sabato 4 marzo 2023

Cercare la verità, solo dopo averla trovata Pier Paolo Pasolini riposerà in pace

A 48 anni dai fatti, l'omicidio più controverso e discusso dell'Italia del secondo dopoguerra ritorna a far parlare le pagine dei giornali. Quasi mezzo secolo di misteri, depistaggi, inefficienze di alcuni apparati dello Stato, inutili tentativi di arrivare alla verità, l'omicidio di Pasolini resta molto probabilmente uno dei più intricati e tormentati gialli italiani, un intreccio di cronaca nera, bande criminali e trame occulte. La verità giudiziaria è al momento congelata dalla sentenza della Corte di cassazione che attribuisce al solo Pino Pelosi la responsabilità dell'assassinio.

Nei giorni scorsi un avvocato romano, per conto del regista David Grieco e dello sceneggiatore Giovanni Giovannetti ha presentato una nuova richiesta di riapertura dell'inchiesta giudiziaria presso la Procura di Roma. Non è la prima e non è una novità. Nella motivazione della richiesta, il legale fa presente che su alcuni indumenti appartenuti al Pelosi, è stato rilevato il Dna in particolare di due persone diverse da Pasolini, che dovranno essere confrontati con i Dna di altre persone, pare appartenenti alla malavita romana. 

Restiamo a vedere, seguiamo gli sviluppi. Ma non mi faccio molte illusioni, in questo Paese ancora avvolto dai suoi fantasmi e nelle sue trame, spesso oscure. 

Nel frattempo invito i lettori di questo blog a leggere la ricostruzione, qualora non l'avessero già fatto, che due grandi giornalisti e storici italiani, Gianni Borgna e Carlo Lucarelli, fecero nel 2005 sull'omicidio di Pier Paolo Pasolini. Da allora poco o nulla è cambiato, se non le richieste di nuovi accertamenti giudiziari, andate a vuoto, e la morte di Pino Pelosi, avvenuta nel 2017.

Beniamino Colnaghi

http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2016/11/il-caso-pier-paolo-pasolini-5-marzo1922.html



giovedì 2 marzo 2023

Lavoro e vita quotidiana delle classi popolari in Brianza: oggetti, voci e gesti della tradizione in un nuovo museo di società

di Massimo Pirovano *

Il Museo Etnografico dell’Alta Brianza, inaugurato a Galbiate nel 2003 e riconosciuto dalla Regione Lombardia come uno dei pochi musei del settore etnoantropologico nel suo territorio, è dedicato agli usi e costumi della gente della Brianza storica, la regione collinare in buona parte compresa nella provincia di Lecco, a ridosso del lago di Como e delle Prealpi.

“Brianza storica” perché, come ricordava don Rinaldo Beretta, alla metà del ‘400 questo territorio cominciò ad essere identificato attraverso una serie di esenzioni fiscali o di privilegi che furono via via concessi dai Visconti e dagli Sforza ai paesi di alcune Pievi lombarde e ad alcune famiglie, in virtù della loro fedeltà politico-militare ai signori di Milano. Si trattava delle pievi di Oggiono, di Garlate, di Brivio con Ronco, di Missaglia e di Agliate oltre il Lambro, cui si aggiunsero le squadre dei Mauri e di Nibionno, nella pieve di Incino (Erba) ma al di qua del Lambro, dislocate attorno al Monte di Brianza.

Dal ‘700 in poi le attrattive del paesaggio, le ville sempre più numerose e prestigiose dei benestanti milanesi, la notorietà del Monte di Brianza, portarono a quella che il Beretta ha definito “la tendenza ad allargare in modo generico l’estensione dell’antico territorio briantino”, fenomeno che divenne macroscopico nell’Ottocento, sia a nord verso il triangolo lariano, sia a ovest verso il torrente Seveso, sia a sud verso Monza. 

Il nostro museo, però, non si preoccupa di segnare confini, ma piuttosto di studiare e fare conoscere la storia sociale e la cultura di chi è vissuto e vive in questo territorio, una cultura sempre in divenire anche grazie ai continui scambi con usanze, pratiche e vicende di altre zone.

