lunedì 29 ottobre 2018

I profughi della Valle di Ledro
“deportati” in Boemia negli anni 1915-1919

L’articolo che segue contiene integrazioni e ulteriori approfondimenti rispetto ad un post pubblicato il 4 novembre 2017 che trattava la deportazione di diverse migliaia di persone che risiedevano nei territori del Trentino e del Sud Tirolo durante la prima guerra mondiale (1). 
I deportati erano italiani, anche se i loro territori di residenza si trovavano sotto il dominio della potentissima famiglia austriaca degli Asburgo. Difatti, nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, gli abitanti del Trentino, così come quelli della Boemia, della Moravia e di molte regioni slave del centro e del sud dell’Europa, facevano parte di uno Stato multinazionale e multiculturale: l’Austria-Ungheria.
Al fine di approfondire e nutrire di maggiori dettagli storici la vicenda, sono venuto in possesso di alcuni libretti pubblicati da diversi comuni boemi che ospitarono gli sfollati trentini, contenenti preziose informazioni documentali, testimonianze, numeri e aneddoti, scritti in ceco e tradotti in italiano, in omaggio al Patto di gemellaggio sottoscritto tra quei comuni boemi ed i comuni italiani della Val di Ledro.
Sarebbe storicamente utile ricordare, perché quando sono in gioco il potere, il dominio e i grandi interessi geopolitici nulla è scontato, che, nel dicembre del 1912, due anni prima dell’inizio del conflitto bellico, l’Italia riconfermò l’alleanza con la Germania e l’Austria-Ungheria, gli imperi centrali europei. Allo scoppio della guerra, anche questo è importante ribadirlo, l’Italia non entrò subito in guerra ma finse una sospetta neutralità. Nel frattempo, però, pare che il nostro Paese cominciò a trattare il proprio sostegno alla Francia, all’Inghilterra ed alla Russia (Triplice Intesa) in cambio dell’impegno a ottenere, a guerra finita, i territori dell’Impero austriaco confinanti con l’Italia. Nonostante i molti problemi interni e la grave crisi economica, il 24 maggio 1915 il Regno d’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria, convinto che la guerra sarebbe stata breve e vittoriosa e di poter ristabilire in poco tempo l’ordine nel Paese. I campi di battaglia più importanti e cruenti del fronte italiano furono i territori lungo i fiumi Isonzo, Adige e Piave e, soprattutto, il Trentino. In questa regione il fronte passava a nord-ovest del lago di Garda, su alcuni villaggi della Valle di Ledro.
Per liberare dai civili le linee del fronte, le autorità militari austro-ungariche decisero, nei giorni 22 e 23 maggio 1915, di evacuare i villaggi di quest’ultima valle e di zone limitrofe. La gente che aveva sempre vissuto nelle valli e in montagna per tutta la propria vita, isolata dal resto del mondo e dipendente in gran parte dall’agricoltura e dalla pastorizia, fu costretta ad abbandonare la propria casa, gli animali, i possedimenti e a partire per recarsi in località a loro ignote. Dovettero abbandonare anche i propri cari, che nel frattempo vennero arrestati, perché sostenitori dell’Italia unita o perché avevano a casa un quadro di Giuseppe Garibaldi. Secondo il decreto ufficiale, la cittadinanza del Sud Tirolo venne divisa in base alla lingua parlata. La notifica di evacuazione venne consegnata anche ai bambini nelle scuole e agli adulti, comunicata anche dai pulpiti delle chiese. Nella cronaca del tempo si legge che, di notte, una lunga colonna di donne, anziani e bambini si avviò verso la stazione ferroviaria di Riva del Garda. Il viaggio in treno durò dai tre ai cinque giorni, perché i treni carichi di soldati per il fronte avevano la precedenza. Il numero esatto degli evacuati non è certo, tuttavia, lo storico militare ceco Ivan Šedivý ha affermato che ”… più di 100.000 sfollati polacchi ed ebrei, insieme a 20.000 italiani, furono alloggiati in Boemia, altri 50.000 italiani in Moravia. È quasi certo che verso la metà del 1915 oltre 250.000 profughi avevano trovato asilo in Boemia e Moravia. Nel 1917 il numero delle “vittime” di questa guerra raggiunse le 760.000 unità”.
Le autorità austriache cercarono di occuparsi dei profughi inviando ordinanze nei vari comuni ove essi erano stati assegnati, normalmente in comuni piccoli e in villaggi. I consigli scolastici crearono classi per l’insegnamento ai bambini dei profughi ed i sindaci dei comuni ospitanti ricevettero sovvenzioni volte a organizzare la sistemazione degli sfollati italiani ed a pagare i privati che ospitavano i profughi. Le osterie, hospoda o hostinec, in lingua ceca, erano obbligate dallo Stato a destinare qualche locale per far posto a questa povera gente. Un altro motivo, stimolo per i boemi, affinché si desse accoglienza era la possibilità di avere più braccia nelle attività agricole e produttive.
Gli italiani, sui documenti ufficiali che circolavano tra Vienna, Praga e i vari distretti locali, venivano indicati con epiteti tedeschi o con le corrispondenti espressioni in lingua ceca: profughi di guerra (Kriegsfluchtlinge), Italiani dell’impero (Reichsitaliener), cittadini di uno Stato in guerra con la monarchia, Italiani internati, Tirolesi…
Le fotografie che seguono ritraggono interi nuclei familiari italiani vissuti nei piccoli villaggi boemi e scene di vita quotidiana, nei campi, durante un funerale o presso un cimitero locale.

