domenica 28 aprile 2024

Il celebre discorso di Pericle sulla Democrazia

 

Pericle, politico e militare ateniese, si rivolge ai suoi concittadini sul tema della democrazia. Un discorso tenuto nel 431 a.C., in commemorazione dei caduti del primo anno della guerra del Peloponneso.

E' stato osservato da alcuni studiosi che si tratta, evidentemente, da parte di Pericle, di una idealizzazione estrema del concetto di democrazia, lontana dall'applicazione reale della politica concreta. Di grande interesse e attualità, tuttavia, l'invito di Pericle alla moralizzazione della politica stessa, per cui «un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private».

Decisamente attuali sono anche due riflessioni finale di Pericle, quando dice,  parlando di Atene, che in quel momento storico esercita un'egemonia incontrastata nel mondo greco e non solo: “Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile” e poi chela nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero”.



 

PERICLE, DISCORSO AGLI ATENIESI, 431 A.C.

 

Qui ad Atene noi facciamo così.

Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.

 

Qui ad Atene noi facciamo così.

Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.

 

Qui ad Atene noi facciamo così.

La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.

 

Qui ad Atene noi facciamo così.

Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.

 

Qui ad Atene noi facciamo così.

Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.

 

Qui ad Atene noi facciamo così.


martedì 9 aprile 2024

Sviluppo, Progresso, Austerità in Pasolini e Berlinguer


I temi dell’austerità e della “decrescita felice”, opposti alle teorie economiche dello sviluppo quantitativo illimitato, dell’aumento della spesa, della depredazione dell’ambiente e dei territori, sono alcuni tra i termini che più ricorrono, a livello mondiale, nel dibattito politico da diversi anni a questa parte. L’austerità, innalzata a paradigma economico dalle destre liberiste e stigmatizzato dalle sinistre progressiste e dai movimenti ambientalisti, è un concetto che in ogni caso fa parlare di sé.
Oggi con austerità siamo soliti riferirci a un insieme di provvedimenti economici e politici che prevedono un forte taglio della spesa al fine di contenere il debito pubblico. Le famose misure lacrime e sangue, che, come è ormai evidente e riconosciuto da chi non ha fette di salame sugli occhi, non hanno fatto altro che deprimere ulteriormente economie già in crisi. Eppure non è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui con austerità si intendeva qualcosa di diverso.
A portare avanti la bandiera dell’austerità in Italia sono stati, tra gli altri, nel corso degli anni Settanta, due dei personaggi più grandi e affascinanti del nostro Novecento, uomini di sinistra e, più precisamente, comunisti: Pier Paolo Pasolini ed Enrico Berlinguer. Ma come, si dirà, non abbiamo appena detto che l’austerità è il mantra delle destre liberiste? Allora perché due esponenti così di spicco, seppur in modo radicalmente diverso, del comunismo italiano si sono fatti portavoce dell’austerità? La risposta è in verità molto semplice: perché l’intellettuale friulano e il politico sardo con austerità intendevano tutt’altro da ciò che si intende oggi con il medesimo termine.
Vediamo subito di contestualizzare storicamente la riflessione delle due personalità in questione: siamo negli anni Settanta, al termine di anni di crescita fortissima, il boom economico, seguiti dopo che era terminato il Secondo conflitto mondiale. In questo lasso di tempo il rapporto capitale/reddito nei paesi europei è crollato, i consumi privati sono esplosi e ha visto la luce quel fenomeno del consumismo contro cui Pier Paolo Pasolini, sopra ogni altro, ha scritto pagine di denuncia fortissime.
Dai cambiamenti avvenuti in questi pochi decenni l’Italia ne esce radicalmente trasformata. Ma questa improvvisa impennata di benessere non è destinata a durare a lungo: basti citare la famosa crisi petrolifera dei primi anni Settanta.
Poi vennero gli anni ’80, il neoliberismo e il mercato privo di regolamentazione e con pochi interventi statali, teorie portate avanti dal presidente americano Reagan e dalla premier inglese  Thatcher,  che ebbero come risultati massicce privatizzazioni, lo smantellamento dello stato sociale, il taglio dei fondi per il sistema sanitario e pensionistico.

