venerdì 21 dicembre 2012

Leggende dal ghetto di Praga: Mordechai Maisel
 

Sull’argomento che riguarda l’insediamento dell’antico popolo ebraico a Praga e nelle terre boeme è stato pubblicato un post nel mese di novembre 2012, dal titolo “Gli Ebrei in Boemia”. Ora racconterò alcune leggende e storie di personaggi e fatti avvenuti, molti e molti anni fa, nel ghetto ebraico praghese. Questo post tratta la vita e le imprese di Mordechai Maisel, famoso fra gli ebrei per la sua modestia e generosità a favore della comunità praghese.

A causa dell’oscurità e del brutto tempo, la carrozza del Primate della comunità ebraica di Praga smarrì la strada e si perse in un fitto bosco. Improvvisamente i cavalli si fermarono, iniziando a fremere e impennarsi. Quando il cocchiere cercò di comprenderne la causa, da lontano, oltre gli alberi, vide una luce abbagliante. Rabbi Jizchak, il presidente, si avvicinò al luogo da dove proveniva la luce e si accorse che, in realtà, si trattava di un grosso fuoco alimentato da due piccoli omuncoli, i quali stavano riempiendo dei piccoli sacchi con monete d’oro e d’argento incandescenti. Terminato il lavoro, uno degli ometti, prima di andarsene, disse al Rabbi che le monete erano per una persona del suo popolo e che, se avesse voluto, avrebbe potuto scambiare alcune monete d’oro che giacevano a terra con altro denaro. Il Rabbi tirò fuori dal suo borsellino tre monete, che scambiò con quelle d’oro.

Il simbolo di Praga nel Pentateuco del 1530
 
Tornato alla sua carrozza, il Primate fece appello al volere di Dio per cercare di capire chi potesse essere il benefattore. Avvolse le tre monete d’oro ognuna in un pezzo di carta e ne lasciò cadere una fuori dalla finestra, sulla strada sottostante. Dopo un po’ di tempo saltò fuori un ragazzino di strada, a piedi nudi e con gli abiti logori, il quale si guardò attorno e con uno scatto veloce prese la moneta da terra e corse via. Il secondo giorno il Rabbi compì la stessa operazione, ma la moneta d’oro venne presa nuovamente dallo stesso ragazzo. Strano, borbottò sorpreso l’erudito Rabbi, come sono imperscrutabili le vie del Signore. Il terzo giorno la storia puntualmente si ripeté. Rabbi Jizchak, a quel punto, non ebbe più dubbi che quel ragazzo, al momento così povero e dall’aspetto trasandato, un giorno avrebbe ricevuto la grande quantità d’oro che aveva visto nel bosco.

Due giorni più tardi il giovane fu costretto a presentarsi al Rabbi. Timidamente raccontò di aver trovato le monete d’oro per strada, poiché il ritrovamento gli era stato indicato in un sogno. Ora avrebbe voluto restituire tutto al legittimo proprietario, secondo la legge di Mosè. A quel punto il Rabbi chiese: “Perché vorresti restituirle se nessuno ti ha visto? Chi ti avrebbe mai scoperto?”. Il ragazzo rispose onestamente: “Me ne guardi il Dio di Israele. Preferisco essere povero e giusto, piuttosto che arricchirmi in modo proibito. Ecco, queste sono le Vostre tre monete d’oro.” “Dio ti benedica. Sì, tu sei degno di essere il favorito del nostro Dio”, rispose commosso il Primate.

Avendo saputo il nome del ragazzo e la sua provenienza, Rabbi Jizchak andò a far visita ai genitori del giovane i quali, in quello stesso momento, erano seduti a tavola. Il padre fece accomodare il Rabbi, il quale espresse subito ai genitori il desiderio di prendersi carico di Mordechai: voleva educarlo e farlo studiare come se fosse suo figlio. Alle obiezioni sollevate dal padre sul fatto che con i figli non si fanno commerci e che Mordechai era l’unico figlio rimastogli di otto, Rabbi rispose che il suo unico intento era quello di averlo a casa sua per alcune ore, affinché potesse studiare e diventare un uomo perbene. I due genitori, impreparati ad una simile offerta, ebbero solo il tempo di dire: “E’ stato stabilito da Dio; voglia far scorrere la Sua grande benedizione celeste attraverso il lavoro delle Vostre mani.”

La sinagoga Maisel a Praga
 
Per il giovane Maisel trascorsero rapidamente e piacevolmente cinque anni. Era diventato un bel giovanotto ed aveva acquisito sapienza e conoscenza. Il suo buon cuore era rimasto immutato nella disponibilità verso i poveri genitori. Quando il giovane Mordechai compì vent’anni, il Rabbi lo fece fidanzare con sua figlia Sulamit, di sedici anni. Un anno più tardi la coppia si sposò nel cortile della Sinagoga Vecchia-Nuova. Quando i sette giorni di festeggiamenti di nozze furono trascorsi, Rabbi Jizchak pensò fosse giunto il momento di andare a prendere i sacchi d’oro promessi a suo genero.

Verso sera giunsero nel bosco, ma non trovarono nessuna traccia dei sacchi pieni d’oro. Il Rabbi andò ancora molte volte, ma inutilmente. Nella sua delusione, divenne giorno dopo giorno sempre più insofferente nei confronti di suo genero il quale decise di andare ad abitare, insieme alla moglie Sulamit, in un appartamento e di non vivere di carità nella casa del Rabbi.

Rilevò il piccolo negozio di sua madre e lo trasformò, in breve tempo, in una florida attività commerciale, riuscendo nel contempo a dare rifugio e ristoro a bisognosi e oppressi.
Un giorno un misero contadino, vestito di un lercio camice, si presentò nel suo negozio e propose a Mordechai uno scambio: “Signore, non ho denaro da darvi, ma ho assoluto bisogno di alcuni attrezzi per il mio lavoro. In cambio vi darò una grossa cassa di ferro che nessuno è mai stato in grado di aprire.” Detto fatto, il contadino consegnò la cassa presso il negozio del giovane Maisel, il quale, la sera stessa, tentò di aprirla, ma non appena la toccò il coperchio si sollevò da solo e lo stupefatto commerciante vide che conteneva sacchetti pieni di brillanti monete d’oro. A quel punto Maisel era diventato uno degli uomini più ricchi di Praga, ma si guardò bene dal farlo sapere in giro. Non lo disse nemmeno a sua moglie.

L'arca della sinagoga Maisel
 
Trascorso un anno da quel giorno, Mordechai Maisel andò dal rabbino capo e disse: “Signore, il Dio di Israele ha benedetto il lavoro delle mie mani ed io mi sono prefisso di costruire una casa nella quale il Suo nome venga lodato. Questo è l’oro che servirà per costruirla. Desidero che la sinagoga sia bella come nessun altra a Praga, ma vi chiedo di non fare il mio nome.”
La nuova sinagoga venne inaugurata durante un giorno di festa. Le persone più eminenti erano presenti ed il Rabbi tenne un discorso che arrivò dritto al cuore e che terminò con una preghiera: “Salute a Te, Israele, che hai uomini così valorosi! Fatti avanti, tu modesto Saul! Perché ti nascondi tra la gente?” Nel dire questo indicò proprio Mordechai Maisel.

La volta della sinagoga Maisel

Mordechai rimase ricco per tutta la vita, senza perdere né la devozione né l’umiltà. Non accettò mai onorificenze e la sua modestia venne da tutti presa ad esempio: “Maisel non ha un sedile nel tempio.” Le sue opere di carità possono essere lette ancora oggi nella sinagoga Maisel, scritte in versi ebraici imperfetti, scolpiti nel marmo. La sua vita fu tutta una catena ininterrotta di opere di bene.

Dopo la sua morte, non avendo avuto eredi, il patrimonio di Mordechai Maisel fu dichiarato illegittimo dalle autorità, le quali disposero la confisca dell’intera eredità per realizzare i loro scopi.
Per sua fortuna, Mordechai non venne mai a saperlo.

Beniamino Colnaghi

 
Riferimenti bibliografici

AA.VV. Collezione praghese di leggende ebraiche, nuova raccolta rivista,Vienna e Lipsia, 1926.
Chajim Bloch, “Der Pragher Golem” (Il Golem di Praga), Berlino, 1920.

giovedì 6 dicembre 2012

Il “Maglificio G. Baraggia” a Verderio Superiore

Il dato più attendibile circa il significato e l’origine del cognome Baraggia ci conferma che “la baraggia” è l’area pedemontana che dalle Prealpi, site sotto il massiccio del Monte Rosa, si sviluppa verso il piano a terrazzi o in lieve graduale declivio verso sud est. La baraggia è una terra che prende il suo nome dalla brughiera, ovvero un tipo particolare di landa ricoperta da brugo o erica, arbusto sempreverde. In tempi antichi, questo tipo di vegetazione la rese un luogo ideale per i pascoli invernali delle greggi transumanti dalle Alpi biellesi. Con i secoli e con una capillare quanto ingegnosa opera di canalizzazione, parte della baraggia è stata trasformata in risaia. Il riso è l’unica coltura che può sopravvivere a questo tipo di terreno e di habitat ed assume delle caratteristiche morfologiche e qualitative uniche.

