venerdì 18 marzo 2016

Quei quattordici mesi che cambiarono il destino di Verderio Superiore

Prima parte
"Ma, quando io avrò durata l'eroica fatica
di trascriver questa storia da questo dilavato
e graffiato autografo, e l'avrò data,
come si suol dire, alla luce, si troverà poi
chi duri la fatica di leggerla?"...
Alessandro Manzoni

 
Nove aprile 1950, Pasqua. Quel giorno, verso le prime ore dell’alba, quasi tutti i coscritti della classe 1930 e una manciata di residenti di Verderio Superiore vennero arrestati e condotti in prigione. Furono portati a Pescarenico, un gruppetto di case, tra le quali il carcere, adagiate sulla riva sinistra del fiume Adda. Gli arresti causarono clamore e tensione nella popolazione, la quale non riuscì a spiegarsi il motivo per cui un “contatto” tra un giovane carabiniere e un iscritto alla leva, accompagnato dalla successiva protesta di alcuni suoi amici, poté scatenare una risposta così forte da parte delle forze dell’ordine. Il panico e la paura presero il sopravvento. Il paese rimase sgomento di fronte a tanto accanimento contro alcuni dei suoi figli.
Il periodo che intercorse tra il 9 aprile 1950 e il 27 maggio 1951 segnò uno spartiacque che cambiò radicalmente le sorti politiche di Verderio Superiore. In quei quattordici mesi, in un piccolo borgo contadino e operaio brianzolo, che contava poco più di mille abitanti, attraversato, a soli cinque anni dalla fine di una terribile guerra, da una situazione economica e sociale carica di difficoltà e incertezze, avvennero alcuni fatti significativi che generarono paura ed introdussero un clima di “caccia alle streghe”.   

 
Alcuni momenti della nostra storia sono destinati a non passare mai ed a riaffiorare periodicamente, come ferite mai rimarginate. I fatti drammatici degli iscritti alla leva nati nel 1930, che a causa del loro peso si è tentato di rimuovere dalla memoria collettiva, sono stati spesso banalmente e frettolosamente derubricati come normali fatti di cronaca, narrazione di comportamenti al limite della rissa da parte di alcuni giovani, per raccontare i quali normalmente si fa portavoce il diritto di cronaca. Una consapevole e voluta amnesia ha evitato di investigare la complessità degli avvenimenti, evitando il travaglio dei laceranti ricordi. E’ venuto però spontaneo chiedersi se fosse lecito scoperchiare la pentola da fatti così drammatici quando molti fra coloro che li hanno vissuti personalmente hanno voluto rimuoverli ovvero non sono più tra noi. Una delle coscienze critiche del Novecento come Mario Rigoni Stern riteneva che quel velo andasse risollevato sino in fondo. “Cosa sarebbe la storia senza la memoria?”, si era chiesto poco prima di morire, con una domanda che non prevedeva risposta.

Per comprendere la reale drammaticità dei fatti e la vera portata storica e politica è necessario svolgere alcuni approfondimenti e puntuali considerazioni di carattere generale, nonché introdurre elementi che possano contribuire a comprendere meglio gli eventi in parola, che necessitano di essere contestualizzati e inseriti con oggettività dentro quel periodo storico. L’approccio metodologico utilizzato verte sull’accettazione del principio per il quale la conoscenza dell’ambiente in cui un determinato costrutto si forma è fondamentale. Non è infatti possibile comprendere in modo pieno il significato di certi avvenimenti se non si conosce il contesto socioeconomico entro il quale essi hanno avuto origine e preso forma. Malgrado, tuttavia, la ricerca e la buona volontà, fatti di grande importanza sono spesso di difficile accertamento, soprattutto a seguito della scomparsa dei testimoni diretti, conosciuti solo parzialmente o attraverso la tradizione orale, considerato che i documenti mancano o sono inaccessibili. 
Per la stesura dell’articolo, quindi, ho ripreso appunti e note del mio archivio personale, raccolti negli anni grazie a testimonianze di cittadini verderiesi e, al fine di avvalorare e confermare quelle informazioni, nei mesi scorsi ho ritenuto necessario risentire alcune persone del luogo che vissero il clima di quei mesi, le quali mi hanno fornito ulteriori e preziosi dettagli. Per poter avere altri elementi utili al lavoro, sono stati esaminati anche i testi di storia locale, editi negli ultimi anni, in particolare: Verderio, la storia attraverso le immagini e i personaggi, a cura della Biblioteca di Verderio, Quand sérum bagaj, di Giulio Oggioni e il libro La chiesa parrocchiale dei santi Giuseppe e Floriano, uscito in occasione del centenario della costruzione della chiesa di Verderio ex Superiore. Ho svolto ulteriori ricerche presso l’archivio storico del Comune di Verderio e del giornale Il Resegone di Lecco.

