sarebbe stata uccisa per mano di un soldato nazista. Alla giovane ebrea polacca sopravvisse il potente afflato delle parole affidate al suo diario: leggendole oggi fanno pensare, e fanno commuovere. 

Beniamino Colnaghi

martedì 7 gennaio 2020

Museo Etnografico dell'Alta Brianza
Località Camporeso - Galbiate (Lecco)
 
Evviva la sposa!
Il matrimonio in Brianza e in altri contesti
a cura di Rosalba Negri e Massimo Pirovano
 

La mostra rimarrà aperta fino a domenica 24 maggio 2020
 
Info MEAB tel. 0341. 240193 - http://meab.parcobarro.it/
Anche su Facebook