La baraggia vicino a Biella
Il cognome Baraggia, seppur oggi non sia molto diffuso, pare abbia preso piede qui in Brianza verso la fine del Settecento. Dalle informazioni raccolte e dai contatti avuti con alcune persone del luogo, risulterebbe che alcuni antenati delle attuali famiglie Baraggia oggi presenti prevalentemente nelle province di Monza-Brianza, Milano e Lecco, si trasferirono dal Piemonte in alcuni comuni brianzoli.
Questo dato mi è stato confermato dal sig. Ismaele Baraggia, figlio di Giuseppe, fondatore del “Maglificio G. Baraggia“, di cui parlerò più avanti.
Il sig. Abele Biffi, già sindaco di Aicurzio fino ai primi anni Novanta, persona di vasta conoscenza storica, è andato oltre, informandomi che una patriarcale famiglia Baraggia possedeva un mulino a Paderno d’Adda, tanto è vero che venne soprannominata Murnèe, mugnai.
Un componente di questa famiglia si trasferì a Sulbiate Superiore dove iniziò anch’esso l’attività di mugnaio. Ebbe parecchi figli, alcuni dei quali continuarono la tradizione di famiglia, ampliandola successivamente con l’attività di panettiere, che estesero anche ad altri comuni limitrofi, uno dei quali fu Aicurzio.

La chiesa di Aicurzio
Non seguì la stessa strada Francesco Baraggia, soprannominato Cicö, nato ad Aicurzio e sposatosi con Luigia Robbiati, detta Bariöla, dalla quale ebbe quattro figli: Teresa, Nina, Battista e Giuseppe. Francesco e la moglie aprirono una merceria in paese che ben presto, con l’aiuto delle figlie maggiori, ampliò le proprie attività nel settore della maglieria. Nel centro storico di Aicurzio possedevano alcuni locali ove abitavano e svolgevano la loro piccola attività commerciale, che con gli anni si ingrandì.
Il sig. Abele Biffi mi ha confidato che, seppur a quel tempo fosse un bambino, si ricorda bene di Cicö che vendeva la merce prodotta spostandosi in bicicletta da un cortile all’altro del paese e nelle cascine periferiche.
Uno dei figli maschi della coppia nacque ad Aicurzio nel 1906 e venne chiamato Giuseppe.
Trascorsa la giovinezza e l’adolescenza in paese e lasciate alle spalle le macerie di morte e miseria prodotte dalla Prima guerra mondiale, il giovane Giuseppe si buttò nell’attività di famiglia, contribuendo a risollevare la precaria economia domestica.
Nei primi anni Trenta conobbe Pasqualina Pirola di Vimercate che svolgeva la professione di sarta. Era una buona sarta, la sig.ra Pasqualina, perché, lavorando in una sartoria di Milano, imparò le tecniche sartoriali e cominciò a disegnare modelli e produrre abiti su misura.
Giuseppe e Pasqualina decisero di sposarsi nel 1935 a Vimercate.

Il secondo obiettivo della coppia fu quello di mettersi in proprio, tanto che decisero di prendere in affitto un piccolo immobile e installarci un maglificio. Sì, ma dove?
Cercarono ad Aicurzio e nei paesi limitrofi. La scelta cadde su Verderio Superiore, in quanto fu loro offerta in affitto una porzione di stabile di proprietà della famiglia Gnecchi-Ruscone. L’immobile in parola esiste ancora oggi ed è ubicato in via Principale, tra la sede di una banca e la gesa vegia, la chiesa vecchia. E’ un bell’edificio in mattoni, tuttora ben conservato e mantenuto. I Baraggia ebbero la fortuna di trovarlo libero perché, nel 1936, la ditta “Arte del ferro”, rinomata fabbrica di ferro battuto, chiuse l’attività e liberò l’immobile, che fu occupato, dopo gli opportuni adeguamenti, dalla famiglia Baraggia nella parte posteriore e dalla tessitura Comi nella metà che si affaccia su via Principale.

Verderio Superiore: edificio che fu sede del "Maglificio G.Baraggia"
Giuseppe Baraggia e la moglie acquistarono tutto l’occorrente per impiantare una nuova fabbrica, in particolare si dotarono di macchine di maglieria a mano Dubied, società svizzera che produceva macchine rettilinee tra le migliori sul mercato. Ed il maglificio iniziò la produzione a Verderio Superiore, nel mese di luglio del 1937. Il sig. Ismaele Baraggia, il primogenito dei fondatori, dal quale ho avuto le principali informazioni che mi hanno permesso di scrivere questa storia, mi ha riferito che il maglificio occupava circa 30 dipendenti, tutte donne e ragazze di Verderio, contribuendo, per la sua parte, a garantire occupazione ed incrementare i redditi di alcune famiglie locali.



Macchina di maglieria rettilinea a mano Dubied
I prodotti finiti, sia di lana sia di cotone, erano di buona qualità ed i modelli rispecchiavano le mode dell’epoca. Una quota di produzione veniva venduta ad alcuni commercianti locali mentre una parte della maglieria era venduta direttamente dal titolare, che installava i banchi vendita nei più grossi mercati di alcuni paesi comaschi e monzesi.
A tre anni dall’apertura dell’attività, malgrado l’entrata in guerra dell’Italia, la produzione non solo non cessò, ma le richieste di maglieria aumentarono, in quanto alcuni maglifici chiusero i battenti a causa dei bombardamenti e, inoltre, la politica autarchica fascista privilegiò la produzione nazionale.
Terminata la Seconda guerra e nella scia della ricostruzione del Paese, i coniugi Baraggia, oltre ad aver aumentato i componenti della famiglia con l’arrivo di due figli, ebbero una giusta intuizione: costruire un nuovo e più grande stabilimento al fine di ampliare l’attività e aumentare la produzione. Giuseppe Baraggia cercò un’area idonea, sempre a Verderio Superiore. Individuò un terreno in via Rimembranze, adiacente la chiesa parrocchiale, ma la famiglia Gnecchi, proprietaria del lotto, non vendette. Allora, a malincuore, guardò altrove. Gli venne indicata un’area su cui sorgeva una fornace, ormai in disuso, insistente sul territorio del Comune di Paderno d’Adda. La fornace, che produceva mattoni, e l’area attigua, prendevano il nome di Genasa, presumendo che derivasse dal nome, o dal soprannome, del proprietario.
L’affare fu fatto. L’area era bella e verdeggiante e abbastanza grande per costruirvi lo stabilimento e la villa padronale. Nel 1947 gli edifici furono approntati e la produzione cominciò. 
Il “boom economico” degli anni Sessanta e la capacità dei titolari di saper comprendere gli orientamenti del mercato e le nuove tendenze in atto fecero incrementare la produzione e il fatturato. Nella metà degli anni Sessanta, grazie all’aumento della richiesta ed allo sviluppo della produzione, l’occupazione raggiunse le 90 unità. La maggior parte delle maestranze e delle operaie provenivano dai due Verderio; ciò anche grazie ad un reciproco atto di stima e fiducia che è sempre intercorso fra i titolari e le dipendenti.

Nel 1965 muore il fondatore, Giuseppe Baraggia, e la direzione passa alla moglie ed al figlio maggiore, Ismaele, i quali, per cercare di arginare la concorrenza sempre più agguerrita che arrivava dai nuovi poli tessili e magliai, tra i quali Carpi e Gallarate, tentarono di percorrere nuove e più impegnative strade. L’idea fu quella di porre la qualità al centro delle produzioni.
Vennero acquistate nuove e moderne macchine di maglieria circolari e rettilinee, Dubied, Stoll, Protti e telai Cotton, veloci e multifunzionali, che consentirono una maggiore produzione e la riduzione dei costi. Verso la fine degli anni Sessanta i titolari tentarono di entrare nel mondo del prêt-à-porter e, nei primi anni Settanta, si avvalsero della collaborazione e della professionalità di un giovane architetto di Legnano, Gianfranco Ferrè.

Gianfranco Ferrè
Ferrè creò il marchio Blu 4, una nuova linea di moda, un mix sportivo ed elegante che incontrò il favore dei giovani e del nuovo ceto medio emergente, e innovò modelli, scelse nuovi colori e usò filati più pregiati. In questa sua ricerca fu aiutato dall’esperienza che lo stilista fece in India, dove visse per alcuni anni. Ma lo stilista legnanese, colto, raffinato e dalle idee innovative, non rimase a lungo in un maglificio di provincia: la maison Dior lo chiamò a Parigi e il marchio “GFF” divenne famoso in tutto il mondo. La concorrenza cinese e asiatica, gli alti costi, la burocrazia asfissiante e la difficoltà del sistema industriale italiano ad adeguarsi ai tempi fecero il resto.

Il “Maglificio Giuseppe Baraggia” chiuse le attività nel 1983.
Uno ad uno, uno dietro l’altro, gli storici maglifici di Paderno d’Adda hanno chiuso tutti. Il nostro territorio ha perso, per sempre, non solo risorse e posti di lavoro, ma anche antichi saperi artigiani e preziose manualità e capacità di centinaia e centinaia di donne brianzole.

Beniamino Colnaghi

venerdì 23 novembre 2012

“La Zanzara” del liceo Parini di Milano

Nel lontano mese di febbraio 1966, La Zanzara, il giornale dell’associazione studentesca del liceo Parini di Milano, pubblica il risultato di un’inchiesta condotta su un campione di nove ragazze, scelte a caso tra le studentesse della scuola. Il “Liceo Ginnasio Statale G.Parini” era riconosciuto come il più severo e autorevole liceo italiano, tanto che la Normale di Pisa accettava anche studenti con una maturità inferiore di un punto rispetto alla soglia di ammissione se questo allievo proveniva dal Parini. Era anche la scuola della buona borghesia milanese, dei Rizzoli, dei Pirelli, dei Bassetti.

