giovedì 24 gennaio 2013

27 gennaio: “Giorno della Memoria”

L’articolo 1 della legge 20 luglio 2000, n. 211 definisce così le finalità del Giorno della Memoria:
«La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».
Se lo scrittore, poeta, partigiano Primo Levi oggi fosse vivo, sarebbe un distinto signore torinese di 93 anni e parteciperebbe volentieri alle commemorazioni per l’anniversario della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz da parte di un reparto dell’Armata Rossa, la mattina del 27 gennaio 1945.
Nel dicembre 1943 Levi venne arrestato dalla milizia fascista dalle parti di Brusson, in Val d’Aosta, e trasferito nel campo di Fossoli, in provincia di Modena. Nel febbraio 1944 il campo di concentramento e transito di Fossoli venne preso in gestione dai tedeschi, i quali avviarono Levi e altri prigionieri su un convoglio ferroviario con destinazione Auschwitz, in polacco Oświęcim. Il viaggio durò cinque giorni. All'arrivo gli uomini vennero divisi dalle donne e dai bambini e avviati alla baracca n. 30.
Auschwitz (foto nel pubblico dominio)

Il giorno della liberazione del campo Primo Levi era presente e così scrisse all’inizio del suo romanzo La tregua:
«La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Somogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.
Erano quattro soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi…Non salutavano, non sorridevano: apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche e avvinceva i loro occhi allo scenario funebre. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista…».
Beniamino Colnaghi

lunedì 14 gennaio 2013

Sant’Antoni del purcèll, un santo venerato anche in Brianza

La festa di sant'Antonio abate si celebra ogni anno il 17 gennaio. In passato era una delle ricorrenze più sentite nelle comunità contadine. La vita dell'uomo e le stagioni della natura con moto perpetuo si sovrapponevano, si integravano in un sistema ciclico entro il quale si realizzava il duraturo accordo tra natura, uomo e società. Il contadino, fino alla prima metà del Novecento, impiegava il suo tempo secondo il rigido calendario stabilito dalla natura. La presenza della Chiesa, inoltre, nel paese e nel piccolo villaggio, forniva ai contadini un solido criterio della misurazione del tempo scandito dalle funzioni religiose, dai periodici e giornalieri richiami alla preghiera e dalle celebrazioni di festività che ricongiungevano la comunità contadina al continuo ripetersi, anno dopo anno, degli eventi celebrati dalle Sacre scritture, da calendari e ricorrenze.

Oggi, nelle società che vengono definite post di qualsiasi cosa, le festività legate al mondo rurale ed alle tradizioni contadine sono meno diffuse. Alcune di esse permangono soprattutto grazie a pochi e testardi cultori delle tradizioni che le ricordano e le fanno rivivere in alcune zone rurali e nei paesi della provincia profonda, dove le tradizioni sono più radicate rispetto alle grandi città ovvero ad aree “compromesse” dalla progressiva e sistematica modificazione dell’ambiente naturale e distruzione dei luoghi sociali e del vivere comunitario. 

Nella cultura popolare, sant'Antonio abate veniva raffigurato con accanto un maialino. I contadini, per distinguerlo dall'altro Antonio, quello comunemente detto da Padova, lo chiamavano infatti sant'Antoni del purcèll, il quale spesso era rappresentato con lingue di fuoco ai piedi e aveva in mano un bastone alla cui estremità era appeso un campanellino. Per certi versi, nessun altro santo  entrò pesantemente nelle usanze e nel costume quotidiano brianzolo come sant’Antonio abate.

Sant'Antonio abate (foto nel pubblico dominio in quanto il copyright è scaduto)
 