Pier Paolo Pasolini


Pasolini inizia a scrivere di consumismo appena entrati negli anni Settanta e proseguirà pressoché ininterrottamente fino alla sua tragica e violenta morte, avvenuta a Ostia il 2 novembre 1975, ad opera di esecutori materiali e mandanti rimasti fino ad oggi sconosciuti. Ricordiamo che siamo in un periodo storico nel quale, a partire dal 1969, con la strage di piazza Fontana a Milano, si susseguono una serie preordinata e ben congegnata di attentati terroristici e uccisioni eccellenti, che venne definito col termine di strategia della tensione.    
Possiamo, a grandi linee, riassumere così la complessa e fitta elaborazione teorica dell’autore: per Pasolini il fenomeno della diffusione del consumismo, determinato dal cambiamento nei modi di produzione conseguente al boom economico, ha causato una mutazione antropologica negli italiani, la quale è un fenomeno di omologazione culturale totale e di conseguenza di genocidio culturale. Ai fini di quanto viene però trattato qui, è necessario prendere in esame lo scritto inedito Sviluppo e progresso, pubblicato in Scritti corsari, edito da Garzanti nel 1975, che precedette di pochi mesi la scomparsa dell’Autore. Scrive Pasolini: «Ci sono due parole che ritornano frequentemente nei nostri discorsi: anzi, sono le parole chiave dei nostri discorsi. Queste parole sono “sviluppo” e “progresso” […]. Bisogna assolutamente chiarire il senso di queste parole e il loro rapporto».
Lo sviluppo, prosegue l’autore… «ha oggi una rete di riferimenti che riguardano un contesto indubbiamente di “destra”. Chi vuole infatti lo “sviluppo”? Cioè, chi lo vuole non in senso astratto e idealmente, ma in concreto e per ragioni di immediato interesse economico? È evidente: a volere lo “sviluppo” in tal senso è chi produce; sono cioè gli industriali. E, poiché lo “sviluppo” in Italia è questo sviluppo, sono per l’esattezza, nella fattispecie, gli industriali che producono beni superflui. La tecnologia… ha creato la possibilità di una industrializzazione praticamente illimitata, e i cui caratteri sono ormai in concreto transnazionali. I consumatori di beni superflui, sono da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d’accordo nel volere lo sviluppo, questo sviluppo».
Per Pasolini, dunque, lo sviluppo è essenzialmente lo sviluppo industriale, cioè la crescita quantitativa della produzione di beni. Secondo l’intellettuale friulano però anche le “masse” vogliono questo sviluppo, poiché esso «significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali che avevano loro fornito i modelli di “poveri”, di “lavoratori”, di “risparmiatori”, di “soldati”, di “credenti”». Proprio questa abiura dei valori culturali costituisce il nocciolo della mutazione antropologica, che Pasolini osserva essere avvenuta in Italia negli anni del boom.
Definito in questi termini lo sviluppo, cos’è allora il progresso? Per Pasolini esso è «una nozione ideale (sociale e politica): là dove lo “sviluppo” è un fattore pragmatico ed economico» e a volerlo sono «coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare […]: lo vogliono gli operai, i contadini, gli intellettuali di sinistra. Lo vuole chi lavora e chi è dunque sfruttato». Il progresso è dunque un miglioramento delle condizioni di vita. Come può esistere un progresso senza sviluppo, può d’altro canto esistere uno sviluppo senza progresso e questo è quanto avvenuto nell’Italia del boom: all’esplosione dell’industrializzazione e all’aumento dei redditi non ha fatto da contraltare un salto in avanti sul piano culturale e sociale. Per concludere, secondo Pasolini «è questa dissociazione che richiede una “sincronia” tra “sviluppo” e “progresso”, visto che non è concepibile (a quanto pare) un vero progresso se non si creano le premesse economiche necessarie ad attuarlo».
Un pensiero di una modernità sconvolgente, alla faccia di chi vede in Pasolini un nostalgico reazionario.
È bene notare che in Pasolini non compare mai il termine austerità, ma possiamo comunque dire che, se avesse avuto questo termine nel suo lessico, lo avrebbe certamente utilizzato come antitesi politica ed economica al consumismo.