Il liceo Parini

Sul numero tre de La Zanzara, che sarebbe uscito entro pochi giorni, venivano riportate opinioni sul comportamento sessuale, la religione, la limitazione delle nascite, i rapporti con la famiglia, il libero amore e così via. Ma ancora prima che il numero venisse distribuito fuori dei cancelli dell’istituto, le prime indiscrezioni sull’iniziativa sociologico-sessuale dei suoi redattori erano già circolate. Lo scandalo era già pronto per scoppiare. Al Parini cominciava a montare la polemica: i professori protestavano, un gruppo di “pariniani cattolici” firmava un duro manifesto contro il numero in uscita, alcuni genitori erano in preallarme. La mattina dopo i quotidiani milanesi dedicavano largo spazio alla notizia. Poche ore più tardi, il procuratore della Repubblica incaricava il vice questore di condurre un’inchiesta, il preside del Parini veniva convocato in questura, il provveditorato agli studi cercava di capire cosa stava succedendo, un deputato liberale presentava un’interrogazione al ministro della Pubblica Istruzione.

La copertina del numero 3 del febbraio 1966

I personaggi della storia sono diversi: c’è La Zanzara con i suoi redattori, un preside sotto accusa, c’è un’organizzazione dura e intransigente di giovani cattolici (GS, gioventù studentesca milanese), un corpo di professori smarrito almeno quanto le famiglie. E c’è, soprattutto, un’intera generazione terribilmente seria e riflessiva, il cui dramma è soltanto quello di trovarsi ormai ad un livello di maturità culturale e morale superiore a quello delle famiglie e di molti insegnanti. Il numero che ha fatto scoppiare lo scandalo contiene riflessioni sociologiche sul cambio di costume dei giovani, un’analisi comparata sui testi scolastici, una discussione sui rapporti tra Stato e scuola privata. Ma lo scandalo lo fa scoppiare l’intervista alle nove ragazze: “Che cosa pensano le ragazze d'oggi?” E’ presto detto: chiedono un rapporto aperto con i genitori, l'introduzione dell'educazione sessuale a scuola, sono favorevoli ai rapporti prematrimoniali e all'utilizzo di metodi anticoncezionali, e puntano al matrimonio, a patto che si concili con il lavoro e con una presa di coscienza civile della donna.

Studenti pariniani leggono La Zanzara

Il dibattito tra le nove ragazze che hanno risposto alle domande è condotto con grande senso di responsabilità. Il linguaggio non supera mai in arditezza le discussioni del Concilio e, insieme ad alcune affermazioni polemiche, vi si trovano alcuni richiami all’insegnamento della Chiesa. Alcune ragazze affermano: “Il divorzio, a mio parere di cattolica, non dovrebbe esistere, però sarebbe giusto per quelle persone che non condividono le mie idee e sono costrette a rimanere legate ad un uomo che non amano”; “Io posso accettare un consiglio da mio padre solo se è motivato e non perché dice che è il padre e basta!”; “Molte di queste ragazze che aspirano come unico fine al matrimonio, saranno veramente, secondo me, delle pessime mogli e delle cattive madri: sarà certamente buona madre quella che già da ragazza ha una coscienza personale e civile»; “Quando esiste l’amore non possono e non devono esistere limiti e freni religiosi”.

I tre redattori del giornalino, due maschi e una femmina, tutti minorenni, passano così dai banchi di scuola agli interrogatori in questura, dove a telefonare allarmati sono anche genitori preoccupati da possibili attentati alla morale, che chiedono alle forze dell’ordine impegno per stroncare il malcostume dilagante. Clamore a parte, qual è il reato? La Zanzara non è registrato alla cancelleria del tribunale, come prescrive la legge, inoltre il preside del Parini non ha esercitato un controllo adeguato sul numero in questione insieme alla titolare della tipografia, rea di aver dato alle stampe un giornale senza che fosse registrato. I cinque sono rinviati a giudizio e dovranno rispondere della violazione dell'articolo 14 della legge sulla stampa, che si riferisce alle pubblicazioni oscene «destinate ai fanciulli e agli adolescenti, quando per la sensibilità e impressionabilità ad essi proprie, siano comunque idonee a offendere il loro sentimento morale o a costituire per essi incitamento alla corruzione, al delitto o al suicidio».

A precedere il processo è un altro scandalo: il 16 marzo, infatti, il sostituto procuratore dispone che i tre studenti siano sottoposti a una visita medica finalizzata alla compilazione di una scheda fisiopsichica. “Una legge del 1934 esige questo esame fisiopsichico sui minorenni", spiegherà il pubblico ministero al processo. "L’accertamento ha lo scopo di tutelare l’interesse del minore, in quanto la giustizia potrebbe condannare un irresponsabile”. Senonché la legge in questione risale al periodo fascista, scatenando “una vera gazzarra sulla stampa”, anche perché i due maschietti della redazione dichiarano ai giornali di essere stati spogliati e che “le domande loro poste durante tale visita vertevano sui loro eventuali rapporti con prostitute, su affezioni veneree eventualmente contratte, mentre venivano fatte osservazioni e commenti sul loro stato di apparente gracilità, con il rilievo che le famiglie poco si curavano di loro”. La ragazza, invece, si rifiuta di sottoporsi alla visita, e la questione sarà ripresa proprio durante il dibattimento.

I tre ragazzi della redazione in tribunale

Durante le tre concitate giornate in cui si ascoltano i testi, c’è chi loda il rendimento scolastico e la condotta degli imputati e chi auspica metodi e contesti più seri per trattare argomenti che hanno a che fare con la sfera sessuale. “Io sono convinto che nessuna ragazza ha manifestato quelle idee, scaturite solo dalla fantasia esaltata dei redattori”, affermerà il pubblico ministero durante la sua arringa, aggiungendo che “il problema sessuale va affrontato a livello scientifico o arriveremo al punto che le ragazze andranno in giro con gli anticoncezionali in tasca e il materasso sulle spalle”.

Un momento "rilassato" del processo

Il processo, al quale assistevano 240 giornalisti accreditati, provenienti da tutte le parti del mondo, oltre a catturare l’attenzione di tv e giornali generò numerose proteste e grandi manifestazioni organizzate dagli studenti milanesi.

Sabato 1 aprile il presidente legge il verdetto: tutti assolti, perché i fatti non costituiscono reato. Le ultime parole spettano al presidente del tribunale che, come accade nei tribunali per minori, decide di concludere il processo con un fervorino (breve ammonimento): “Il tribunale mi incarica di dirvi che ha riconosciuto che nella vostra inchiesta non esistono gli estremi di reato. Il compito della legge penale si ferma qui. Se le vostre affermazioni erano opportune o inopportune lo decideranno le autorità scolastiche. Su questo processo si è fatta una montatura esagerata. Voi non montatevi la testa, tornate al vostro liceo e cercate di dimenticare questa esperienza senza atteggiarvi a persone più importanti di quello che siete”.

Siamo nel 1966. Due anni più tardi esploderà quel movimento sociale, culturale e politico che prenderà il nome di Sessantotto. I prodromi erano già ben visibili.

Beniamino Colnaghi
 
Note: sul sito del liceo Parini di Milano è possibile leggere una vasta scelta di articoli, documenti, commenti e interviste sul “Caso Zanzara”.

lunedì 12 novembre 2012

Gli Ebrei in Boemia


Praga, la capitale della Repubblica Ceca, è una delle città più importanti dell’ebraismo europeo.
Gli Ebrei praghesi seppero costruire nei secoli la loro città, arricchendola di prestigiosi e significativi monumenti: la Sinagoga Vecchia-Nuova, in ceco Staronová, la Sinagoga Pinchas, la Sinagoga Alta, Visoká, il vecchio cimitero ebraico, in ceco Starý Židovský Hřbitov, il municipio israelita. Dopo la chiusura del vecchio cimitero ebraico è stato costruito il nuovo cimitero, nel quale si trova la tomba dello scrittore Franz Kafka.
 
La tomba di Franz Kafka
 
Della cultura ebraica si sono conservate soprattutto le narrazioni storiche e le leggende provenienti dall’antico, nonché misterioso ghetto. L'articolo qui di seguito proposto narra dei primi insediamenti di Ebrei in Boemia. Nei prossimi post verranno raccontate storie di avvenimenti e personaggi che faranno rivivere nell’immaginario del lettore il mondo ormai perduto della Praga ebraica.

In Boemia si racconta che là dove oggi si trova Praga si ergeva una fiorente città, nella quale abitavano gli Ebrei fin dall’epoca del Secondo Tempio (1).Qualche decennio più tardi la città venne distrutta ed i suoi abitanti furono cacciati. Libuše, che fondò Praga nel 730, aveva fama di essere una veggente. Sul letto di morte fece chiamare suo figlio Nezamysl e gli disse: “Torno dai miei antenati, ma prima di partire voglio svelarti il futuro. Quando tuo nipote regnerà sulla mia gente, un piccolo popolo straniero, cacciato ed oppresso, che adora un solo Dio, verrà a cercare asilo nei nostri boschi. Essi siano accolti con ospitalità e tuo nipote offra loro protezione”.

Dopo oltre un secolo dalla morte della regina, Hostivit (2) salì al trono dei suoi padri. Una notte gli apparve in sogno Libuše dicendo: “E’ giunto il tempo in cui la mia profezia si realizzi: apparirà ai piedi del tuo trono un piccolo popolo oppresso, il quale adora un solo Dio e cerca aiuto. Accoglilo in modo ospitale e benevolo e concedigli protezione e asilo”.