In altre parole si tratta di un museo che parla della vita quotidiana, dei lavori tradizionali, dei costumi, delle credenze, delle forme espressive delle classi popolari nei secoli XIX e XX, attraverso manufatti, documenti e tracce che rimangono ancora negli edifici e nel paesaggio, segni di un’epoca che ci conduce dall’età preindustriale fino ad oggi, con notevoli trasformazioni ma anche con significative permanenze di ‘lunga durata’.
La particolarità di questo museo è di raccogliere, e in parte di presentare ai visitatori, oltre agli oggetti, ai documenti scritti e alle fotografie, le testimonianze orali registrate e i filmati raccolti ‘sul campo’, necessari per studiare e far conoscere le pratiche, i saperi, le relazioni sociali, le credenze delle donne e degli uomini vissuti in questo territorio.
Questa scelta deriva dalla constatazione che la cultura delle classi popolari si caratterizza, rispetto a quella delle élites, per il prevalere della comunicazione orale, che ha i dialetti come strumenti fondamentali, e di quella visiva nella trasmissione del sapere, nell’espressione artistica, nella definizione dei modelli di comportamento.
Il museo, quindi, non vuole essere un contenitore di materiali muti e di informazioni fredde, ma intende coinvolgere anche emotivamente il pubblico, fornendo elementi di conoscenza e di stimolo ad una riflessione imperniata sul confronto tra culture diverse nel tempo e nello spazio.
Per questo, accanto alla visita, si propongono conferenze, dibattiti, concerti, esibizioni e incontri con i portatori della tradizione.

