giovedì 22 agosto 2013

Febbraio 1902, appello a favore dei contadini

Nei decenni a cavallo fra l’Ottocento ed il Novecento le condizioni di vita dei contadini italiani erano misere e infelici. Verso il 1890 si accentuò la depressione agricola che ridusse molti proletari della terra alla fame, i quali videro peggiorare ulteriormente la loro già precaria esistenza. Da parte dei contadini e delle organizzazioni che cercavano di tutelarli vennero intraprese azioni di protesta, che sfociarono anche in atti di forza e violenza. In alcune parti del nostro Paese i contadini occuparono la terra dei grandi proprietari terrieri e ne tentarono la socializzazione. Il malcontento nelle campagne andò di pari passo con il progresso del socialismo fra i lavoratori delle città. A Milano, nel maggio 1898, a seguito dell'aumento del costo della farina e del pane, gravati dall'esosa tassa sul macinato, la popolazione affamata insorse e assaltò i forni. L'insurrezione durò vari giorni e fu repressa nel sangue. Moti con le conseguenti repressioni avvennero anche a Monza e proteste si svilupparono in alcune località della Brianza.
A seguito di questi fatti, e per cercare di dare una risposta alle tensioni ed ai disagi crescenti dei contadini, il giornale lecchese Il Resegone, il primo numero del quale uscì nel febbraio 1882, pubblicò un appello dell’Ufficio centrale cattolico del lavoro rivolto ai proprietari dei fondi terrieri, apparso sull’edizione del 21 e 22 febbraio 1902. Di seguito si propone il testo pubblicato, interessante e utile al fine di comprendere la realtà contadina di quel tempo.
(b.c.)
 
 

 
Per i nostri contadini
Un appello ai proprietari

L’Ufficio centrale cattolico del lavoro ha indirizzato testé al Consiglio direttivo dell’Associazione fra i proprietari e conduttori di fondi in Milano la seguente lettera, su cui richiamiamo l’attenzione dei lettori:
Lo scrivente Ufficio centrale del lavoro, al quale fanno capo circa 30mila contadini della provincia organizzati in un centinaio di leghe, ha salutato con soddisfazione e speranza il costruirsi di codesta Associazione di proprietari di fondi. Sorte non per una sistematica lotta di classe, ma per l’elevazione morale ed economica del proletariato rurale nell’ordine e nella giustizia, le associazioni cattoliche dei contadini non possono non vedere lietamente il sorgere quasi contemporaneo d’una organizzazione padronale, preludio a quell’assetto armonico della vita sociale che il programma cattolico propone e propugna sulla base delle unioni professionali.
Dalla esistenza parallela dei due organismi, rappresentanti in forma collettiva i due gruppi diversi d’interesse economici, esse attendono di veder agevolate e migliorate le relazioni fra le due classi dei proprietari e dei coloni, sia perché da ambo le parti il vincolo associativo può esserne valido freno ad abusi ed eccessi individuali come insieme vigoroso impulso al progresso materiale e civile di tutta la classe, sia perché più facile e proficuo può riuscire il dirimere transitori ma pur sempre dolorosi e pericolosi contrasti d’interessi e diritti mediante le trattative. Gli accordi ed i giudizi di commissioni miste aventi, per concorde volere delle due organizzazioni, funzione ed autorità di loro rappresentanza collettiva permanente. Così anche il contratto di lavoro, cercando di essere disforme e disordinata pattuizione individua di obblighi e di profitti, assorge alla importanza di contratto sociale, uniforme e ordinato, con tutto il presidio morale della influenza dei corpi di cui emana e con tutto il presidio giuridico della consuetudine che per la sua accettazione pressoché universale viene ad assumere.
 
Il momento

Per queste considerazioni, lo scrivente Ufficio crede dover suo prendere tosto l’iniziativa per sollecitare la formazione di questa commissione mista, invitando codesta Associazione ad accogliere con favore l’idea e a concorrere alla sua attuazione colla nomina dei propri delegati in base a modalità da stabilirsi. Le condizioni del momento richiedono questo provvedimento nell’interesse della giustizia e della concordia civile. Strascichi penosi delle ultime agitazioni agrarie, derivanti qua e là da conflitti insoluti o da promesse non mantenute, da convenzioni infrante, da dinieghi dei crediti colonici, da escomii ingiustificati, da tentate imposizioni di contratti nuovi economicamente e giuridicamente onerosi, danno tristemente a temere che nuovi conflitti insidiosi abbiano a scoppiare nella prossima primavera a danno dell’ordine economico e dell’armonia sociale. In questo frangente è dover nostro di cattolici e cittadini tentar ogni mezzo per prevenire il pericolo aprendo subito la via a trattative amichevoli e definizioni ragionevoli ed eque, cui la commissione mista da noi proposta può prontamente por mano.
E, per affrettare il lavoro, fin d’ora lo scrivente Ufficio richiama all’attenzione di codesto consiglio due fra i punti del contratto nuovo presentato da molti proprietari, che i contadini non possono firmare.