Quando nell’850 i Vendi, termine usato in passato per indicare gli Slavi in generale, si riversarono in Lituania e Moscovia, cacciandone gli abitanti e insediandosi in quelle terre, anche una comunità ebraica venne cacciata. Per dieci anni quegli sfortunati senza patria vagarono per il mondo, giungendo infine in Boemia. Chiesero udienza al sovrano, il duca Hostivit, il quale li accolse e chiese loro di presentarsi. “Siamo un piccolo popolo e ci chiamiamo come il Padre del nostro popolo, Israele. Seguiamo la legge di Mosè, crediamo in un unico Dio, che è onnipotente, immensamente giusto e misericordioso e la cui sovranità riempie tutta la terra. Ti supplichiamo, o duca, permettici di costruire qui le nostre capanne, saremo sudditi fedeli e pregheremo il nostro Dio affinché conceda a te e al tuo popolo gloria e vittoria”.
Il duca aveva capito che quello era il popolo il cui arrivo gli era stato predetto.
Il giorno seguente convocò i Vladykes (3), ascoltò il loro parere e infine decise di assegnare agli Ebrei un luogo sulla riva sinistra della Moldava, in ceco Vltava, dove ora si trova la vecchia area dell’Újezd.

Gli Ebrei vissero dunque in Boemia già all’epoca del paganesimo, prima ancora che la fede cristiana fosse conosciuta in quella regione.
 
Il battesimo del principe Bořivoj: dipinto di Václav Ignác Leopold Markovský (1789–1846)
 
 
Sotto il segno del principe Bořivoj (4) la comunità ebraica si espanse e lo spazio loro concesso diventò insufficiente, tanto da indurre il duca ad assegnare loro uno spazio sulla riva destra del fiume Moldava, dove ora si trova la “Città di Giuseppe”, Josefov, detta in passato città ebraica.
La costruzione della città inizio nell’anno 907. Inizialmente fu costituita da una trentina di case e dalla prima sinagoga, tutte rigorosamente di legno.

Gli ebrei praghesi, provenendo dalla Moscovia, si vestivano “alla russa” e nella loro sinagoga introdussero il rito polacco, il quale si è mantenuto fino ad oggi nella “Sinagoga Vecchia-Nuova” e, almeno parzialmente, in altre piccole sinagoghe.

Il primo Rabbi (5) della comunità praghese si chiamava Malchi, nacque a Cracovia e fu un uomo molto erudito. Gli Ebrei mantennero sempre i diritti che gli furono concessi dal duca e dai principi, anche perché seppero ben integrarsi nel resto della città, contribuendo al suo benessere ed al mantenimento della pace e delle buone relazioni.

Antico stemma della Boemia

Il re Vladislao (6) decise di conferire alla comunità ebraica praghese lo stemma raffigurante i leoni boemi con la doppia coda e concesse anche il diritto di difendere la propria città con dei cancelli che potessero essere chiusi durante la notte.

Il monumento dedicato al re Jiří a Poděbrady
 
Dal tempo di Vladislao fino a quello di Giorgio di Poděbrady, Jiří z Poděbrad, (ca. 1471) gli Ebrei vissero in pace, nonostante le numerose tempeste che agitavano la Boemia. In seguito le cose cambiarono e si diffusero calunnie contro di essi, i quali vennero più volte cacciati dal Paese, per poi essere richiamati, dopo che ci si rese conto che quelle calunnie erano soltanto il frutto dell’odio e dell’invidia.

Gli Ebrei praghesi si comportarono comunque bene e furono fedeli ai loro doveri e ciò permise loro di continuare ad essere cittadini boemi. Dio, che non abbandona il popolo di Israele, li fece sempre tornare nelle grazie dei sovrani del Paese.

Beniamino Colnaghi


Note:
1 Epoca della storia ebraica (dal III sec. a. C. circa fino al I sec. d. C.) che ebbe fine con la distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme nel 70 d. C.
2 Hostivit, leggendario principe dei Cechi.
3 Vladykes: accanto al ceto dei nobili era la seconda corporazione illustre dei regni sotto la corona boema (c.d. ceto dei cavalieri).
4 Bořivoj: primo principe ceco ad essere battezzato, morto prima dell’anno 890
5 Rabbi, Mio Maestro, titolo attribuito ai saggi all’epoca della Mischna; denominazione data ad un erudito della Thora o anche di un capo chassidico.
6 Vladislao II (ca. 1110 – 1174): principe ceco e re.

giovedì 1 novembre 2012

I verderiesi nella Cooperativa di Costruzioni Lavoranti Muratori

Durante una delle chiacchierate che tengo periodicamente con Felice Colnaghi, sul tavolo, attorno al quale eravamo amabilmente seduti, oltre il caffè, preparato dalla sig.ra Agnese con una moka Bialetti, era posato un corposo volume bianco. La copertina era composta da una fotografia d’altri tempi che sfumava verso l’alto e da una scritta che formava un cerchio, al centro del quale faceva bella vista un numero di colore oro.


Gli operai della Cooperativa nel 1887, anno di fondazione
 
Inutile dire che la copertina avesse stimolato la mia curiosità.

Agnese, Agnese Galizioli, la moglie di Felice, capita al volo l’antifona, mi ha chiesto se mi interessasse vederlo: “Riguarda il 120° anniversario della nascita della Cooperativa“.
Certo che mi interessa, dico io.
Della Cooperativa Muratori me ne aveva accennato mio padre in diverse occasioni. Nel tempo, a partire dagli anni Venti del secolo scorso, ci avevano lavorato dei suoi parenti. Tra questi, Luigi e Giuseppe Riva, detti Gen e Pen, che provenivano dalla cùrt dei Gion, e Giuseppe Colnaghi, fratello di mio nonno nonché padre di Felice. Quest‘ultimo, vi ha lavorato dal 1946 al 31 gennaio 1987.
Grazie a questa lunga permanenza in azienda, in occasione del 120° anniversario della fondazione della Cooperativa, è stato invitato alla cerimonia svoltasi al teatro Parenti di Milano, ove è stato omaggiato, insieme a molti altri soci e pensionati, del volume “La tradizione si è fatta storia”.

Almeno una quarantina di residenti di Verderio Superiore hanno lavorato durante gli anni alla Cooperativa. Mi corre l’obbligo ricordarne qualcuno: Alessandro Acquati detto Casciola, i fratelli Antonio e Pierino Brivio della Casineta, Bruno Gariboldi de l’Irolda, Napoleone Ponzoni detto Pulon, Alessandro Sala dei Bura, Enrico Sala dei Campée, Giuseppe Sala detto Pepot, Mario Besana detto Zarell, Luigi Viganò dei Peregai.


I soci fondatori in una foto del 1887

La Cooperativa di Costruzioni Lavoranti Muratori, CCLM, nacque il 20 ottobre 1887 all’Osteria della Stella, in via Ceresio a Milano.

Nel 1887 l’Italia era impegnata nella disastrosa avventura colonialistica in Africa, che cominciò a mietere centinaia di vittime. Per finanziare la guerra, i governi Depretis prima e Crispi poi aumentarono il prezzo del pane ed i dazi sul frumento e sulle importazioni, generando vivaci critiche nel Parlamento e nel Paese. Sempre nello stesso anno l’Otello di Giuseppe Verdi venne rappresentato al teatro alla Scala di Milano, mentre  Arthur Conan Doyle diede alle stampe i primi racconti incentrati sulla figura di Sherlock Holmes.

I padri fondatori della Cooperativa puntavano ad assistere i soci che non potevano più lavorare, per l’età o a causa di qualche invalidità, attraverso un fondo previdenziale e a insegnare un mestiere ai più giovani, grazie alla scuola professionale muraria.
L’anno di fondazione non è casuale: l’Unità d’Italia non ha portato grandi miglioramenti nelle condizioni di vita delle classi sociali più umili e svantaggiate. In quegli anni i lavoratori cominciano a prendere coscienza dei loro diritti e si muovono per ottenerli: il 1887 registrò uno sciopero durissimo dei muratori, che chiedevano di lavorare “solo dieci ore al giorno” e di essere pagati il giusto.

 
Alcuni soci fondatori in una foto scattata a Cinisello, nella quale mostrano orgogliosamente il ritratto di Karl Marx e un'immagine di Gesù Cristo


Quella era la Milano semplice e onesta di quei muratori, badilanti, manovali e garzoni stanchi di sottostare allo sfruttamento dei capimastri e dei padroni, che non si accontentarono di scioperare, di manifestare, ma costruirono qualcosa di nuovo, come una Cooperativa di produzione e lavoro.
“La cuperativa la vuleva fa vedè a i capmaster che l’era pusibel, a l’listess, stà in pè e pagà el giust i uperari”, diceva un vecchio socio milanese.

Non dev’essere stato semplice, ci avevano già provato l’anno precedente: Ferdinando Robecchi, Vittorio Pedroni, Alfredo Casati sono i padri della Società Mutua Miglioramento Muratori di Milano e provincia. Il primo anno la Cooperativa raccolse 69 adesioni, a 25 lire per iscritto, ridotti a 15 una decina d’anni dopo, per non gravare troppo sui bilanci dei soci.

Il primo committente fu la Cooperativa Edificatrice di Case Operaie e la prima opera importante fu la costruzione di un edificio di 104 stanze e 14 botteghe a Porta Magenta.
Da lì in poi la CCLM si conquistò la fiducia delle persone più influenti di Milano e delle istituzioni milanesi, come dimostra la lista dei lavori acquisiti negli anni seguenti: l’ingresso del cimitero Musocco, la torre del Filarete al Castello Sforzesco, il nuovo Macello e la sede del Mercato del bestiame a Porta Vittoria, la caserma della Regia Finanza in via Melchiorre Gioia, decine di edifici per l’Ente autonomo Case Popolari.

Nel 1925 il fascismo cercò di mettere i classici “bastoni tra le ruote” alla Cooperativa, ma senza gran esito, perché la condotta della Cooperativa era esemplare ed i bilanci in regola.
La solidarietà e la disciplina che legavano i soci, la relazione tra dovere e interesse, che è propria di una Cooperativa, la condizione di mutuo aiuto e assistenza, i sacrifici ed i sani principi dei soci-lavoratori, accompagnarono sempre la vita della società.