Camporeso

La sede del museo si trova nel borgo di Camporeso, un nucleo agricolo a corte chiusa, già attestato all’inizio del Trecento, con una residenza padronale dotata di oratorio settecentesco e le abitazioni dei coloni. Proprietari della porzione più consistente di Camporeso sono stati i nobili Tinelli di Gorla e, per la porzione a monte, l’Ospedale Fatebenefratelli. E’ in quest’ultimo compendio, acquisito dal Parco del Monte Barro nel 1991 dall’USSL di Lecco, che è stato realizzato il museo. Fino ad epoca recente gli ambienti a piano terra erano adibiti a stalle, mentre al primo piano vi erano le abitazioni coloniche e nel sottotetto i fienili.
Chi giunge per la prima volta all’ingresso del museo può notare, sopra la porta, le labili tracce di un dipinto popolare, di cui è però possibile identificare i soggetti principali, secondo un modello assai diffuso: la Madonna in piedi a sinistra e Giobbe seduto sulla destra. A loro veniva affidato ogni anno nel mese di maggio la buona riuscita dell’allevamento dei bachi da seta. A questa attività, illustrata attraverso strumenti di lavoro, oggetti, fotografie e voci, è dedicata la prima stanza del museo. Per più di due secoli, infatti, in Brianza e nel Lecchese, la bachicoltura ha avuto grande importanza nell’economia e nella vita quotidiana per i contadini, tanto da modificarne il paesaggio con una presenza fittissima di gelsi, delle cui foglie si nutre il baco. Dell’allevamento del baco si occupavano in particolare le donne contadine, che, nei mesi successivi erano impegnate anche nella trattura del filo di seta che si compiva nelle filande.
Con un lavoro molto impegnativo, anche se di poche settimane tra maggio e giugno, in effetti, i contadini si garantivano un’importantissima entrata di contanti dopo le ristrettezze della stagione invernale, a condizione che non intervenissero malattie del baco e del gelso.
Dalla seconda metà dell’Ottocento la produzione subì varie flessioni anche per la concorrenza straniera, fino allo smantellamento massiccio delle filande dopo il 1930 e alla loro chiusura negli anni ’50.
Gelso e baco da seta, fieno e bovini, mais, frumento, vite sono stati i prodotti principali dell’agricoltura in Brianza tra Settecento e Novecento.
Un ampio spazio della sala dedicata all’agricoltura presenta immagini e strumenti relativi alla coltivazione del mais. Una sequenza di diapositive illustra le varie fasi della lavorazione tradizionale, dall’aratura all’erpicatura, dalla semina alla raccolta, dalla sgranatura alla essicazione, alla conservazione.
Originario dell’America, il mais è stato a lungo in Europa una pianta ornamentale da giardini; è solo nel Settecento che comincia ad avere una presenza significativa, per raggiungere un’importanza centrale nella produzione agricola tra il 1750 e il 1850.
Il granoturco divenne una coltura molto importante nella nostra zona e la sua diffusione fu voluta dai contadini più che dai proprietari delle terre. Il suo valore commerciale, infatti, era scarso, mentre era molto richiesto il frumento, cui i proprietari chiedevano che fosse destinata la maggior parte dei fondi. I contadini, però, coltivavano il granoturco anche sotto le viti, sulle balze delle colline, dissodando la terra con la vanga, dove non si poteva arrivare con l’aratro. Ciò perché la loro alimentazione era imperniata su pani di cereali misti e soprattutto sulla polenta, che fono alla seconda guerra mondiale si mangiava anche tre volte al giorno.
Nella stessa sala dedicata all’agricoltura sono esposti gli strumenti della fienagione. I foraggi, e principalmente il fieno, sono stati tra le produzioni maggiori per quantità e più costanti nel tempo, dell’agricoltura lecchese.
La produzione del fieno era infatti un’attività strategica nell’economia agricola e ad essa veniva dedicato molto lavoro: tre ‘tagli’ all’anno, che significavano, per tre volte, operazioni di sfalcio, raccolta, essicazione, trasporto e conservazione: un insieme di operazioni assai impegnative per il contadino, perché, fino all’introduzione della falciatrice meccanica, tutto, e a volte persino il trasporto dal prato al fienile, era affidato al lavoro manuale.
La sala del museo espone gli attrezzi impiegati ed illustra le varie fasi del lavoro e delle operazioni ad esso collegate, con un breve filmato: dalla preparazione del prato mediante la sua concimazione al taglio, dall’affilatura della falce all’essicazione, dal trasporto alla conservazione. Queste informazioni si integrano con quelle fornite sull’allevamento nella parte dedicata alla stalla.
Nella società tradizionale la stalla era forse il luogo più importante della vita contadina, destinato alla custodia degli animali (bovini e equini, prima di tutto, in particolare nelle ore notturne e nel periodo invernale) ma anche al ritrovo delle persone, alla comunicazione tra le generazioni e i sessi, alla educazione dei bambini, al corteggiamento tra i giovani, alla trasmissione delle credenze mediante i racconti, e di pratiche religiose, come la recita del rosario. Nelle ore serali e nella stagione fredda era inoltre un luogo dove si svolgevano lavori artigiani sia femminili che maschili.
L’allevamento bovino nella nostra zona era praticato in stalle piccole, in media con due-tre bestie grosse, anche in proporzione della disponibilità di foraggio, ed alla forza lavoro su cui poteva contare la famiglia contadina. Gli animali, comprese le pecore che davano la lana, erano un bene molto prezioso per la famiglia contadina, che li affidava alla protezione di sant’Antonio abate, una figura che era rappresentata accanto al maiale ma spesso anche ad altri animali domestici.
L’allestimento di questo ambiente è giocato sull’ostensione di pochi oggetti, su una proiezione di dipinti e foto d’epoca (tra cui compare anche una foto in bianco e nero scattata nel 1917 in una stalla di Cucciago) sulla diffusione di materiali sonori che evocano le varie componenti della comunicazione orale che avveniva in stalla.
Nel museo la stalla si apre sul portico. Qui si è deciso di esporre i mezzi usati per il trasporto che si giovava del lavoro manuale e le bardature per buoi e cavalli.
Nella società tradizionale, però erano prima di tutto i contadini – uomini e donne – a trasportare quotidianamente prodotti, merci, oggetti: dai prati al fienile, dal bosco alla legnaia, dall’orto al mercato, dal mercato alla casa, dal pozzo alla cucina, dalla casa al lavatoio. Prima della meccanizzazione e della diffusione del benessere, che avrebbero portato all’uso anche tra le classi popolari della bicicletta prima e dei veicoli a motore poi, si impiegavano gli animali da soma e da tiro (cavalli, asini, muli e soprattutto buoi) ma più spesso si usava il proprio corpo per portare i carichi a braccia, a spalla o sul dorso. Il trasporto era per tutti una dura necessità, ma per il colono c’era l’obbligo di trasportare fino alla casa del padrone quello di cui costui aveva bisogno.
La Brianza ha una vocazione vitivinicola molto antica. Il museo ne rende conto nella sezione sulla viticoltura nella sala sull’agricoltura e nella cantina, anche attraverso immagini, interviste e filmati realizzati negli ultimi anni. In passato i vini prodotti nella nostra regione erano estremamente apprezzati – valgano per tutti i giudizi entusiastici che ne dava nei suoi versi Carlo Porta. A partire dalla metà dell’Ottocento tuttavia una serie di calamità, dovute a malattie giunte dall’America, si abbatté sulla viticoltura brianzola, come su quella di tutta Europa: dapprima l’oidio che a partire dal 1850, causò un gravissimo tracollo della produzione. La scoperta dell’azione dello zolfo contro il parassita permise di superare la crisi; ma già alla dine degli anni ’70 comparve la peronospora, un altro fungo parassita che provoca la morte della vite. La gravissima crisi provocata dalla diffusione della fillossera, dopo il 1879, fu superata grazie al ricorso dei vitigni americani, dimostratisi resistenti al parassita: si rivelò infatti possibile coltivare, da un lato, varietà di viti americane per la produzione diretta di uva, e dall’altro, salvare le antiche varietà europee, assai più pregiate, innestandole su vitigni americani. Tra i primi “produttori diretti”  ad essere importati (ancora nell’Ottocento) fu il tuttora diffusissimo Clinton (localmente clinto).
Oggi solo nei comuni intorno alla collina di Montevecchia, si produce vino secondo gli standard moderni con un’attività economica specializzata. D’altra parte la piccola viticoltura, praticata a livello familiare più per ragioni sentimentali che economiche, ha fatto sì che il museo abbia ricevuto le donazioni di molte famiglie, di oggetti e strumenti utilizzati nella vigna o in cantina.