Una tipica famiglia brianzola in una foto degli anni Venti del Novecento

In questo lembo di terra lombarda, per alcuni secoli dominato da potenti e ricche famiglie borghesi e aristocratiche, proprietarie di ingenti patrimoni, la legge fu, come scrisse Gaetano Salvemini, "la voce del padrone". I contadini non avevano né titolo né forza per esercitare i loro sacrosanti diritti. Più semplicemente, non avevano diritti. L’affresco della loro vita era desolante: lavoravano duro, in alcuni periodi dell’anno fino a dodici-quattordici ore al giorno, vivevano in luoghi e abitazioni privi delle minime condizioni igienico-sanitarie e la maggior parte di essi era semianalfabeta. Questa situazione si protrasse fin oltre la conclusione della seconda guerra mondiale. Nei primissimi anni Cinquanta le condizioni di vita della gente brianzola registrarono un discreto miglioramento. Tuttavia, la nascente classe operaia ed i nuovi ceti popolari, seppur maggiormente scolarizzati ed in possesso di una nuova coscienza di classe, ebbero grosse lacune e difficoltà a comprendere appieno i meccanismi che generavano le dinamiche sociali, perché privi sostanzialmente di strumenti adeguati. Mancarono, fin oltre gli anni Cinquanta, strumenti di analisi e conoscenze che permettessero di comprendere le evoluzioni in corso. Senza le opportune valutazioni e privi degli approfondimenti sulla realtà, non si comprese fin da subito, almeno secondo le testimonianze raccolte, ciò che stava covando sotto la cenere a Verderio Superiore. Probabilmente, il sommovimento che stava avvenendo, oltre a sovrastare le esigue forze locali, non fu interpretato per ciò che effettivamente valse e fu letto con occhiali appartenuti ad un periodo storico in via d’esaurimento. Può essere concessa, in buona sostanza, una strutturale debolezza e impreparazione delle forze che vissero quella stagione politica e possono essere messi nel conto limiti e sottovalutazioni ma, a parziale discolpa di quegli uomini ed a prescindere dalla loro eventuale impreparazione, il punto vero di rottura fu prodotto dal fortissimo, e a volte drammatico, scontro ideologico che avvenne negli anni a cavallo tra i Quaranta e i Cinquanta. Entrarono pesantemente in gioco altri due fattori, tipicamente locali: il primo fu dovuto al fatto che nella “bianca” e cattolicissima Brianza non poté essere consentita la presenza di una realtà locale, di piccole dimensioni ma che avrebbe potuto diventare contagiosa, governata da un’amministrazione socialcomunista, che si ispirava alle idee marxiste; il secondo motivo riguardò intromissioni arbitrarie e ingerenze fortissime operate da forze interne ed esterne al paese.  

Carta topografica della Brianza del 1851 (cliccare sulle foto per ingrandirle)
 