 
 



Sono stati rinvenuti negli archivi storici di alcuni comuni e presso le stazioni distrettuali della polizia diversi verbali circa dei controlli, da parte della gendarmeria, di “Italiani dell’Impero” sospettati di aver commesso piccoli reati o di non essersi presentati negli uffici preposti per essere arruolati come militari di leva. Appena raggiungevano l’età per essere arruolati, i nostri giovani venivano mandati al campo d’internamento di Katzenau, nei pressi di Linz, o a Drosensdorf nella Bassa Austria.
Più liberi di muoversi erano i preti cattolici italiani che, dovendo spostarsi per far visita ai loro fedeli o officiare la messa, ricevevano un sussidio e anche un biglietto gratuito della ferrovia statale. L’Impero, però, li obbligava a tenere un registro su cui annotare il numero dei loro fedeli, le spese di viaggio e di alloggio sostenute, le entrate e le ricompense. Fin da subito, i parroci italiani ebbero un ruolo fondamentale di sostegno e supporto, anche psicologico e morale, nei confronti dei loro parrocchiani. Alcuni preti partirono subito con gli sfollati, duranti i primi trasporti, gli altri li raggiunsero più tardi già nelle località a loro assegnate. Per i contadini analfabeti o semianalfabeti, fortemente credenti, il prete fu il loro principale punto di riferimento, il consigliere, l’interprete.
Nella regione a sud-ovest di Praga, nel distretto di Beroun, i preti organizzavano anche i pellegrinaggi presso il santuario di Svatá Hora (Montagna Sacra), il più importante della Boemia, dedicato alla Vergine Maria, nel quale si incontravano tutti gli italiani rifugiati in Boemia.