Malgrado tutte queste connotazioni, attribuitegli da una tradizione secolare, in realtà Antonio aveva poco o nulla a che fare con la Brianza: era infatti un eremita ed un asceta tra i più rigorosi nella storia del Cristianesimo antico. Antonio, di cui conosciamo bene la vita grazie alla biografia scritta dal suo discepolo Atanasio, nacque in Egitto, a Coma, una località sul Nilo, intorno all'anno 250. Malgrado appartenesse ad una famiglia piuttosto agiata, mostrò sin da giovane poco interesse per le lusinghe e per il lusso della vita mondana: alle feste e ai banchetti infatti preferiva il lavoro e la meditazione, e alla morte dei genitori distribuì tutte le sue sostanze ai poveri. Compiuta la sua scelta di vivere come un eremita, si ritirò dunque in solitudine a lavorare e a pregare, dapprima nei dintorni della sua città natale e successivamente nel deserto, vicino a Tebe. Qui trascorse molti anni vivendo in un'antica tomba scavata nella roccia, lottando contro le tentazioni del demonio, che molto spesso gli appariva per mostrargli quello che avrebbe potuto fare se fosse rimasto nel mondo. A volte il diavolo si mostrava sotto forma di bestia feroce allo scopo di spaventarlo, ma a queste provocazioni Antonio rispondeva sempre con digiuni e penitenze. La sua fama di anacoreta si diffuse ben presto presso i fedeli, tanto che fu costretto, malgrado il suo desiderio di vivere distaccato dal resto del mondo, a cambiare più volte luogo per sfuggire ai curiosi. Malgrado conducesse una vita dura e piena di privazioni, Antonio fu molto longevo: si dice che la morte lo colse all'età di 105 anni.
 
I riti che si compiono ogni anno in occasione della festa di Sant'Antonio sono antichissimi e legati strettamente alla vita contadina e fanno di Antonio abate un vero e proprio “santo del popolo” e “santo tutto fare”. Egli era considerato il protettore per eccellenza contro le epidemie di certe malattie, sia dell'uomo sia degli animali. Era infatti invocato come protettore del bestiame, dei porcai, dei macellai e dei fornai e la sua effigie era in passato collocata sulla porta delle stalle.

Era anche conosciuto come il “mercante di neve” in quanto metà gennaio era il periodo più nevoso dell’anno. Il santo veniva invocato per scongiurare gli incendi, e non a caso il suo nome è legato ad una forma di herpes zoster, nota appunto come "fuoco di sant'Antonio" o "fuoco sacro". Venerato a gennaio, mese che anticamente in Brianza vedeva la celebrazione dei matrimoni, era invocato dalle ragazze da marito che cantavano "Sant'Antoni gluriùs, damm la grasia de fa 'l murùs, damm la grasia de fal bèll, Sant'Antoni del campanèll".

La festa di sant'Antonio abate è oggi abbastanza viva in Brianza, dove la si celebra tra bancarelle, frittelle e vin brûlé, e soprattutto tra i falò. Antonio, come abbiamo visto, era infatti considerato il patrono del fuoco. Secondo alcuni i riti attorno alla sua figura testimoniano un forte legame con le culture precristiane, soprattutto quella celtica e druidica. E' nota infatti l'importanza che rivestiva presso i Celti il rituale legato al fuoco come elemento beneaugurante. 
 

Intorno al fuoco la gente del posto cantava anche qualche canzone tramandata oralmente da padre a figlio. Ad esempio, in un grosso comune della Brianza monzese si cantava così:

Sant’Antoni di purcei el sunava i campanei;
i campanei s’inn rumpü, Sant’Antoni el s’è scundü;
el s’è scundü sutt a una porta, gh’era là una dòna morta;
gh’era pizz i candilé, Sant’Antoni el gh’è andaa a dré;
el gh’è andaa a dré fin al vapur, Sant’Antoni l’era un sciur;
l’era un sciur senza pecaa, Sant’Antoni el s’è salvaa;
el s’è salvaa in Paradis, Sant’Antoni e San Lüis. 

Il 17 gennaio in molti paesi della Brianza si benediceva il bestiame. In alcuni comuni tra i più grossi, dopo la benedizione si andava nelle fiere del bestiame e si chiudeva il tutto con una processione durante la quale i fornai portavano ai piedi della statua del santo le loro offerte.

Dopo essermi documentato su alcune e differenti fonti locali ed aver sentito oralmente residenti dei comuni interessati ho constatato, con un certo stupore, che sono ancora parecchie le località, più o meno grandi, nelle quali si festeggia sant’Antonio abate. Le più vicine a Verderio sono Ronco Briantino, in provincia di Monza-Brianza, e Brivio, in provincia di Lecco.

A Ronco, nella parrocchia di S.Ambrogio ad Nemus, al termine della Messa solenne il parroco esce sul sagrato della chiesa e benedice il bestiame, nonché i trattori ed i mezzi agricoli. “Nei tempi andati” i contadini che avevano animali ammalati nelle stalle, facevano benedire alcune manciate di sale che poi mescolavano al cibo dato al bestiame.
 