Nel periodo da cui sono partito, ossia dagli ultimi decenni dell’Ottocento, l’Italia era un paese prevalentemente agricolo, di conseguenza l'associazionismo operaio e il municipalismo popolare si svilupparono tardi, rispetto ad altri Paesi europei. Ciò avvenne soprattutto e quasi esclusivamente nelle aree industrializzate. In Brianza, ad esempio, per i motivi sinteticamente sopraespressi, si crearono tardi le condizioni per sviluppare progetti che coniugassero, come avvenne invece in Emilia-Romagna, la difesa della tradizione civica comunitaria con il governo delle trasformazioni economiche, mediante il sostegno al mondo del lavoro (cooperative, leghe e camere sindacali) e lo sviluppo dei servizi municipalizzati, con il controllo ed il calmieramento dei prezzi. Nel 1915, di fronte alla situazione dolorosa creata dal rincaro della vita, alcuni comuni emiliano-romagnoli effettuarono direttamente la vendita alle classi bisognose di grani, farina ed altri generi di prima necessità a prezzi inferiori a quelli correnti e favorirono ogni iniziativa diretta ad aprire spacci pubblici e ad accaparrare acquisti all’ingrosso di generi alimentari.
Le cronache del tempo parlano di diversi casi di morte per fame, denutrizione e freddo per non parlare poi delle varie malattie che affliggevano l’intero Paese. Soltanto nel 1870 sorsero le prime leghe con fini sindacali e negli ultimi anni dell'Ottocento si estesero le società di mutuo soccorso. Ben presto, accanto alle leghe dei lavoratori dell'industria, che nacquero a seguito del grande sviluppo industriale, si svilupparono anche quelle dei contadini e dei braccianti e, tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX, furono istituite anche le Camere del lavoro che, insieme alle federazioni sindacali, divennero uno strumento di difesa dallo sfruttamento e dalla disoccupazione dilagante nel Nord d’Italia, nel periodo della depressione economica di fine secolo. Nel Settentrione gli industriali, gli agrari e le classi più reazionarie cominciarono a chiedere lo scioglimento delle Camere del lavoro e la limitazione del diritto di libera associazione. Il socialismo era già qualcosa che incuteva timore e che doveva venir soffocato al più presto.     
Negli anni attorno al 1890 cominciò la depressione agricola che ridusse molti contadini alla fame, i quali, a volte, reagirono usando la forza e la violenza. Vi furono notizie di municipi e uffici del dazio dati alle fiamme e di contadini che occuparono la terra dei grandi proprietari terrieri. Il malcontento e il rafforzamento dell’estrema sinistra parlamentare andava di pari passo con il progresso del socialismo marxista fra i lavoratori delle città. Nel 1891 ci si mise pure la Chiesa che, con l’enciclica Rerum Novarum di papa Leone XIII, criticò sì il socialismo, ma non di meno formulò il principio che la proprietà doveva venir equamente distribuita, che era necessario avere riguardo speciale ai deboli e ai poveri e che le associazioni operaie non erano necessariamente un male.
Il disastro della battaglia di Adua del 1896 aggravò la crisi economica, favorendo quel tipo di evoluzione sociale che affossò l’aristocrazia del Risorgimento e affermò una classe dirigente nuova. Ma a pagare i prezzi più alti fu sempre la povera gente. Un operaio doveva lavorare mediamente tre ore per comprarsi un chilo di pane. A Milano, nel maggio 1898, a seguito dell'aumento del costo della farina e del pane, gravati dall'esosa tassa sul macinato, la popolazione affamata insorse e assaltò i forni. Quando le staffette comunicarono al generale Bava Beccaris che i milanesi avevano costruito diverse barricate su alcune vie strategiche della città, che bande di diseredati armati scendevano dalla Svizzera verso Milano e che contadini muniti di forche e bastoni stavano giungendo in processione dalla Brianza, non ebbe esitazioni: “Quando il vecchio soldato comanda, colpite”. L’ordine fu di sparare a vista. L'insurrezione durò vari giorni e fu repressa nel sangue. Nella feroce repressione militare vi furono oltre 100 morti e 450 feriti. Tra le vittime, su cui si sparò con la mitraglia ed i cannoni, vi furono anche dei poveri intenti a ricevere una ciotola di minestra nel convento dei Cappuccini. Nessuno sospetta, scrisse in un romanzo su quella Milano Carlo Castellaneta, che un tessitore anarchico di nome Gaetano Bresci si stia preparando, in segreto, a vendicare quei morti.