 
I deportati italiani in due foto di gruppo presso il santuario
 
 
Il santuario di Svata Hora oggi 
 
Nei cimiteri dei piccoli paesi ove vissero gli italiani, sono stati sepolti soprattutto i contadini, le donne e i bambini, che dopo la guerra non sono ritornati nella Valle di Ledro. Il loro prete li battezzò e li istruì, diede loro l’estrema unzione, celebrò i loro funerali. Li accompagnò, nel bene e nel male, durante tutte le fasi della loro vita in Boemia.
Quando arrivarono in Boemia e Moravia, gli sfollati italiani vennero distribuiti nelle località loro assegnate, in un numero proporzionale alle dimensioni di quei paesi. I sindaci e molti volontari locali furono costretti, anche in piena notte, a recarsi nelle varie stazioni ferroviarie con i necessari carri per prelevare gli sfollati italiani. Durante gli ultimi giorni di maggio e i primi di giugno del 1915, da parte delle autorità boeme e morave vennero attuate tutte quelle azioni volte a ricevere e sistemare i nostri “deportati”. A Kladno, un telegramma trasmesso al sindaco parla dell’arrivo di cento sfollati, a Podkozi furono trenta, anche a Libečov una trentina, solo a Železná ne arrivarono circa 60, ma, in una lettera del parroco di questa località, si racconta della presenza di circa 240 italiani in tutti i villaggi compresi nella parrocchia di Železná. A Chyňava, secondo alcune informazioni verbali tramandate dai più anziani, i profughi italiani alloggiarono in tre taverne e osterie che avevano delle sale idonee ad ospitarli. In alcune di queste località i consigli comunali fecero domanda alle autorità centrali di ulteriori sovvenzioni in corone austriache affinché si concedessero nuovi finanziamenti ai proprietari delle strutture private che ospitavano i profughi, che, come abbiamo visto poco sopra, non erano solo italiani. In una delle tre taverne del villaggio, denominata Hospoda U Lepičů, accanto alla stazione dei gendarmi imperiali, abitava il parroco italiano, don Luigi Miorelli, sua nipote e la perpetua. A Železná, un villaggio di circa 400 anime, in una struttura pubblica che veniva definita “granaio comunale” abitava una famiglia di contadini di Mezzolago, sul lago di Ledro, mentre un altro nucleo familiare italiano abitò nell’albergo dei poveri, adiacente la chiesa parrocchiale. Dalle registrazioni anagrafiche dei decessi risulta che Železná ospitò soprattutto persone provenienti da Mezzolago e Bezzecca, distretto di Pieve di Ledro, ossia l’allora Capitanato di Riva in Tirolo. A Libečov, presso la taverna locale, abitavano una decina di “Tirolesi”, mentre nella casa del calzolaio Rudolf Kučera, pare che abitassero, secondo la cronachista locale, due sorelle italiane, così brave a cantare canzoni della loro terra in jodel che vennero invitate a cantare nelle chiese dei villaggi.
Dell’amore per il canto dei profughi scrive il parroco Miorelli di Bezzecca subito dopo le prime settimane di permanenza nella parrocchia di Železnà: “I cechi osservano con ammirazione la devozione del popolo trentino. La domenica sera molti partecipano alla nostra Santa Messa e ascoltano volentieri le canzoni italiane. La nostra religiosità riesce a diffondere gioia e consolazione”.
A Podkozi, come quasi ovunque, i profughi alloggiati erano bambini, donne e uomini con un’età superiore a 52 anni. Il cronachista locale scrive che lì nacquero e morirono molti profughi, in media più che da ogni altra parte. La carenza di cibo e la mancanza di igiene erano diffusi ovunque, ma in quella località mancava anche l’acqua potabile che, molto probabilmente, fu la causa dello scoppio di un’epidemia di tifo. Poi, nel 1918, ci si mise anche l’influenza spagnola, che fece altre vittime.