Quando non furono le autorità a creare problemi, quando non fu la crisi del settore, ecco arrivare la guerra. I danni più gravi si registrarono nell’agosto 1944, quando i bombardamenti degli Alleati rasero al suolo i magazzini e danneggiarono gravemente gli uffici della sede di corso Italia a Milano. La guerra, per un perverso e collaudato meccanismo, genera anche lavoro, tanto che, nell‘immediato dopoguerra, la Cooperativa fu impegnata nella ricostruzione della città di Milano e del suo hinterland.

Anno 1946. Nella foto sono presenti tre operai di Verderio Superiore: quarta fila dal basso, quarto da sinistra è Giuseppe Riva (Pen), quinto è Felice Colnaghi (entrambi con la canottiera). Ultima fila in alto, quinto da sinistra è Pierino Brivio della Casineta
 
Nel 1957 il Comune di Milano le assegnò una medaglia di benemerenza per il lavoro svolto e, nei primi anni Sessanta, quelli del boom economico, la CCLM partecipò alla realizzazione di ville e palazzi signorili per la borghesia cittadina e di nuovi quartieri popolari per le categorie meno abbienti. Sorsero, inoltre, nuove industrie, centri educativi e sportivi, infrastrutture per la viabilità ed i servizi.

Felice Colnaghi in una foto del 1955

Nel 1985 vennero incorporate, per fusione, la Cooperativa Pittori e Imbiancatori e la Coop Cedim e lo sviluppo della Cooperativa sembrò inarrestabile. Ma ancora una volta, non un’altra guerra, quando il ciclone “Mani Pulite” investì il capoluogo lombardo, anche la CCLM ne pagò le conseguenze. L’edilizia, soprattutto quella pubblica, entrò in crisi, il giro d’affari subì un drastico ridimensionamento, tanto che nel 1993 fu necessario ricorrere alla Cassa integrazione e ai contratti di solidarietà.
 
Folto numero di operai e tecnici della Cooperativa impegnati nella costruzione della nuova sede dell'ATM in via Novara a Milano
 
I Lavoranti Muratori si risollevarono dopo pochi anni, offrendo al mercato ciò che nessuno poteva togliere loro, la professionalità, e indirizzandosi a iniziative immobiliari private che garantirono entrate significative. Alla ripresa degli interventi pubblici, la Cooperativa s’impegnò nel restauro del teatro alla Scala, della ristrutturazione del palazzo Reale, del teatro Parenti, del salone degli Affreschi dell’Umanitaria, della realizzazione di numerose stazioni della metropolitana.

Alcuni soci, quelli più anziani, negli anni scorsi amavano esprimersi così, in dialetto milanese, per ricordare e qualificare la “loro” Cooperativa: “La nostra storia l’è lunga cumè la famm” e “Pader e fieu ch’àn fa la guera e i sacrifisi per difend ‘l post de laurà”. Ci si sentiva spalla contro spalla, gli uni con gli altri. La solidarietà ed il mutuo soccorso venivano al primo posto.

Altri tempi, aggiungo io, altre generazioni di uomini.

Ora la Cooperativa naviga in cattive acque. Felice mi ha informato, con la voce rotta dall’amarezza, lui che ha sempre creduto nella cooperazione, che la Cooperativa è stata recentemente dichiarata in liquidazione coatta, è stato nominato un commissario liquidatore e tutti i dipendenti sono stati messi in Cassa integrazione per un anno. Brutta storia.

La grave crisi dell’edilizia e delle costruzioni ed un mercato immobiliare quasi fermo, hanno potuto ciò che il fascismo, la guerra e il ciclone post-tangentizio non hanno saputo fare.
 
Beniamino Colnaghi

domenica 14 ottobre 2012

Il meleto di Lev Tolstoj 

Chi è stato veramente Tolstoj? Un grande romanziere russo, che in vecchiaia ebbe una strana crisi mistica o un profeta, un "inviato" con uno speciale messaggio per l´umanità in pericolo?

Lev Nicolaevic Tolstoj (1828-1910) nacque da una famiglia di antica nobiltà, nella grande tenuta materna di Jasnaja Poljana, a pochi chilometri dalla cittadina di Tula, a circa 180 Km da Mosca.

Ritratto di Tolstoj

Perse entrambi i genitori quando era ancora bambino. Fu allevato dalla nonna e dalle zie insieme ai fratelli, dapprima a Mosca, poi a Kazan sul Volga. A Kazan frequentò per due anni l´università, senza concludere gli studi. A diciannove anni, ormai padrone di sé, tornò ad abitare nella tenuta di famiglia. Seguì un periodo di ricerca, di sperimentazione e di sbandamento finché, a 23 anni, raggiunse il fratello Nicola, ufficiale nel Caucaso, arruolandosi nell´artiglieria. Intanto, quasi per caso, cominciò a scrivere. Il primo breve romanzo, Infanzia, venne accolto dalla critica con molto favore.

I successivi Racconti di Sebastopoli, lo resero famoso in tutta la Russia.

Lasciata la vita militare, frequentò gli ambienti letterari della capitale. Decise però di stabilirsi definitivamente a Jasnaja Poljana, dove si occupò delle terre e della fondazione di una scuola per i figli dei contadini. Compì due viaggi in Europa durante i quali visitò anche l´Italia.

Tolstoj ha ormai 34 anni e si definisce un "vecchietto". Pensa al matrimonio per mettere ordine nella sua vita. Innamoratosi della diciassettenne Sofia Bers, figlia di un medico di corte, nel 1862 la sposa e la conduce nella sua tenuta.

Conosce un periodo di grande felicità. Chiude la scuola, si dedica alla moglie e ai figli che cominciano a nascere (ne avrà tredici, di cui solo nove giungeranno all’età adulta), amministra il suo patrimonio e soprattutto scrive. I due grandi romanzi Guerra e Pace e Anna Karenina gli danno fama internazionale. Ma ecco che alle soglie dei cinquant´anni - ricco, famoso, amato - si accorge che la vita non ha senso, lo aspettano solo malattia, vecchiaia e morte. Viene preso dalla disperazione e pensa al suicidio. È la crisi del Buddha.


Tolstoj all'età di 73 anni

Descritta ampiamente da Tolstoj stesso nella "Confessione", in breve la spiega così: "Compresi allora che dopo questa vita priva di senso, non mi aspettava nulla, mi attendevano soltanto sofferenza, malattia, vecchiaia e distruzione finale. Allora mi chiesi: a che scopo tutto ciò? Non trovai risposta e caddi nella disperazione. La mia disperazione era così grande che pensai di suicidarmi. Ma ecco giunge a me la salvezza. La salvezza spuntò da ciò: che fin da bambino avevo una vaga idea che nel Vangelo si trovasse la risposta alla mia domanda. Feci l´ultimo tentativo, gettai via tutti i commentari, mi misi a leggere il Vangelo e ad approfondirne il senso. Non mi trovai solo nella conoscenza della verità scoperta nel Vangelo, mi trovai invece insieme a tutti i migliori uomini del presente e del passato. Mi confermai dunque in questa verità e mi calmai. Ho vissuto dopo di ciò gioiosamente vent´anni della mia vita e gioiosamente mi avvicino alla morte".

Da allora e fino alla morte, avvenuta ad 82 anni, Tolstoi cambiò il suo modo di vivere, tra innumerevoli contrasti in famiglia, si vestì come i contadini, fece lavori manuali, coltivò la terra. E infaticabilmente cercò di trasmettere alla gente le verità che lo avevano illuminato.


La semplice tomba di Tolstoj

È un´immensa produzione non sistematica e di vari argomenti: la non resistenza al male, la disubbidienza civile, l´antimilitarismo e l´obiezione al servizio militare, la pedagogia antiautoritaria, la critica radicale ad ogni sistema di potere statale o ecclesiastico, la critica dell´industrialismo e della scienza moderna, la condanna del lusso, dello sfruttamento delle masse operaie e contadine, l´esaltazione della civiltà agricola, il vegetarismo, l´interesse per l´Oriente.

In sintesi l´etica della fratellanza universale e della pace.

Se si potesse sintetizzare in una frase il cuore del suo messaggio potremmo scegliere questa: "Il prossimo compito della vita consiste nel sostituire la vita fondata sulla lotta e la violenza con una vita fondata sull´amore ed il ragionamento" (Diari, 29.11.1901)

Sulla non resistenza al male e sull´amore Tolstoj scriverà centinaia di pagine, che ispireranno Gandhi nella sua azione politica. Gandhi leggerà uno dei testi fondamentali di Tolstoj “Il Regno di Dio è dentro di voi” in Sudafrica nel 1894. Scriverà più tardi: "Quarant´anni fa, mentre attraversavo una grave crisi di scetticismo e dubbio, incappai nel libro di Tolstoj e ne fui profondamente colpito. A quel tempo credevo nella violenza. La lettura del libro mi guarì dallo scetticismo e fece di me un fermo credente nell´ahimsa. Tolstoj fu l´uomo più veritiero della sua epoca. Fu il più grande apostolo della nonviolenza che l´epoca attuale abbia dato. Nessuno in occidente, prima o dopo di lui, ha parlato e scritto della nonviolenza così ampiamente e insistentemente, e con tanta penetrazione e intuito. La vita di Tolstoj, con il suo amore grande come l´oceano, dovrebbe servire da faro e da inesauribile fonte di ispirazione, per inculcare in noi questo vero e più alto tipo di ahimsa". Questa data, 1894, e questo incontro fra Tolstoj e Gandhi segnano l´inizio di tutta la nonviolenza moderna. L´Occidente si incontrò con l´Oriente, la non resistenza evangelica con la ahimsa induista.