Brivio, il falò sull'Adda (foto tratta da Merateonline.it)
 
A Brivio, nel Burgh di Tàter, anche quest’anno un efficiente comitato festeggiamenti ha organizzato un denso programma di iniziative in onore di sant’Antonio abate: sante messe, benedizione del sale e del pane di sant’Antonio, vespri e momenti di preghiera, offerta di piatti tipici della cucina brianzola, benedizione degli animali domestici, solenne processione per le vie del borgo con la statua del santo e, per terminare in bellezza la giornata del 17, “Giochi di luce sull’Adda, falò e fuochi pirotecnici”.

Insomma, una festa i cui caratteri salienti riguardano il tentativo di mantenere il culto effettivamente diffuso e radicato delle buone tradizioni nella vita quotidiana dei brianzoli e, non da ultimo, attraverso un fenomeno religioso, potenziare le relazioni sociali e interpersonali degli abitanti del luogo e creare un buon auspicio per il futuro.

Beniamino Colnaghi
 

mercoledì 2 gennaio 2013

Vecchie storie di Milano: la Pusterla dei Fabbri

Le cinte murarie erette a protezione della città di Milano furono tre: la prima risalente all'epoca romana, sotto il principato di Ottaviano Augusto, che subì in seguito un ampliamento, la seconda medievale e l’ultima risalente all'epoca della dominazione spagnola.

Bonvesin de la Riva, magister, o doctor gramaticae, poeta, terziario dell'Ordine degli Umiliati nel volume "De magnalibus Mediolani" del 1288 scrive che Milano, Mediolanum, ebbe le prime mura alla fine della repubblica romana.
Le due strade principali che convergevano sulla Milano romana s'identificavano con il decumano massimo, dalla Porta Romana alla Porta Vercellina e il cardine massimo dalla Porta Ticinese. Con Massimiano Erculeo la città fu ampliata e difesa da una nuova cerchia di mura, a sud-est la cinta muraria si collegava al Circo e proseguiva verso il Carrobbio di Porta Ticinese e le vie S.Vito, dei Cornaggia, Paolo da Cannobio e via Delle Ore.
Nel 1338 Azzone ristrutturò le vecchie porte o posterle, rinforzandole e ponendovi un'immagine sacra di Madonna a difesa della città e costruì la seconda cinta di mura.
La terza cinta risale, invece, a Ferrante Gonzaga, governatore del Ducato di Milano, che ne decise la costruzione nel 1546 in nome di Filippo II di Spagna. Le mura di Ferrante Gonzaga furono un'opera esclusivamente militare, costruite come fortificazioni per proteggere la città, i borghi ed il terreno coltivato. Il circuito coincideva con quello del fossato del Redefossi, ove vennero confluite le acque del Seveso. Le porte di Milano sino al 1787 furono un semplice varco nelle fortificazioni, il ruolo era permettere il passaggio di persone e di merci in entrata ed uscita (con applicazione del dazio).


Le mura di Milano - Mappa del 1573
Per capire come dovevano essere le porte nelle nuove mura di Mediolanum possiamo prendere ad esempio la Porta Pretoria di Aosta o quella Palatina di Torino, di età augustea, poiché esisteva per volontà di questo imperatore una scuola di architetti-urbanisti che uniformava i modelli, come sotto qualsiasi regime totalitario. Le porte avevano spesso il nome della via su cui uscivano. A Mediolanum erano note la Porta Comasina per Como, la Romana in direzione per Roma, la Vercellina per Vercelli-Novara, la Ticinese per Ticinum (Pavia) e l’Argentea, o Orientale. Fa eccezione la porta sull’area dell’attuale Castello Sforzesco che si chiamò Giovia, tradizionalmente in onore di Diocleziano Giovio nel 286 d.C., ma esiste una lapide che cita un Collegium iumentariorum portae Vercellinae et Ioviae che può fornire un’indicazione per la datazione. Lo stesso discorso vale per la porta Erculea, in onore di Massimiano Erculeo, aperta sull’area dell’attuale Verziere in direzione di Lambrate. La porta mutò nuovamente nome alla fine del IV secolo, quando si aprì sulla strettoia derivata dalla costruzione dell’antemurale di Stilicone e si chiamò Tonsa, tagliata.