Classi di bambini italiani vennero aperte in po’ in tutte le scuole. In molti documenti e verbali reperiti negli archivi di quei comuni si trovano annotazioni e aneddoti sulle classi italiane. A Chyňava, nel libro dei ricordi della scuola è scritto. “Classe italiana. Su ordinanza dell’I.R. Consiglio scolastico distrettuale è stata istituita nella nostra scuola la classe per i figli dei profughi tirolesi di Chyňava, Železnà, Libečov e Prilepy. L’insegnamento è iniziato il giorno 13 dicembre 1915. Insegna il prete, profugo tirolese, don Luigi Miorelli. I bambini sono oltre 40”. Un’altra nota dice: “A causa di un’epidemia di tifo, i bambini di Podkozi non potevano venire a scuola”. Nella cronaca dei vigili del fioco di Podkozi è riportato che si ammalarono di tifo circa trenta persone e ne morirono sei. Alcuni cronachisti delle località boeme ospitanti italiani scrissero che, nelle scuole, i nostri bambini studiavano tutti insieme, in quanto non erano divisi né secondo l’età né secondo il sesso. Le scuole nei capitanati distrettuali erano visitate e controllate dagli ispettori o direttamente dal Consiglio distrettuale. L’Ispettorato dovette spesso registrare l’atteggiamento negativo dei bambini cechi verso i profughi italiani, come è stato documentato in più d’una circolare dei responsabili delle scuole distrettuali, trasmesse alle direzioni e amministrazioni delle scuole, agli uffici comunali e alle autorità religiose. In una di queste, è scritto: “Il comportamento incivile di alcuni bambini è per noi una vergogna…, dimostra una brutalità e un’insensibilità degne di deplorazione e che vanno combattute con ogni mezzo… Lo stesso Consiglio scolastico distrettuale è dovuto intervenire direttamente ed è indignato e addolorato per l’ineducazione dei nostri giovani”.
Tutte le cronache e i documenti storici descrivono la grave carenza di cibo nella regione, i soldi perdevano progressivamente il loro valore e le malattie e le carestie uccidevano molte persone. A seguito dell’entrata in guerra dell’Impero, in tutti i villaggi arrivarono le ordinanze di chiamata alle armi per i giovani e gli uomini fino a 52 anni. Fu così che gran parte del peso della vita familiare e del lavoro nei campi cadde sulle spalle delle donne. Un’altra ordinanza riguardò la requisizione di cavalli e bestiame. Gli abitanti dei villaggi boemi e moravi dovettero privarsi, ogni mese, di alcuni capi di bestiame da “cedere” allo Stato. Nell’ambito delle requisizioni, i competenti uffici statali acquistarono i beni alimentari dai poveri contadini a prezzi molto bassi. In molti casi, a causa dei cattivi raccolti, le autorità militari confiscarono in tutti i villaggi tutto ciò che trovarono. All’inizio del 1918 la Boemia si trovò sull’orlo di una pesante carestia e in questa difficile situazione vissero anche gli sfollati italiani. Ma, come cita un saggio proverbio, i contadini boemi e italiani “fecero di necessità virtù”, ossia tutti gli abitanti dei villaggi cominciarono a collaborare secondo le loro possibilità, compresi i bambini che portavano a pascolare le capre o le oche e raccoglievano le spighe nei campi. I sussidi dello Stato erano distribuiti a tutte le donne, ceche e italiane, i cui mariti erano al fronte a combattere.
I profughi arrivati dalla Valle di Ledro erano per la maggior parte nullatenenti. Già una delle prime ordinanze riportava che “… il sussidio è destinato a coprire le spese per l’alloggio e il vitto dei profughi nullatenenti”. I sindaci dei paesi ospitanti i profughi italiani dovevano obbligatoriamente redigere e trasmette un elenco con i nomi dei profughi, quanti giorni queste persone erano state pagate e la cifra totale erogata per questi scopi. L’importo base dei sussidi veniva periodicamente aggiornato e rivalutato. Tutte le operazioni nell’intera Austria-Ungheria erano dirette dall’Ufficio supremo per gli sfollati con sede a Vienna.

Molti dei profughi italiani strinsero profonde amicizie con la popolazione ceca e morava, impararono parzialmente la lingua, seppur nei tratti principali, mantennero i contatti per molti anni dopo la fine della guerra e dell’esilio, attraverso lettere, cartoline e fotografie. I più giovani ebbero maggiori possibilità di scambio di messaggi epistolari, grazie anche ad una maggiore scolarizzazione e apprendimento della lingua ceca. Anche parecchi anziani in Boemia, raccontando dei ricordi tramandati dai loro genitori, hanno affermato che, in alcune circostanze, all’interno della loro famiglia venivano pronunciate alcune brevi frasi in lingua italiana, che i loro genitori avevano fatto amicizia con i loro coetanei tirolesi e che, da bambini, portavano i fiori sulle tombe degli italiani deceduti.
Ancora oggi, come più ampiamente documentato nel primo post del 4 novembre 2017, iniziative, cerimonie, scambi culturali e soggiorni turistici tra i cittadini italiani e cechi intendono ricordare l’esodo dei nostri connazionali in terra di Boemia e Moravia.
 
 
 
 
 

 
 
 
Durante la primavera e l'estate del 2018, in occasione del decimo anniversario del patto di amicizia e gemellaggio tra i comuni della Valle di Ledro e alcuni comuni della Repubblica Ceca, si sono svolte manifestazioni e iniziative importanti, volte, non solo a ricordare gli eventi storici vissuti in quei terribili anni, ma anche a far conoscere ai più giovani le testimonianze di ciò che i loro avi hanno vissuto ed a trasmettere messaggi di pace, tolleranza e convivenza civile e democratica tra i popoli.