L'esercito staziona in Piazza del Duomo a Milano (1898)
 
Moti con le conseguenti repressioni vi furono anche in Brianza. Vi fu una caccia a persone in condizioni di vita miserevoli, innocue ma definite, in senso dispregiativo, briganti. A Monza i morti furono sette e diciotto i feriti. La folla manifestò nelle strade e nelle piazze per chiedere di sospendere la partenza dei richiamati alle armi (partire significava perdere il posto di lavoro, togliere entrate al già magro bilancio familiare), per rivendicare libertà sindacali e politiche, per la riduzione del prezzo della farina e del pane. A Milano vennero arrestati molti lavoratori e dirigenti socialisti e democratici; a Monza finirono in carcere i massimi rappresentanti della Camera del Lavoro e del movimento socialista e altri venticinque cittadini, in gran parte operai.
Gli anni che vanno dal marzo 1896 al dicembre 1900 furono tra i più tumultuosi e drammatici di tutta la storia dell'Italia unitaria. La politica italiana, con Giolitti, seppur con molte ambiguità e contraddizioni, invertì rotta e si aprì a riforme più democratiche e liberali. L’obiettivo principale della politica giolittiana fu quello di conciliare la borghesia liberale con l’ideologia socialista, che produsse la prima vera ed organica legislazione del lavoro, la quale estese maggiori tutele delle donne e dei fanciulli in fabbrica, ricostruì le organizzazioni operaie e contadine, diede più garanzie ai lavoratori per la vecchiaia. Questa situazione di relativo miglioramento delle condizioni sociali ed economiche durò pochi anni, essenzialmente per due motivi: primo perché il debole e corrotto stato liberale andò in crisi e poi perché gli stati europei iniziarono a preparare il terreno e le condizioni che li avrebbero condotti dentro una terribile guerra, che durò quattro anni e in Italia fece diverse centinaia di migliaia di morti, generando distruzione, miseria e nuove sommosse popolari.
Un evento fondamentale che mutò il corso della storia nel Novecento e condizionò gli eventi politici in Europa e in molte parti del mondo fu dato dallo svolgersi, nel 1917 in Russia, della cosiddetta Rivoluzione d’Ottobre, guidata da Lenin contro l’impero zarista. Una delle conseguenze generate dallo sviluppo del comunismo in Unione Sovietica fu la nascita, su scala mondiale, di numerosi partiti di matrice marxista e rivoluzionaria, tra i quali, in Italia, il Partito Comunista d'Italia, nato a Livorno il 21 gennaio 1921. Come “contraltare” all’espandersi delle idee rivoluzionarie, nacquero movimenti e forze, promosse e finanziate dalla borghesia conservatrice e da una parte della classe industriale e agraria che tendevano a contrapporsi al “pericolo rosso”. Fu così che in Italia, a partire dal 1922, cominciò a prendere piede il fascismo.

Negli anni a cavallo fra l’Ottocento ed i primi decenni del Novecento, il movimento patriottico, che creò il Risorgimento, lasciò lentamente il passo, soprattutto dopo il 1919, ad un imperialismo totalitario ed al formarsi dei germi che condussero alla ventennale dittatura fascista. Dentro quel periodo, nell’aprile 1924 si tennero le prime elezioni nell’era fascista. A tale riguardo è utile ricordare che il “Listone”, un'alleanza politica di destra ideata e presieduta da Mussolini, nella quale confluirono alcuni liberali e scaglioni di opportunisti, tra cui arrivisti del campo socialista e popolare, si presentò alle elezioni di quell’anno. Su scala nazionale, il “Listone” e una seconda lista fascista raggiunsero complessivamente il 65% dei voti, mentre nessuno degli altri partiti, frammentati in sette liste diverse, superò il 10%.
Per capire fino in fondo quali fossero le peculiarità e le tradizioni storiche delle genti brianzole, è fondamentale annotare che qui in Brianza il fascismo non riuscì a sfondare ed ottenere risultati significativi, anzi subì una pesante sconfitta, perché ottenne solo il 18,7% dei voti. La connotazione antifascista del voto in Brianza fu talmente evidente da scatenare la violenta reazione del regime, tesa a colpire il radicato associazionismo cattolico e socialista, che caratterizzava il tessuto sociale di questo territorio. Le elezioni del 1924 segnarono dunque, anche e soprattutto in Brianza, la fine della legalità e l’inizio della dittatura. I fascisti cominciarono a mettere gli occhi su questa terra, generando terrore e operando ritorsioni che colpirono molti antifascisti e circoli, sia cattolico-popolari sia socialisti e comunisti. La repressione, che sconfinò nell'uccisione e persino nella deportazione nei lager nazisti di molti brianzoli, si protrasse per tutto il ventennio, fino ai giorni della Liberazione.  

