mercoledì 24 maggio 2023

 A 60 anni dalla morte di Giovanni XXIII

San Giovanni XXIII, nato Angelo Giuseppe Roncalli (Sotto il Monte, Bergamo, 25 novembre 1881 - Città del Vaticano, 3 giugno 1963) è stato il 261° vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica.

Rimangono memorabili tanti suoi piccoli gesti che hanno rivoluzionato lo stile papale, le sue illuminate encicliche, tra le quali la più conosciuta Pacem in Terris, ma epocale è stata la convocazione del Concilio Vaticano II, che aprì le porte ad un nuovo cammino di rinnovamento e speranza.
Giovanni XXIII morì il 3 giugno 1963. Sono trascorsi 60 anni da quel giorno e, per ricordare l’evento, ho ripercorso tre luoghi fondamentali della sua crescita umana e religiosa, ai quali, il giovane Angelo prima, e l’amato papa poi, era molto affezionato: la piccola corte di Sotto il Monte, ove nacque, l’abbazia di S. Egidio, appena sopra il paese, e il santuario della Madonna del Bosco, a Imbersago, terra lecchese, che raggiungeva attraversando il fiume Adda con il traghetto “leonardesco”.

Le sette foto che seguono indicano il cortile, gli alloggi al primo piano, tra i quali la camera ove nacque il piccolo Angelo e la cantina







L'abbazia di Sant'Egidio in Fontanella del Monte


Il santuario della Madonna del Bosco a Imbersago. La foto al centro rappresenta la gigantesca statua di san Giovanni XXIII




Beniamino Colnaghi

venerdì 19 maggio 2023

Le donne di Verderio, protagoniste del Novecento

Giulio Oggioni, lo storico per eccellenza di Verderio, ha pubblicato recentemente un nuovo libro dal titolo "VERDERIO - Le nostre DONNE protagoniste del NOVECENTO - Oltre 100 racconti di insegnanti, contadine, casalinghe, religiose, commercianti, imprenditrici e nobili


Il libro è stato presentato al pubblico venerdì 28 aprile alle ore 21.00 presso la villa Gallavresi a Verderio ed è in vendita in tutti i negozi del paese al prezzo di 10 Euro.


lunedì 1 maggio 2023

Il paesaggio e le sue manipolazioni

di Domenico Palezzato *

Paesaggio. Questo termine è ormai entrato nel parlare comune. Continuamente invocato dai media di qualsiasi livello ed entrato nelle priorità (verbali?) di tutti gli amministratori in campagna elettorale sembra proprio che sia diventato una necessità dei nostri tempi. E come tale viene messa in discussione con attori di tutte le estrazioni ed opinioni. E ognuno racconta la propria posizione.

In questa situazione, però, può essere opportuno spendere delle parole per tentare di dire cos’è il paesaggio, o meglio cosa intendiamo con tale termine. Quasi sempre per paesaggio si intende un “bel paesaggio”. Ma il “bel” paesaggio diventa inevitabilmente soggettivo.

Tutte le organizzazioni di ogni tipo ed estrazione che si occupano del tema hanno dato, con sfumature e contenuti culturali differenti, una definizione di paesaggio.

Ma definire significa individuare, distinguere ciò che è da ciò che non è. Qui sta il punto. In una recente lezione libera, tenuta alla facoltà di architettura dell’Università di Pavia, ho chiesto agli studenti di non chiedersi cos’è paesaggio, ma di provare a chiedersi che cosa “non è” paesaggio. Aggiungendo che, se si fossero dati una risposta, c’era qualcosa da rivedere. Quindi possiamo provare a non parlare di paesaggio ma di luoghi.

Ognuno di noi ha i suoi luoghi. Quelli che riconosce e dove si riconosce. Rimini o il deserto è lo stesso. Possiamo allora dire che ognuno di noi da alcuni luoghi riceve delle sensazioni positive che possiamo chiamare emozioni vitali, mentre da altri riceve delle sensazioni accettazione dovuta, quasi di sudditanza o sopraffazione. Forse qui sta la differenza e la ragione per cui certi luoghi vengono mutati da chi li vive abitualmente, secondo un proprio criterio d’uso razionale, mentre gli stessi luoghi dovrebbero, nel pensiero emozionale di altri, essere conservati immutati affinché durante le loro presenze saltuarie continuino a trasmettere quelle sensazioni vitali di cui sono dotati.

Le caratteristiche dei luoghi, quindi, non sono solo oggettive ma anche, ed in modo significativo, soggettive.