L´edizione russa delle Opere complete, detta del "Giubileo", in 90 volumi più uno con l´indice dei nomi, fu edita a Mosca dal 1929 al 1958. Voluta da Lenin, che ordinò di raccogliere "tutto" e curata da Certkòv, il più fedele discepolo di Tolstoj, fu iniziata nel centenario della nascita dello scrittore, da qui la denominazione.


La casa di Tolstoj, ora museo

Veniamo ora al meleto. Cosa centrano le piante di mele con Tolstoj? Centrano. Vediamo perché.

La nascita del frutteto si colloca nell’Ottocento. Fu la madre di Lev Nikolaevic Tolstoj a sostenere il suo primo sviluppo, con l’importazione di alberelli di origine “sudtirolese”. Fu poi lo scrittore stesso, a cavallo tra Ottocento e Novecento, ad ampliare il progetto iniziale della madre, in relazione all’affermarsi di un movimento ecologista ante litteram, secondo un'idea di cui si trova traccia nel suo romanzo “Resurrezione” del 1899 e, con l’intenzione di realizzare un enorme meleto, perché costituito da alberi belli e capace di produrre frutti salutari, si rivolse ancora al Tirolo del Sud per reperire le piante necessarie a realizzare quello che fu poi il modello di tutti i frutteti dell’impero russo. Un modello riproposto nelle ville dell’aristocrazia russa in un’area che andava dal Baltico alle sponde del Pacifico.
Nel 1903 il frutteto storico raggiunse la sua configurazione: piantato su una superficie di 40 ettari, arrivò a ospitare 8.500 alberi, di cui 7.900 di melo. Purtroppo però, con lo scorrere del tempo, il giardino di Jasnaja Poljana venne devastato dalle gelate: in particolare da due ondate di freddo siberiano che causarono la morte di molte piante. La prima, nel 1939-1940, rovinò l'80% del frutteto che, riportato all’antico splendore grazie agli innesti presi dagli alberi rimasti in vita, fu colpito poi da una seconda grande gelata nell’inverno 2005-2006 senza che, questa volta, fosse possibile utilizzare lo stesso rimedio. Infatti, le piante erano troppo vecchie, o comunque troppo provate. È stato proprio in ragione di ciò che le speranze dei russi, espresse attraverso il pronipote dello scrittore, Vladimir Ilic Tolstoj, si sono rivolte alla terra d’origine del meleto, cioè all'attuale Trentino-Alto Adige e in particolare alla Val di Non.
Si arriva così al progetto russo-italiano di restauro del meleto che, oltre a essere stato occasione per ristabilire quell’antico legame, ha riportato dopo quasi due secoli gli alberelli delle varietà storiche nella tenuta di Jasnaja Poljana.


Piante di melo centenarie a Jasnaja Poljana

Così come a fine Ottocento, quando furono usate piante di melo della Val di Non per costituire il frutteto, è toccato ancora ai vecchi meli della Valle il compito di correre in soccorso del celebre "Meleto di Tolstoj", nella tenuta di famiglia del grande scrittore russo. Una trentina di varietà diverse di melo, tutte antiche ma ancora presenti in Valle di Non, sono state infatti trasportate in Russia per garantire continuità e salute al famoso meleto-giardino che, dichiarato ancora nel 1928 «bene culturale e patrimonio storico dell'umanità», è aperto al pubblico assieme alla casa-museo dello scrittore, che attira ogni anno 300mila visitatori. Ancora oggi il frutteto fa parte della tenuta che, pur nazionalizzata nel 1921 e quindi diventata di proprietà dello Stato russo, nel susseguirsi dei regimi è rimasta almeno nella responsabilità gestionale della famiglia dell’autore di “Guerra e pace” e di “Anna Karenina”.

Beniamino Colnaghi

mercoledì 3 ottobre 2012

Il secolo di Eric Hobsbawm

di Angelo d’Orsi (tratto da "Il Fatto quotidiano" del 02.10.2012)

Storico di mestiere (e con quale mestiere!), ma militante per passione, Eric J. Hobsbawm, morto il 1 ottobre 2012 a 95 anni, che aveva festeggiato il 9 giugno scorso, era nato nel cruciale 1917, ad Alessandria d’Egitto. Di famiglia ebrea, per un errore di trascrizione il suo cognome originario Obstbaum, divenne Hobsbawm. Vissuto tra Vienna, Berlino, Londra, Cambridge, fu un autentico cosmopolita, in grado di frequentare sette lingue, tra cui l’italiano. Il cosmopolitismo, connesso all’ebraismo di nascita (sempre laico e poi critico di Israele), corroborato dal marxismo scelto nella prima gioventù e mai abbandonato, si rifletté nella vastità degli interessi culturali, e nella capacità di praticare la world history, che portò a un livello alto, quanto di grande godibilità narrativa in opere di sintesi eccelsa, fino al fortunatissimo The age of extremies, uscito in italiano con il titolo ancora più efficace Il secolo breve: un’opera mastodontica per la mole, per la densità anche concettuale, e per la capacità di tenere sotto controllo l’intera dinamica mondiale, non solo sul piano della politica – interna ai singoli Stati e quella internazionale – ma su quello dell’economia, della società, delle forme culturali.




Ebbe una lunga esperienza accademica: la sua sede fu essenzialmente il londinese Birbeck College, ma ebbe le sue difficoltà, bollato come marxista e comunista, negli anni Cinquanta (e oltre), quando anche nel Regno Unito giunse il maccartismo, sia pure in quella che Hobsbawm chiamò forma “debole”: per esempio gli furono chiuse le porte di Cambridge. Del resto la politica, sia pure sullo sfondo, fu sempre presente nella biografia di Hobsbawm.

Fu un iscritto, fino al 1989, del Partito comunista britannico dopo essere stato in gioventù adepto del partito omologo germanico, ma al di là della militanza, seguì sempre con forte attenzione le vicende interne al Paese che era diventato il suo d’adozione, l’Inghilterra, e con attenzione maggiore quelle internazionali, non smentendo la sua capacità di guardare oltre il giardino. Fu tra le colonne del giornale Marxism Today e quando chiuse divenne una delle firme più prestigiose del Guardian, sempre con uno sguardo critico, non allineato, sempre originale, talora irriverente, come quando definì Tony Blair “una Thatcher in pantaloni”, suscitando allora un certo scalpore, che la storia successiva si sarebbe incaricata di mostrare invece quanto fosse vicino al vero in quella etichetta.

Furono frequenti le sue intrusioni negli scenari politico-intellettuali di altre nazioni, a cominciare dall’Italia, a cui fu legatissimo non solo per collaborazioni editoriali e scientifiche (fu tra i promotori della Storia d’Italia Einaudi, nonché nel comitato della grande Storia del marxismo, dello stesso editore), ma anche per interessi di ricerca, che non furono mai asettici, bensì sempre so-stanziati di passione politica, sempre dalla parte dei deboli, degli schiacciati, dei subalterni. Un’autentica storia dal basso. Significativa la sua attenzione in chiave storica al banditismo e al brigantaggio post unitario, alla ricerca dei contenuti politici e della base sociale propria di quelle forme primitiva di protesta, come egli le interpretò. Fu tra i primi a studiare un personaggio come Davide Lazzaretti, riconoscendo nella sua lotta religiosa autentiche potenzialità rivoluzionarie.

Ma l'Italia per Hobsbawm fu innanzitutto, e sino alla fine, Antonio Gramsci, che fu per Hobsbawm molto più di un autore da studiare: Gramsci fu davvero per lui un Virgilio, una guida spirituale, oltre che storiografica e genericamente intellettuale, grazie al quale poté accostarsi alla vicenda politica e culturale del nostro paese, suscitando domande nuove, scovando filoni inesplorati, avanzando tesi interpretative per nulla scontate.

Non a caso egli intitolò Past and Present la rivista da lui fondata nel ’52: testata che riprendeva, traducendolo, il titolo del sesto dei volumi in cui furono raccolti i Quaderni gramsciani. Presidente onorario della International Gramsci Society, fu anche membro autorevole della Commissione per l’Edizione nazionale degli scritti di Gramsci, alla quale non fece mancare, nelle complesse fasi dell’esordio, consiglio e sostegno. A Gramsci, anzi a “Nino”, egli indirizzò una struggente lettera, registrata in video dal compianto Giorgio Baratta (studioso gramsciano tra i più originali), in occasione del 70° della morte del grande pensatore e rivoluzionario sardo, al quale, come Hobsbawm stesso confessava nel videomessaggio, lo univa, idealmente, ancor prima che un sodalizio intellettuale, la condivisione di un progetto, di una speranza, di una volontà: l’emancipazione degli sfruttati. A Gramsci – scrisse in uno dei suoi ultimi saggi – occorre esser grati “per averci insegnato che lo sforzo per trasformare il mondo non solo è compatibile con una riflessione storiografica originale... ma è impossibile senza di essa”.

venerdì 28 settembre 2012

La tragica fine di Giovanni Bersan, 18 anni, impiccato ad Aicurzio

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e la conseguente occupazione tedesca del suolo italiano, a cui fece seguito la nascita della Rsi, Repubblica sociale italiana, i partiti ed i movimenti antifascisti clandestini si posero la domanda su quale fosse l’atteggiamento più idoneo volto a contrastare queste tragiche novità.