 Volantino scritto e distribuito dai fascisti di Monza (1924)

Liberata l'Italia, nel secondo dopoguerra, esattamente nel gennaio 1948, entrò in vigore la nuova Costituzione repubblicana e in aprile, tra paure pressanti e polemiche sempre più aspre, si giunse alle prime elezioni politiche libere dopo la caduta del fascismo. Il 18 aprile 1948 la Democrazia cristiana ottenne il 48,5% dei consensi, mentre il Fronte Popolare, formato dal Partito socialista e dal Partito comunista, si fermò al 31%. Tutte le altre formazioni politiche sparirono nel gorgo di uno scontro effettivamente bipolare. In sostanza l'elettorato individuò nella Dc l'unica vera "diga" anticomunista e concentrò su di essa tutte le proprie energie. Non si trattò solo di consenso filoclericale, ma di voti delle più diverse origini, che non avrebbero mancato di pesare sul futuro del partito scudocrociato. Dal canto loro, i partiti del Fronte accusarono la Dc di aver vinto grazie all'influenza americana, all'ingerenza illecita del Vaticano e del clero e alle intimidazioni continue di governo e industriali. Nel 1949 gli iscritti ed i simpatizzanti del Pci e dei movimenti di matrice marxista furono scomunicati da Pio XII, il quale mobilitò, già a partire dal Referendum sulla forma dello Stato del 1946, tutte le strutture della Chiesa cattolica, che entrarono nello scontro politico. In quell’anno venne reso pubblico, attraverso la stampa e l’affissione di manifesti, oltre a volantini distribuiti nelle chiese italiane, l’Avviso Sacro sul quale vennero presentati i punti salienti della scomunica. Sul piano dell’anticomunismo non ci si limitò a combatterne l’ideologia, ma attraverso la scomunica si volle agire sulle coscienze dei singoli cittadini, emarginando chi aderiva a quel partito. Attraverso il ricorso ad una campagna moralizzatrice di stampo medievale, si tentò di tornare ad uno Stato confessionale, limitando o contrastando quelle innovazioni di stampo laico che la Costituzione del 1948 aveva introdotto. 

Volantino sulla scomunica distribuito nelle chiese di Udine

Eppure la crociata ordita dai vertici della Chiesa contro il Pci mal si conciliava con il tentativo di quel partito di darsi una forma e una struttura più aperta e democratica, tanto da far dire a Togliatti che i comunisti dovevano “vincere il loro isolamento, inserirsi in modo attivo nella realtà politica e sociale, avere iniziativa, diventare un effettivo movimento di massa”. Ancora più ingiustificata fu la decisione di scomunicare gli iscritti al Partito comunista a fronte, invece, delle aperture di quel partito, che votò a favore dell’introduzione dell’ art. 7 nella Costituzione repubblicana, ossia l’inserimento dei Patti Lateranensi, perché volle mantenere e perseguire la pace religiosa nel Paese e riconoscere non solo la legittimità, ma il radicamento profondo che la Chiesa e la religione cattolica avevano nella storia italiana e nell’esperienza della grande maggioranza del popolo. Questa posizione del Pci trovava i suoi fondamenti nelle radici lontane e nella cultura che provenivano da Antonio Gramsci, già nel primo dopoguerra, che si sarebbero spinte fin nelle illuminate elaborazioni e nelle proposte di Enrico Berlinguer.
Alcuni storici fanno risalire ai primi anni del secondo dopoguerra la nascita di quel clima che verrà appunto definito Guerra Fredda, ossia un conflitto politico e ideologico tra i blocchi occidentale e orientale, guidati rispettivamente da Stati Uniti e Unione Sovietica. In realtà le sorti geopolitiche dell’Europa vennero già definite dagli accordi di Yalta del 1945; qualsiasi “deviazione” non sarebbe stata ammessa e tollerata dalle grandi potenze, firmatarie degli accordi. Oltre alla volontà di affermare la propria egemonia su scala planetaria, Usa e Urss incarnavano modelli politici, sociali ed economici opposti. L'egemonia degli Usa sull'Europa occidentale, già solidamente impostata negli anni precedenti, fu rafforzata dall'attuazione del Piano Marshall. I princìpi esposti nella dottrina Truman contribuirono a creare negli Usa un clima di isterismo anticomunista che portò all'esplosione del maccartismo e condizionò pesantemente le scelte di politica estera, oltre che interna, statunitense. Questa politica produsse, in Europa, la "cortina di ferro", cioè la linea di separazione che dal Baltico all'Adriatico divideva i due blocchi irrigidendo le posizioni. Contemporaneamente, la politica dell'Urss consistette nell'accentuare la subordinazione dei paesi dell'Europa orientale, privandoli delle libertà fondamentali e trasformandoli in satelliti della propria strategia economica, politica e militare che culminò con violente repressioni in Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia.
In Italia questo stato di cose portò un insieme di forze e istituzioni a far nascere la cosiddetta Conventio ad excludendum, ossia quella regola tacita, falsa e opportunistica, secondo cui l'Italia del dopoguerra era una democrazia bloccata perché l'alternanza al governo era di fatto impossibile a causa della presenza nel sistema politico del più forte partito comunista d'occidente.