I flauti di Pan in una sala esposizioni del Meab

Un museo della vita quotidiana delle classi popolari, oltre a dare lo spazio adeguato alle varie attività produttive, non deve dimenticare gli aspetti della vita festiva. In questa prospettiva si colloca la sezione che il MEAB dedica al flauto di Pan. Ampiamente documentato in tutto il mondo attraverso quattro tipologie fondamentali, questo strumento fatto di canne ha trovato posto già nella mitologia e nella letteratura classica greca e romana. In Europa, la sua presenza è attestata lungo una fascia geografica che partendo dalla Spagna giunge alla Romania, con propaggini in Lituania e Russia. In Lombardia viene indicato con termini come firlinfö, fregamüsón, fit-fut, orghenìi, sìfol.
Già presente in Brianza tra il XVIII e il XIX secolo, come strumento di cascina e di osteria, dapprima come solista e, in seguito, collocato in piccole bande accanto ad altri strumenti  musicali quali, ad esempio, la chitarra, la fisarmonica o l’armonica a bocca, il firlinfö si afferma nella sua dimensione orchestrale a partire dalla fine dell’800. La costituzione e la diffusione dei gruppi folcloristici di firlinfö si realizza a partire dagli anni ’20 e ’30, sotto la spinta dell’Opera Nazionale Dopolavoro ed è continuata grazie anche all’apporto dell’ENAL, subentrata all’OND, negli anni del dopoguerra. Oggi i gruppi folcloristici di   firlinfö sono presenti nelle provincie di Bergamo, Como, Lecco, Milano, ed anche nel Canturino.
Di alcuni costruttori, a cui hanno fatto o fanno riferimento i suonatori del territorio brianzolo, è stata documentata l’attività e, per mezzo dei loro manufatti e delle loro informazioni, la sala del museo è in grado di illustrare le tecniche costruttive dello strumento. Sono inoltre presentate la struttura degli organici bandistici e il ruolo dei maestri, nonché le modalità esecutive con cui i repertori vengono interpretati.
L’esposizione degli allestimenti – permanenti o temporanei – nel museo rappresenta, dunque, l’ultimo passaggio di un processo di ricerca, sempre aperta a nuovi sviluppi, che è stata affidata ad alcuni specialisti, impegnati talora a coordinare gruppi di lavoro e seminari di formazione per la ricerca etnografica.
Queste indagini hanno prodotto negli anni diverse pubblicazioni – volumi, documentari, compact disc – ad alcune delle quali sono stati assegnati importanti riconoscimenti a livello nazionale (Premio Pitrè – Salomone Marino 1998 e Premio Nigra 2003).
Destinatari privilegiati della proposta formativa del museo sono, però, i bambini e i ragazzi in età scolare, per i quali sono pensate specifiche visite e attività di laboratorio.
Ciò che si vuole favorire soprattutto è l’incontro diretto tra i ragazzi e i ‘portatori’ della tradizione, con le loro esperienze, i loro ricordi, la loro cultura, secondo una formula che è stata battezzata: “al museo con il nonno”. Nel territorio circostante, poi, è possibile visitare aziende e soggetti che ancora operano nell’ambito delle attività tradizionali.
La ricca articolazione di interventi che il museo propone è possibile anche grazie alla fattiva collaborazione degli amici del museo che si esprime in molti momenti e in varie forme, a partire dall’apertura ai visitatori per oltre 20 ore settimanali.
Anche questo aspetto fa del museo etnografico qualcosa di diverso dagli altri tipi di museo: un museo che parla della società, ma anche un museo di società.

*Massimo Pirovano è uno studioso di etnografia, dirige il MEAB.

Museo Etnografico dell’Alta Brianza, Località Camporeso, 23851 Galbiate LC

Il Meab: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2013/11/le-tradizioni-popolari-brianzole-nel.html

Il fluto di Pan: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2017/01/ilflauto-di-pan-mitologia-e-tradizioni.html