Milano - Porta Comasina
Di tutte e tre le cinte murarie rimangono solo poche tracce; le mura hanno subìto il medesimo destino di gran parte degli edifici storici di una città che ha avuto la peculiarità di continuare a distruggere le tracce del passato per ricostruirsi riutilizzandone i materiali.
Milano - Porta Romana in una foto dei primi del Novecento

Sempre secondo il Bonvesin de la Riva, oltre le mura e le porte principali, vi erano nove porte minori, forse dieci, comunemente dette pusterle: Pusterla di MonfortePorta Tosa, Pusterla Lodovica (già Pusterla di Sant'Eufemia), Pusterla della ChiusaPusterla dei FabbriPusterla di Sant'AmbrogioPusterla delle AzzePusterla Beatrice (già Pusterla di San Marco), Pusterla del Borgo Nuovo. Le pusterle erano piccole porte che si aprivano nelle mura della città. Infatti, secondo il Vocabolario Milanese-Italiano di Francesco Cherubini, pusterla è “una specie di seconda porta che per lo passato si usava quasi sempre tra la porta di via e il cortile delle nostre case, e invece della quale usa oggidì comunemente un cancello di ferro o di legno”.

Pusterla di Sant'Eufemia diventata poi Pusterla Lodovica

Le demolizioni o il rimaneggiamento delle mura, considerate ormai soltanto d'intralcio alla viabilità cittadina ed a disastrosi progetti urbanistici, iniziarono nella seconda metà dell’Ottocento e furono ultimate nell'immediato secondo dopoguerra.

In merito allo sciagurato e contestato abbattimento della Pusterla dei Fabbri, nelle principali biblioteche milanesi è catalogato un opuscoletto scritto da Luca Beltrami, Allegretti editore, anno 1900. Il suo contenuto narra lo sdegno dell’autore, prestigioso e autorevole architetto milanese del secolo scorso, circa la demolizione di quello che poté configurarsi come l’ultimo esemplare di varco fortificato ad un solo fòrnice. Il racconto di queste vicende, documentate da fotografie e da bei disegni, porta la seguente sarcastica lapide:

Ai consiglieri del Comune
Edoardo Banfi, Giuseppe Bardelli, Carlo Bozzi,
Alberto Castelbarco Albani, Luigi Conconi, Luigi Della Porta,
Francesco Lovati, Francesco Pugno
che soli si opposero
alla demolizione della Pusterla dei Fabbri
Il 6 marzo 1900

La Pusterla dei Fabbri era una delle porte minori poste sul tracciato medievale delle mura di Milano. Situata lungo la strada di San Simone, dal nome dell'omonimo oratorio, ora Teatro dell'Arsenale, sorgerebbe oggi al termine dell'attuale via Cesare Correnti. Nel corso della sua storia, assunse diverse denominazioni, a partire da quella di Fabia, ereditata da una precedente pusterla di epoca romana. Questa pusterla, dedicata in onore di Quinto Fabio Massimo detto il cunctator era da molti considerata già al tempo un'intitolazione ai sacerdoti Fabi, depositari del culto di Giove, che avevano il proprio tempio sulla successiva chiesa di San Vincenzo in Prato. Altri ancora, rifacendosi a un documento cartaceo del tempo, riconducevano il nome al fatto che la pusterla si sarebbe trovata ad cassinam quae dicuntur "de fabis". Un altro ancora, citato in un'iscrizione scoperta nella stessa chiesa, si rifaceva già al tempo ad un presunto vicus fabrorum. L'ultima attestazione della Pusterla dei Fabi si ebbe nel 1221 con denominazioni come Pusterla delle Fave o dei Favreghi. Solo successivamente avrebbe assunto la denominazione di Pusterla dei Fabbri, che avrebbe mantenuto fino alla sua demolizione, avvenuta, come detto, nel 1900. Quest'ultima si riferiva comunque a un tessuto sociale ben consolidato nel corso dei secoli nella zona, che si era via via popolata delle botteghe di molti fabbri ferrai, confinati lontano dall'abitato ai margini della città per la loro particolare rumorosa attività, che necessitava inoltre dell'acqua del Naviglio.
 
Pusterla dei Fabbri


La Pusterla dei Fabbri venne eretta nel corso del Trecento, in concomitanza con la realizzazione delle mura medievali. L'edificio si sviluppava su una sola arcata, sovrastata da una torre quadrangolare con la presenza di due varchi verso città e verso campagna. Senza particolari pregi la porta interna, di una certa imponenza e raffinatezza l’arco rivolto verso l’esterno.
 