Fu subito chiaro a molti che fosse necessario ed urgente rispondere con la resistenza armata. Era indispensabile reagire al clima di terrore imposto dal nuovo sodalizio nazifascista attraverso un’azione di guerriglia nelle sue retrovie, che contribuisse il più possibile a ridurre i tempi di una guerra ormai sfiancante per la popolazione italiana.
Seppur fra mille difficoltà si iniziò ad organizzare i primi gruppi partigiani sulle montagne. Nelle città e nei territori a valle, la prima risposta militare fu progettata dal Partito Comunista Italiano che, a Milano, aveva costituito il Comando generale delle brigate Garibaldi, ossia il braccio armato del partito, che chiamò a raccolta le proprie forze sotto la direzione di pochi ma esperti rivoluzionari. A loro fu affidata la creazione dei Gap, Gruppi d’azione patriottica, la cui funzione fu quella di intervenire nelle città contro tedeschi e fascisti, utilizzando come mezzo le azioni armate ed il terrorismo, fatto di atti duri ed eclatanti, come l’uso di esplosivo contro postazioni militari e attentati diretti contro gli uomini più in vista del nemico.


Bandiera del Comando GAP

I gappisti erano pochi e selezionati ed avevano la forza ed il coraggio necessari per compiere le azioni di lotta richieste loro. Normalmente conducevano un'esistenza alla luce del sole, spesso con un normale impiego dietro al quale camuffavano l'attività di guerriglia. In altri casi erano costretti alla clandestinità assoluta. I radicali metodi di lotta dei Gap suscitarono da subito discussioni e incomprensioni nel fronte resistenziale così come nell’opinione pubblica. Questi partigiani urbani non accettarono il “ricatto della rappresaglia” che avrebbe impedito le stesse possibilità di lotta, convinti che la causa di tutti i mali stesse nell’occupazione nazista spalleggiata dai fascisti di Salò, ritenevano che solo mettendo in pratica da subito la lotta armata avrebbero accelerato la liberazione delle città e placato l’attuazione dei piani criminosi degli occupanti.

Alcuni partigiani appartenenti alla Brigata Garibaldi di Milano

A Milano l’organizzazione dei Gap venne affidata a Egisto Rubini, bolognese, combattente nella Guerra Civile spagnola. Ai Gap milanesi vengono ascritti numerosi attentati e azioni militari, tra cui la distruzione del deposito di benzina all’aeroporto di Taliedo, l’uccisione del federale fascista Aldo Resega, l’attacco alla Casa del fascio di Sesto e l’attentato al questore di Milano, Camillo Santamaria Nicolini. Un grande serbatoio di reclutamento per Rubini e i suoi furono le grandi fabbriche di Sesto San Giovanni. E’ in questo ambito che alcuni brianzoli aderirono alla formazione gappista, pagando con la deportazione, e alcuni con la vita, la loro attività contro i nazifascisti.


Egisto Rubini

Furono nove i brianzoli che finirono nei campi di sterminio in Germania: otto a Mauthausen e uno a Dachau. Ben sette lavoravano alla Breda sezione V aeronautica. La maggior parte fu arrestata nel febbraio del ’44, quando tutto il comando e buona parte dei combattenti fu imprigionata, giustiziata o deportata. Egisto Rubini, che era al comando della 3ª brigata Lombardia, essendo stato sottoposto a perdurante tortura, per non parlare e rivelare i nomi dei suoi compagni si suicidò nel carcere di San Vittore. In particolare, la mattina del 5 febbraio 1944, nell’ambito di un trasferimento di armi, alcuni gappisti vennero sorpresi presso il bar Prealpi di Sesto San Giovanni, fra essi c'era Luigi Bersan, che risiedeva a Monza in via Oriani 6.

I fratelli Luigi e Giovanni Bersan erano nati a Ronco all’Adige, in provincia di Verona. Luigi era della classe 1914 mentre Giovanni era più giovane di dodici anni, essendo nato il 12 luglio 1926.
Ben presto la famiglia si trasferì dal Veneto a Monza per cercare lavoro. Luigi trovò un impiego come operaio aggiustatore alla Breda di Sesto San Giovanni. Un certificato emesso il 31 agosto 1945 dal Cln aziendale della Breda dice:

Risulta a questo sotto Cln che l’operaio Bersan Luigi, deportato e deceduto in Germania, faceva parte della cellula comunista della Breda ed apparteneva alle nostre formazioni armate Gap clandestine nelle quali ha svolto la sua attività fino al giorno della sua deportazione (1).

In un primo momento Luigi venne trasferito al campo di Fossoli, in provincia di Modena, poi venne mandato a Bolzano e da lì fu incluso nel trasporto che partì il 5 agosto ’44 per Mauthausen, dove morì, per deperimento, il 20 marzo 1945 (2).
Il 26 luglio 1944, invece, nei giorni in cui Luigi era recluso a Bolzano, il fratello Giovanni, 18 anni, partigiano, detenuto nel carcere di Monza, veniva impiccato ad Aicurzio per rappresaglia verso un atto di sabotaggio, da lui non commesso, contro un traliccio dell’alta tensione.

Per cercare di capire cosa fosse realmente avvenuto e per quale motivo Giovanni fosse stato impiccato, ho avuto modo di consultare il “Liber Chronicus” della parrocchia di Aicurzio, relativo all’anno 1944. Ecco il testo, parola per parola, redatto dal parroco del tempo.

“26 luglio – Esecuzione di condanna a morte per impiccamento.
Stamane, verso le ore 8, in un campo, sulla strada campestre che conduce verso Sulbiate Superiore, venne eseguita la sentenza di morte per impiccagione, emanata dal Comando militare germanico di Monza, contro certo Bersan Giovanni, d’anni 18, nato a Ronco all’Adige, prov. di Verona, il 12 luglio 1926, domiciliato a Monza, accusato e dichiarato reo confesso di aver partecipato ad attività di bande e di avere ferito gravemente con arma da fuoco un Legionario dell’Esercito Tedesco. Per rappresaglia per triste ammonimento, per un atto di sabotaggio commesso da sconosciuti l’altra notte contro la linea d’alta tensione che trasporta l’energia elettrica a Milano, il povero Bersan fu portato qui in automobile dai soldati germanici e impiccato ad una delle piantane di ferro che erano state danneggiate. Il corpo del disgraziato Bersan Giovanni, rimase colà tutto il giorno e solo verso notte fu messo nella cassa da morto e portato al Cimitero di Aicurzio, dove il Parroco col Coadiutore, essendo stata proibita ogni cerimonia, stavano attendendo per recitare nella camera mortuaria le esequie e impartire la benedizione”.


Per rispetto della verità storica ed a perenne memoria di un ragazzo innocente di 18 anni, sull’accaduto ho raccolto anche la testimonianza del sig. Abele Biffi, già sindaco di Aicurzio e fine conoscitore degli eventi storici del territorio. La sua versione dei fatti è oltremodo avvalorata dalla testimonianza diretta, in quanto il sig. Abele, all’epoca dei fatti, avesse dodici anni e visse direttamente con tutta la popolazione di Aicurzio quella tremenda tragedia.

Giovanni, mi ha raccontato il sig. Abele, era un giovane partigiano che fu arrestato a Monza per aver distribuito volantini contro i nazifascisti, e per questo incarcerato. I fascisti costruirono ad arte contro di lui alcune accuse false, tra cui quella di aver ferito un soldato tedesco. La sua "grave colpa", invero, fu quella di essere il fratello minore di Luigi, iscritto al Partito Comunista e membro dei Gruppi d’azione patriottica.
A seguito dell’attentato al traliccio dell’alta tensione, i fascisti locali andarono dal podestà e dal parroco di Aicurzio, ai quali chiesero i nominativi di otto cittadini del paese, tra i più esagitati antifascisti e contrari al regime. Avendo avute risposte negative, i fascisti, che per l’occasione indossarono le divise dei soldati tedeschi, prelevarono Giovanni dal carcere di Monza e lo portarono ad Aicurzio ove, per rappresaglia, lo impiccarono. Secondo le disposizioni impartite dai fascisti, il corpo senza vita del ragazzo rimase effettivamente appeso al traliccio tutto il giorno e furono vietate cerimonie e cortei funebri. Solo il parroco, a tarda sera, potè impartire la benedizione alla salma presso il cimitero del paese.


Il traliccio ove fu impiccato Giovanni Bersan

Il Comune di Aicurzio ha dedicato una via del paese a Giovanni Bersan ed un cippo con due targhe commemorative è stato posto sotto il traliccio dove il ragazzo fu impiccato.








Beniamino Colnaghi

Fonti:
Pietro Arienti, Dalla Brianza ai Lager del Terzo Reich, 2011
Parrocchia di Aicurzio, Liber Chronicus, anno 1944
Abele Biffi, già sindaco di Aicurzio
(1) Mantegazza R. Toppi E. “Al di là del niente. I deportati monzesi nei campi di sterminio nazisti”, Comune di Monza, 2007, pag. 61
(2) Isec, fondo Anpi Milano “Elenco partigiani combattenti 3° Gap”

venerdì 14 settembre 2012

La legge e i potenti nella storia d’Italia

La rivista MicroMega ha pubblicato un saggio di Roberto Scarpinato, procuratore generale preso la Corte di Appello di Caltanissetta, dal titolo “Don Rodrigo e la Costituzione”. Scarpinato ha lavorato con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino presso la Procura di Palermo ed è autore di numerosi saggi e pubblicazioni sia in Italia sia all’estero.

Quella che viene di seguito proposta è un'ampia sintesi del saggio di Scarpinato.

 
Per molti secoli gli italiani non hanno avuto molto rispetto per la legge e lo Stato. Anche perché, né la legge né lo Stato apparivano rispettabili in una società che sino alle soglie del XX secolo era sempre rimasta fondata sulla pietra angolare del rapporto servo-padrone, secondo assetti di potere di tipo tardo feudale.