Beniamino Colnaghi

Note
1. La Valle di Ledro e la Boemia: storie di guerra e di amicizia:

Le terre orientali dell'Impero austro-ungarico:
http://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2015/07/le-terre-orientali-dellimperoaustro.html

Nel santuario di Svata Hora è stato collocato il monumento a ricordo degli oltre 400 ledrensi deceduti nel corso dell'esilio in Boemia
 
Bibliografia
Miroslav Oliverius, Naše Chyňava, obec Chyňava, 2014
In memoria degli sfollati della Valle di Ledro nella provincia di Kladno (1915-1919), maggio 2009

mercoledì 3 ottobre 2018

Il bombardamento aereo di alcune località tra Cantù e Cucciago, avvenuto il 24 ottobre 1942

Già dai mesi estivi del 1942 il Canturino divenne passaggio obbligato di squadriglie di bombardieri inglesi, senza che ciò, tuttavia, provocasse attacchi di rilievo nella zona. Gli obiettivi erano le periferie industriali, con le fabbriche di armi, i depositi di materiale bellico e di combustibile. Prima dell’autunno 1942, esattamente nella notte fra il 2 e il 3 settembre 1940 vi fu uno sganciamento di alcune bombe su Mariano Comense e Merate, senza però provocare gravi danni.
Fu molto più grave, persino tragico, il bombardamento aereo avvenuto a Erba nel 1944(1), che provocò lutti e devastazioni.
La sera del 24 ottobre 1942, dunque, il territorio compreso tra alcune cascine di Cantù, l’abitato di Cucciago e l’area tra Senna Comasco e Albate subì un bombardamento aereo. Il primo bombardamento registrato sul Canturino. Nonostante l’intensità, non si registrarono vittime, né gravi danni alle cose, perché la maggior parte delle bombe cadde in aperta campagna e i principi d’incendio vennero subito spenti. Non ci furono vittime, soprattutto perché la popolazione, avvisata dalle sirene antiaeree di Cantù, si nascose nei boschi vicini al paese.

Cantù, piazza Garibaldi nei primi anni '50
 
Cucciago, una vecchia foto del 1906

Terminato il bombardamento, le autorità civili si preoccuparono subito di avvisare la popolazione affinché non si avvicinasse agli ordigni inesplosi e che qualsiasi rinvenimento fosse segnalato alle forze dell’ordine. Le squadre del genio operarono per parecchi giorni nelle campagne colpite dalle bombe per bonificare i terreni. 
Solo dopo pochissime ore si seppero i reali motivi che indussero gli aerei alleati a sganciare le bombe sul Canturino: le incursioni coincisero con il primo intenso bombardamento del centro di Milano. Quel primo attacco aereo sul capoluogo lombardo segnò un decisivo mutamento di strategia da parte delle nazioni che stavano combattendo il nazismo e il fascismo sul suolo italiano. Il loro scopo non sarà più soltanto la distruzione dell’apparato produttivo bellico ma si prefiggerà di minare la resistenza morale della popolazione milanese. Il primo bombardamento su Milano del 24 ottobre 1942 fu una prima prova tecnica operata dagli alleati. Causò tuttavia centinaia di case distrutte e diverse decine di morti. Gli attacchi su Milano continuarono molto più pesantemente anche negli anni 1943 e 1944 e proseguirono le azioni di disturbo anche nei primissimi mesi del 1945, durante i quali numerosissimi furono gli attacchi nelle località della periferia industriale e della provincia, a carico di treni, scali ferroviari e aziende.


Milano, i gravi danni alla basilica di Sant'Ambrogio ed al Teatro alla Scala dopo i bombardamenti del 1943 (fonte Wikipedia.org)

All’indomani dell’incursione molti si chiesero quale poteva essere stato il motivo all’origine del bombardamento sul Canturino. Ci fu casualità, dovuta alla necessità di alleggerire i velivoli del loro carico, oppure la causa era la presenza a Cantù di una fabbrica aeronautica, localizzata peraltro a poca distanza dalla zona bombardata? Molto probabilmente lo sganciamento fu dovuto alla prima ipotesi qui appena formulata.
Sulla stampa nazionale del giorno seguente non vennero pubblicate notizie rilevanti sui bombardamenti. Soltanto il 26 ottobre il “Corriere della Sera” informò dell’incursione aerea inglese su Milano, liquidandola però in poche righe. Ciò era dovuto alle direttive del regime fascista, secondo le quali era preferibile non trasmettere notizie allarmanti alla popolazione, al fine di creare sconforto e paura. Il 28 il quotidiano milanese rese finalmente noti i danni riportati da Milano, che, pur senza essere consapevole, stava sostenendo le prove generali di ciò che l’avrebbe attesa con toni sempre più drammatici nei due anni e mezzo seguenti.
 
Beniamino Colnaghi
 
Note