Pusterla dei Fabbri
 Con la demolizione di un tratto di mura medievali adiacente, la Pusterla dei Fabbri rimasta intatta venne affiancata da diverse nuove abitazioni ricavate da edifici sorti a ridosso del Naviglio, che finirono per sovrastare la pusterla. Nel 1877 il Comune di Milano avanzò la proposta di un'eventuale demolizione della Pusterla dei Fabbri, nominò due apposite commissioni che analizzarono diversi rapporti e pareri. La sostanziale parità, tuttavia, fra i pareri negativi e favorevoli alla demolizione portò a una sostanziale immobilità della questione, che si protrasse per decenni. L’arch. Luca Beltrami non ci sta: nel mese di marzo del 1888 presenta un esposto alla Giunta di Milano, nel quale si sottolinea il valore storico-artistico del manufatto altomedievale, dimostrando che la costruzione antica non intralcia il nuovo tessuto viario in fase di progettazione e fa voto affinché l’arco venga mantenuto in loco “una volta liberato dalle costruzioni che lo han quasi soffocato”. Anche la Società Storica Lombarda spinse energicamente per la conservazione della vecchia pusterla, ritenendolo l'ultimo esempio delle nove o dieci pusterle che, nelle mura della Città, si interponevano alle sei porte maggiori. Un quotidiano cittadino arrivò a ironizzare sul guadagno in caso di demolizione, che ammontava a 10.000 lire, sostenendo, a quel punto, che conveniva proporre qualche pezzo del Duomo ai Musei della città di Londra, notoriamente interessati all'acquisto di simili antichità, e sempre pronti a generosi pagamenti.

Tuttavia a nulla valsero queste prese di posizione, anche autorevoli. Con furbi stratagemmi e pretestuose giustificazioni, del tipo “esigenze della nuova viabilità” e “attuali condizioni inopportune per la pubblica sicurezza e pulizia della località”, la commissione comunale si orientò verso la demolizione.

Siamo ormai alla vigilia elettorale per il rinnovo del Consiglio. La Giunta pone all’ordine del giorno d’una delle sue ultime sedute la proposta di demolizione della pusterla. Ma la votazione in Consiglio dà però esito a sorpresa, e la proposta di demolizione viene respinta. Le elezioni parziali del giugno 1899 portano in Comune il commissario, mentre quelle di dicembre vedono la vittoria di radicali, socialisti e repubblicani. Viene eletto sindaco Giuseppe Mussi. Gli aventi interesse alla costruzione speculativa sull’area della pusterla sono nel frattempo tornati alla carica con una petizione di comodo “coperta da numerose firme di abitanti del quartiere di Porta Genova” che chiedono “un giardino o una piazza, dando miglior vita e aspetto al posto”. La nuova Giunta, confortata da un’offerta di 10mila lire, rimette in votazione la pratica. Tutti votano per la demolizione della Pusterla dei Fabbri, salvo gli otto cui è dedicato l’opuscolo del Beltrami.

Gli interventi di demolizione della Pusterla dei Fabbri nel corso del 1900
 
La pusterla viene pertanto demolita nei mesi subito successivi, e il salvabile viene preservato e donato ai musei del Castello Sforzesco. Anticamente, sopra l'arco della Pusterla dei Fabbri, fra le inspiegabili lettere HAS a sinistra e TA a destra, era collocato il busto di un giovane, dalla testa turrita. Questa scultura, che si diceva romana, si riteneva comunemente che rappresentasse Imeneo, divinità greca protettrice delle nozze pagane. La tradizione del tempo voleva che gli sposi vi si recassero in corteo a rendergli omaggio, distribuendo dolci, mentre i bambini gridavano "Cica, Cica, Laminè! Laminè!", ossia, "a Porta Cicca, all’Imeneo"). Fu Carlo Borromeo a proibire questo rito pagano, che scomparve del tutto con la rimozione stessa del busto, verso la fine del XVII secolo.

In seguito alla demolizione della pusterla, la testa turrita di Imeneo, insieme alle lettere HAS e TA, finì alla Pinacoteca Ambrosiana. 
 
Beniamino Colnaghi

Nota: Le fotografie pubblicate sono nel pubblico domino in Italia e il termine di copyright è scaduto.