Enrico Berlinguer


Questo concetto è invece utilizzato esplicitamente da Enrico Berlinguer nel discorso che ha tenuto al Teatro Eliseo di Roma, in chiusura del convegno degli intellettuali promosso dal Pci il 15 gennaio 1977 e poi inserito nella raccolta di scritti La passione non è finita (Einaudi, 2013) con il titolo Austerità. Occasione per trasformare l’Italia.
Non sappiamo che rapporti intercorressero fra Pasolini e Berlinguer; ciò che è certo è che entrambi erano marxisti, comunisti, grandi uomini di cultura. Berlinguer, senza farsi preannunciare, si recò alla Casa della Cultura in Campo dé Fiori, a Roma, in un freddo pomeriggio di novembre del 1975, poco prima che venissero celebrati i funerali laici di Pasolini. Gli rese omaggio, passando davanti alla bara dell’intellettuale assassinato. Alberto Moravia diede palese sfogo  al  suo dolore per l’ignominia dell’assassinio del suo amico Pier Paolo: “Con lui abbiamo perso un testimone costante delle contraddizioni del nostro tempo… La sua diversità, che consisteva nel coraggio di dire sempre la verità, aveva fatto di lui un elemento prezioso della nostra cultura… Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E  poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo”.
Nell’Introduzione a La passione non è finita, è lo storico Miguel Gotor a tracciare un ponte tra i due:
«Non da meno, sempre sul piano dell’influenza culturale, svolsero un ruolo le riflessioni di Pier Paolo Pasolini, proprio in quegli ultimi tempi riavvicinatosi al Pci: la critica della persuasione occulta svolta in primo luogo dalla TV, l’edonismo interclassista che imponeva ai giovani di omologarsi provocando nevrosi e frustrazioni in chi non vi riusciva, l’idea che il potere “avesse bisogno di un tipo diverso di suddito che fosse prima di tutto un consumatore”, la distinzione tra “progresso” e “sviluppo” […]  si tratta di una serie di tematiche che ricorrono tutte anche in Berlinguer».
Gotor, oltre allo scrittore friulano, individua altre due figure a costituire i fondamenti culturali della nozione di austerità utilizzata da Berlinguer, cioè Franco Rodano e Antonio Tatò, entrambi di estrazione cattolica. A fianco delle suggestioni culturali, Gotor vi identifica anche ragioni più prettamente politiche. Scrive lo storico: «Se ne accorsero in pochi, ma già il Comitato centrale dell’ottobre 1976 aveva posto all’ordine del giorno la parola austerità sin dal titolo della relazione di Berlinguer», una relazione preparata nel corso di lunghe sedute notturne insieme a Luciano Barca. Sempre come ricostruisce Gotor, la nozione di austerità elaborata da Berlinguer… «si proponeva di offrire una risposta alternativa e concorrenziale alla proposta di austerità che negli stessi anni era stata elaborata dalle classi dirigenti italiane più conservatrici in termini di sacrifici per i soli operai […]. Adottando la visione gramsciana della crisi come cambiamento, egli voleva dimostrare che un’altra austerità era possibile, a patto che diventasse un’occasione per trasformare i rapporti di forza tra capitale e lavoro, e per ridurre le differenze sociali».
Con la proposta dell’austerità, formulata, come si diceva, durante il convegno al Teatro Eliseo del 1977, Berlinguer afferma la volontà di coinvolgere le forze della cultura nella elaborazione di un progetto di rinnovamento della società italiana, alo scopo di dare “un senso” alla politica dell’austerità, che costituisce da una parte una scelta necessaria, ma che può anche essere una condizione di salvezza per i popoli dei paesi avanzati e una occasione per cambiare l’Italia. Essa infatti per i comunisti italiani non è uno strumento congiunturale per il ripristino dei vecchi meccanismi economici, ma il mezzo per iniziare a costruire un diverso sistema economico, non più basato sul consumismo e sull’individualismo esasperati, ma sulla giustizia sociale e sulla solidarietà.
Sempre secondo Gotor, la proposta berlingueriana e quella pasoliniana sono di fatto identiche: coniugare lo sviluppo e il progresso, nelle accezioni di questi termini di cui sopra. Alla contestualizzazione dell’austerità secondo Berlinguer, è necessario far seguire una riflessione sul significato di questa nozione che è insieme un preciso programma di azione politica:
«Questa esigenza di coniugare sviluppo e progresso nasce dalla consapevolezza che occorre dare un senso e uno scopo a quella politica di austerità che è una scelta obbligata e duratura, e che, al tempo stesso, è una condizione di salvezza per i popoli dell’occidente, io ritengo, in linea generale, ma, in modo particolare, per il popolo italiano. L’austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. […] Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci hanno portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi si manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata».
Queste parole, drammaticamente contemporanee, sono il manifesto dell’austerità così come intesa da Enrico Berlinguer. I punti di contatto con la riflessione svolta qualche anno prima da Pasolini sono numerosissimi, a partire dalla critica al consumismo e al capitalismo come produzione di beni superflui (lo “sviluppo” pasoliniano), per arrivare all’austerità come chiave per una trasformazione della società. Quel generico anti-consumismo di Pasolini, con Berlinguer trova un termine suo proprio: austerità.
Sarebbe allora davvero molto difficile sostenere che Berlinguer non abbia mai letto Pasolini: le tematiche in comune sono troppe per essere meramente casuali. Sembrerebbe anzi che il segretario del Pci abbia preso a spunto alcune intuizioni del poeta, arricchendole con gli spunti provenienti da eminenti figure del mondo cattolico e marxista e con l’incontestabile valore personale. Il risultato è un’elaborazione potentissima: un termine generalmente negativo, quale ancora oggi è, viene completamente risvoltato fino a diventare la chiave per immaginare uno sviluppo, già da ora diverso, ponendo in primo piano la questione ecologica e ambientale, che deve necessariamente essere la battaglia politica del XXI secolo, se l’umanità vorrà avere ancora un futuro sulla terra.
Allora le parole di Pasolini e Berlinguer su questa strana specie di austerità, formulate ormai cinquant’anni fa, devono tracciare il cammino delle nuove generazioni che desiderano costruire tenacemente una società diversa e che non vogliono arrendersi all’esistente.

Beniamino Colnaghi

Note e bibliografia

Alcune parti di questo post sono tratte dall’articolo di Michele Castelnuovo, “La (vera) austerità: Pasolini e Berlinguer” su FRAMMENTI RIVISTA, Il mondo con gli occhi della cultura.

Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti Editore s.p.a, 1975

Barth David Schwartz, Pasolini Requiem, La nave di Teseo, Milano, 2020

Enrico Berlinguer, Un’altra idea del mondo, Antologia 1969-1984, a cura di Paolo Ciofi e Guido Liguori, Editori Riuniti university press, Roma, 2014