La legge santificava lo sfruttamento da parte di una casta di privilegiati di una folla sterminata di  "nessuno mischiato con niente”, 
sudditi che mai avevano potuto sperimentare uno statuto della cittadinanza, che ignoravano la stessa base grammaticale della democrazia, che erano stati educati a considerare legge di natura, o legge divina, la divisione del mondo tra potenti e impotenti. Per un popolo composto in massima misura da contadini, che nel 1861 raggiungeva circa l’80% di analfabeti (il 90% nelle isole), l’unica alternativa possibile appariva quella tra il padrone cattivo e quello buono, immaginato di volta in volta nelle vesti ora del principe illuminato, ora del papa re, ora dell’uomo della provvidenza, ora del duce. La legge restava comunque la voce del vincitore di turno in un’ininterrotta lotta per il potere che si giocava sempre sopra la testa e spesso sulla pelle del popolo, mandato al massacro come carne da cannone in battaglia e strumentalizzato dalle varie fazioni di potenti.
In un paese siffatto anche la giustizia era forte con i deboli e debole con i forti. Era la giustizia dei fori speciali dove gli appartenenti alle caste dei privilegiati (aristocratici, ecclesiastici, notabili, ricchi e borghesi) erano giudicati dai loro pari secondo regole separate, diverse da quelle riservate ai poveracci, per i quali valeva il foro comune. Generazioni di italiani hanno dovuto sperimentare per secoli che la legge a nulla valeva contro i soprusi e le ruberie dei potenti.
 

Don Abbondio e i "bravi"

Nel romanzo “I promessi sposi”, ambientato nell’Italia del Seicento, Alessandro Manzoni ha messo in scena la secolare impotenza della legge dinanzi ai potenti. Il povero don Abbondio cade in uno stato di rassegnata prostrazione quando si rende conto che gli uomini armati che lo avevano circondato imponendogli di non celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia, non erano banditi, bensì “bravi”. La differenza era sostanziale: i banditi erano criminali che operavano in proprio e contro i quali vi era possibilità di difesa denunciandoli al potestà del luogo; i “bravi” erano invece criminali al servizio di un potente, in questo caso don Rodrigo, il quale era al di sopra delle leggi perché appartenente al mondo superiore che la legge la imponeva, ma non la subiva.

L’ingenuo Renzo Tramaglino illudendosi di trovare rimedio nella legge contro la prepotenza di don Rodrigo, si rivolge ad un avvocato, ma quando questi si rende conto che avrebbe dovuto agire secondo legge nei confronti del potente signore al di sopra delle leggi, declina l’incarico. In un’Italia dove la legge non contava nulla dinanzi al potere, Manzoni è costretto a fare entrare in gioco la Provvidenza: l’Innominato libera Lucia perché colto da un’improvvisa crisi mistica e solo la morte per peste riesce a fermare la prepotenza di don Rodrigo. Don Rodrigo non è solo il parto della fantasia letteraria di Manzoni, ma il prototipo del potente e del prepotente italiano che cavalcando i secoli e riproducendosi di generazione in generazione è giunto sino ai nostri giorni.


Don Rodrigo

Anche la giustizia messa in scena dal Manzoni ha attraversato i secoli ed è stata una costante italiana. E’ sperimentata nei secoli la sfiducia popolare nella giustizia. Se si analizza la composizione sociale della popolazione carceraria dall’Unità d’Italia sino ai nostri giorni, nonostante il mutare delle forme dello Stato, risulta che in carcere a scontare la pena finiscono quasi esclusivamente gli ultimi della piramide sociale. La quota di colletti bianchi in espiazione definitiva è sempre rimasta statisticamente irrilevante, anche dopo Tangentopoli e Mafiopoli. In un modo o nell’altro, i ceti superiori sono sempre riusciti ad evitare il carcere ai propri esponenti incappati nelle maglie della giustizia, e a riservarlo solo agli stessi ai quali nei secoli passati era riservato il foro comune: “I nessuno mischiati con niente”.

Sotto la dittatura fascista la condizione ed il rispetto della legge e della giustizia non fecero che peggiorare. Molti prefetti e uomini del regime nelle istituzioni fecero a gara nel chiudere gli occhi di fronte alle violenze e alle aggressioni, salvo poi infierire con particolare severità nei confronti dei cittadini che combattevano il fascismo. Come noto, quest’ultimo fu sostenuto e mantenuto al potere da tutte le principali componenti della classe dirigente nazionale. Può quindi ben dirsi che il fascismo declina sulla scena della modernità del Novecento l’identità culturale ancora tardo-feudale di un ceto padronale che nella sua maggioranza non era riuscito ad evolversi da classe dominante a classe dirigente e che continuava a praticare lo stesso codice della violenza e della sopraffazione da sempre praticato nei secoli precedenti da intere generazioni di piccoli e grandi don Rodrigo. In Italia il sovrano, dunque, è stato l’uomo della provvidenza per alcuni secoli, almeno fino alla metà del Novecento.

Come è possibile che un popolo con tale storia alle spalle abbia potuto esprimere e darsi la Costituzione del 1948 che costituisce uno dei massimi vertici della cultura europea dello Stato democratico di diritto? Una Costituzione che per la prima volta poneva le fondamenta per la costruzione di uno Stato e di una legge finalmente “rispettabili”. Di una legge cioè che non fosse più ad uso e consumo dei potenti, espressione dei poteri forti, ma espressione invece di una repubblica fondata sulla pari dignità sociale di tutti i cittadini. Una Costituzione che finalmente cancellasse una secolare e vergognosa storia di servi e padroni e si facesse garante della nascita di una giustizia sociale ed economica. Scarpinato dà questa risposta: “La Costituzione del 1948 (così come era già avvenuto con lo Stato liberale del 1860), non fu affatto espressione della maggioranza dell’Italia reale nella sua duplice componente padronale e popolare, ma di alcune minoranze”. Dopo la seconda guerra mondiale si apre uno spazio provvisorio che assegna il timone del comando a ristrette élite culturali, quali uomini della Resistenza di diversa espressione politica e esponenti della cultura liberale e del riformismo cattolico costretti all’esilio, che selezionano i membri della Costituente ed i futuri parlamentari della Repubblica. L’alchimia della storia trasforma dunque un’avanguardia culturale in maggioranza politica. La nostra Costituzione superò la nostra storia ed indicò un modello: la costruzione di uno Stato democratico di diritto che superava le possibilità etiche delle culture autoctone delle classi dirigenti e delle masse. Nonostante alcuni limiti, la Costituzione del 1948 non rimase solo un libro dei sogni ma fu un lievito di crescita democratica per l’intero paese.
 

 
 
Oggi, però, sono venuti meno due fattori che avevano messo in sicurezza la Costituzione da tentativi di restaurazione. La fine del bipolarismo internazionale e la scomparsa, o irrilevanza sociale, della classe operaia che operava come virtuale catalizzatore politico generale delle masse e baricentro di tutto il sistema politico. Lo stesso partito popolare di don Sturzo nacque dall’esigenza di costruire un possibile polo politico riformista alternativo alla sinistra. Con il venir meno di questi due fattori, le masse sono tornate ad essere, così come erano sempre state nel tardo feudalesimo, soggetto passivo della storia, manipolabile dall’alto, e la Costituzione è diventata oggetto di tentativi di modifiche e di svuotamento da parte delle maggioranze governative. Le élite o le minoranze illuminate sopravvivono solo grazie ad alcune enclave istituzionali protette (per ora) come quelle della Corte costituzionale e della Magistratura. Vi sono anche le minoranze della società civile che si mobilitano nelle piazze, nei circuiti culturali alternativi, nella rete web.

La strada è in salita e la storia si ripete. La sovranità popolare è stata svuotata, il parlamento è stato ridotto a un’assemblea di nominati dal Principe, la separazione tra potere esecutivo e legislativo è stata fortemente ridimensionata, l’informazione televisiva è stata occupata, il conflitto di interessi è ai massimi livelli. Il neofeudalesimo italiano affollato da tanti vassalli e servitori in cerca del loro principe, da tanti sudditi contenti di esserlo, da tanti intellettuali la cui massima aspirazione è di diventare consiglieri privilegiati del principe, sembra essere una riedizione della storia più vera e autentica del nostro paese.

Che fare? Chi salverà questo paese da se stesso? La lezione della storia dimostra come in alcuni frangenti cruciali l’Italia non sia stata salvata dalle sue maggioranze, ma dalle sue minoranze. Sono state le minoranze che hanno fatto il Risorgimento, sono state le minoranze che hanno fatto la Resistenza e hanno concepito la Costituzione. La difesa della Costituzione resta l’ultima spiaggia. Salvare la Costituzione significa salvare la parte migliore della nostra storia. Gli storici e gli analisti del potere sanno bene che la storia non è fatta dalle maggioranze disorganizzate, né dalle oligarchie paralitiche. Oggi viviamo una fase della storia nella quale le minoranze eredi di quelle che vollero la Costituzione, che vollero il Concilio Vaticano II, che realizzarono lo Statuto dei lavoratori e promossero riforme di libertà, sembrano essere diventate orfane di rappresentanza e guida politica.

Oggi è tempo che ciascuno assuma su di sé l’onere e la responsabilità di aiutare il vecchio a morire per consentire al nuovo di nascere. Giacché il futuro non è il tempo che viene e sopraggiunge, ma il tempo che si costruisce insieme. E, per citare Gaetano Salvemini, ciascuno di noi troverà nell’avvenire quel tanto che vi avrà messo di se stesso. Solo chi si arrenderà ai fatti non vi troverà nulla, perché vi avrà messo nulla.