Lo sfratto immediato

Il primo è la clausola per cui la mancanza eventuale d’un contadino ad un patto secondario, ad una norma di conduzione anche d’importanza minima, dà luogo allo sfratto immediato del colono ad libitum del proprietario. Ora questo è irragionevolmente eccessivo. Mentre infatti da una parte manca del tutto al contadino una garanzia pratica sufficiente contro l’eventuale inadempienza del padrone, data la gravissima difficoltà di poter provvedere al dispendio di un’azione giudiziaria e il timore di una facile disdetta di rappresaglia, il padrone d’altra parte è più che largamente tutelato nei suoi diritti dall’art 1652 cod. civ. per il quale può domandare fuori tempo lo scioglimento della colonia, quando vi siano giusti motivi, quale la mancanza del colono ai suoi impegni. Ma poiché il legislatore ha nello stesso articolo 1652 rimesso l’apprezzamento di tali motivi alla prudenza ed equità del magistrato, si cerca colla clausola di rescindibilità ipso facto e ipso iure del padrone di impedire questa valutazione prudente ed equitativa voluta dalla legge, cosicché possa l’arbitrio del padrone colpire per inadempienze anche irrisorie il colono e la sua famiglia col cacciarli dal fondo e dall’abitazione, ossia ridurli senza pane e senza letto, in epoche in cui non possono provvedersi né altra terra da lavorare né altra casa in cui alloggiare. Misura questa ben peggiore anche di una condanna penale, perché significa la miseria e la morte economica di tutta una povera famiglia di lavoratori. E’ evidente che il colono non può segnare un patto simile colla propria sottoscrizione, ed è ingiusto ed inumano pretenderne l’accettazione colla minaccia della licenza.

La disdetta in estate

L’altro patto a cui i coloni non possono accedere è quello della disdetta in estate, anziché nel termine del marzo, portato da antichissima consuetudine e dall’art. 1664 del cod. civ. Simile innovazione, congiunta alla facilità con cui si tende oggi a ricorrere alla disdetta, verrebbe a snaturare completamente la colonia togliendole quella forza di continuità che fu sin qui la sua caratteristica più feconda. Inoltre porterebbe a danni ben gravi per i contadini, per gli stesi proprietari, per la produzione nazionale. Per i contadini, in quanto da coloni permanenti sul suolo verrebbero trasformati in precari affittaioli ad anno, removibili dal fondo sino a poche settimane prima del San Martino, minacciati in ogni loro atto, nella stessa libertà di esercizio dei loro diritti civili e politici, dalla inoppugnabile vendetta del licenziamento, simili in tutto a quei miseri tenants at will (affittaioli ad arbitrio) dell’Irlanda per cui Gladstone ha speso le sue generose energie di uomo politico. Per i proprietari, in quanto il pericolo di un prossimo distacco dal fondo distoglie naturalmente il colono da una feconda applicazione di capitale e di lavoro la cui produttività, non da lui ma da altri, verrebbe posteriormente lucrata, e lo induce a sua volta ad uno sfruttamento irrazionale e consuntivo della proprietà. Per la produzione nazionale, infine, in quanto questo regresso delle colture arresta e deprime ogni sviluppo dell’economia rurale, ricacciando l’Italia all’indietro sull’auspicata via del suo risorgimento agrario. A questa jattura urge che tutti ci opponiamo viribus unitis (con forze unite) all’interesse comune.
La commissione mista che quest’Ufficio propone ed invoca, potrà rendere all’uopo segnalati servizi, reclamando insieme dallo stato utili riforme di legge per un miglior assetto dei contratti agrari e della correlativa giurisdizione giudiziaria nel diritto costituito.

Ci ripromettiamo quindi che al nostro invito cordiale corrisponda da codesto on. Consiglio un’altrettanto cordiale adesione; all’importanza del momento e dei problemi che ci si affacciano innanzi, sia pari in tutti l’amore della buona convivenza civile e la coscienza del proprio dovere.

Colla massima considerazione

Milano, 10 febbraio 1902

Per l’Ufficio centrale del lavoro:
Sac. Carlo Dalmazio Minoretti, Ludovico Necchi, Aristide Tagliabue, sac. Carlo Grugni,
rag. Giuseppe Scevola.