Vi sono luoghi, che per la loro unicità o comunque rarità provocano emozioni vitali alle intere comunità sia stanziali che saltuarie e quindi vengono riconosciuti e tutelati come templi della terra, senza interpretazioni bilaterali di sorta. Ma sono casi sporadici e privilegiati. Vengono dichiarati dal mondo “paesaggi da conservare e trasmettere”. Questo è l’indirizzo attuale della tutela. Ma fra due pensieri contrapposti quello troppo spesso emergente è: “bisogna necessariamente conservare il paesaggio di proprietà altrui” mentre “io posso, anzi devo, utilizzare la terra secondo i miei bisogni”.

Se nel paesaggio del nostro lago sono state inserite molte costruzioni (troppe?) significa che tanta gente apprezza e vuole godere del lago stesso. Gente che considera la propria costruzione non significativa nell’ambito della perturbazione generale del paesaggio, per il quale è comunque doveroso che “gli altri” si pongano il problema della salvaguardia affinché la gente che oggi lo “usa” non venga disturbata da nuovi “intrusi”.

Ci sono però in assoluto delle matrici che è necessario ricordare e tutelare oltre ogni singolo pensiero. Queste matrici sono la tipicità e la riconoscibilità dei luoghi stessi.

Le singole matrici sono ovviamente complesse e contengono molti fattori unitari. La tipicità può essere l’insieme di varie azioni esercitate in quel luogo e solo in quel luogo restituiscono le loro origini, il loro dialogo con la terra e lo scambio di valori vitali fra il luogo stesso e le persone (Rimini con la gente e Rimini senza la gente sono due luoghi diversi).

La riconoscibilità è forse la funzione più importante.



Il lago di Pusiano

Uno dei maggiori disagi dell’uomo è quello di non riconoscere il luogo che lo accoglie. La nebbia fitta o la bufera di neve provocano la perdita di cognizione e di attualità di quel momento.

Alla scala quotidiana ed in alcuni luoghi questa distonia tra luoghi e persone si è inserita gradualmente esercitando a volte una specie di subdola assuefazione dalla quale si fugge inconsapevolmente con l’esercizio delle “vacanze” in un altro luogo ma, sempre, alla ricerca di un altro paesaggio. Poi si torna a casa, alla normalità, alla conformità. E’ proprio sulla conformità, che contiene le matrici originarie sopra dette, che si innesta la manipolazione.

Usato ormai quasi esclusivamente nella sua accezione negativa, il termine manipolazione ha significato di distorsione della realtà, di forzatura della naturalità delle cose, di un loro uso inadeguato. E, credo, tutti siamo d’accordo sul fatto che il paesaggio sia stato manipolato.

Nella sua accezione positiva è contenuta tutta la storia e la tipicità di un luogo quale trasformazione razionale ed assoggettamento del luogo alle esigenze vitali dell’uomo con dialogo e rispetto reciproco nella consapevolezza della necessità reciproca di sopravvivenza.

Vi è però l’accezione antica e originale del termine manipolazione che rappresenta il gesto più nobile dell’uomo. Nella civiltà romana la manipolazione significava la liberazione dello schiavo. Non fingendo di ignorare che comunque il territorio sarà sempre oggetto di “manipolazioni” sarebbe buona regola se queste fossero improntate verso l’antica accezione del termine, anche quale forma di riscatto verso il debito che abbiamo accumulato nei confronti della nostra terra.

Con una operazione culturale puntuale si potrebbe raggiungere un diverso risultato da quello che possiamo vedere sulla strada della gestione attuale del paesaggio. Operazione non difficile e cronologicamente opportuna che implica una grande diffusione dei concetti della tutela.

Essendo ognuno di noi parte del luogo che viviamo, sia stanzialmente che temporaneamente, e che il rapporto fra noi e quello che ci contiene (dal grande spazio fino alla nostra singola camera) è elemento determinante e continuo della nostra vita, è chiaro che la qualità del nostro “paesaggio” diventa direttamente proporzionale alla qualità del nostro benessere.

Collegamento  al quale non siamo abituati a pensare e soprattutto a metterlo quale elemento forte nelle nostre scelte di vita.

L’obiettivo quindi è pensare al paesaggio quale mezzo di interazione naturale tra la persona e ciò che essa si costruisce intorno, sia quale risposta alle proprie domande, sia quale messaggio verso il resto della comunità che legge noi e se stessa nello stesso modo in cui noi leggiamo noi stessi e gli altri.

Possiamo provare.

 

Domenico Palezzato è architetto, presidente della sezione Italia Nostra di Lecco.