Per quanto riguarda la "Grande Storia" mi fermo qui, mentre, nella seconda parte, cercherò di descrivere, se così si può definire, la "piccola storia", quella del borgo e del paese, quella degli umili, di coloro ai quali il fato assegna una vita carica di fatica quotidiana, di miseria, sofferenza, dolore. "Genti meccaniche e di piccol affare", avrebbe detto il Manzoni.
Proseguirò, dunque, con la ricerca storica e sociologica degli eventi locali, sui quali, negli ultimi trent’anni, sono stati scritti molti libri che hanno avuto il merito di analizzare e raccontare la storia della Brianza e la condizione della sua gente. Non vorrei quindi dilungarmi oltre il dovuto, se non per fissare pochi aspetti che ritengo abbiano avuto grande significato nel tracciare gli eventi storici, sociali e politici di Verderio Superiore ed i cambiamenti avvenuti negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento. 

Beniamino Colnaghi

Fine prima parte. La seconda parte verrà postata intorno alla metà di aprile p.v.

Bibliografia e sitografia
Verderio, la storia attraverso le immagini e i personaggi, a cura della Biblioteca intercomunale di Verderio, novembre 1985.
Verderio. La chiesa parrocchiale dei santi Giuseppe e Floriano. 1902-2002: un secolo di storia, arte e vita religiosa, a cura della parrocchia di Verderio Superiore, luglio 2002.
Giulio Oggioni, Quand sérum bagaj, Barzago, Casa Editrice Marna, 2004.
Giulio Oggioni, Verderio. 1940-1945. Ricordi, immagini e testimonianze nel diario di cinque anni di guerra, Cornate d’Adda, A. Scotti Editore, 2008.
Archivio storico del Comune di Verderio.
Archivio del giornale Il Resegone di Lecco.
Denis Mack Smith, Storia d’Italia 1861-1969, Bari, Laterza, 1972.
Enciclopedia libera on-line wikipedia.org
Cronologia on-line cronologia.leonardo.it

venerdì 4 marzo 2016

Marzo 1946. Settanta anni fa il primo voto delle donne italiane

Dopo un lunghissimo e tormentato cammino verso il voto, carico di tensioni e diffidenze, in Italia le donne votarono per la prima volta nel marzo 1946. Erano elezioni amministrative che inaugurarono una nuova stagione della politica e dei diritti nel nostro Paese. Due mesi dopo, il 2 giugno, le donne parteciparono in massa al referendum che avrebbe permesso al popolo italiano di decidere quale assetto dare al Paese: monarchico o repubblicano. Contestualmente si votò per eleggere i membri dell’Assemblea Costituente, cui sarà affidato il compito di redigere la nuova Carta costituzionale.  
 
1946. La coda davanti ad un seggio di Roma
 
Alla vigilia di queste prime elezioni libere dal 1924, in cui anche le donne vennero chiamate ad esprimere il proprio parere, nessuna forza politica poté ignorare quale enorme importanza avrebbe assunto l’elettorato femminile, che costituiva circa il 53% del totale dei votanti. De Gasperi, Togliatti e Nenni erano sostanzialmente concordi sull’estensione del suffragio, ma dovettero scontrarsi con la diffidenza che il provvedimento suscitò, per motivi diversi, all’interno dei loro partiti. Nel Pci i dubbi circa i risultati delle urne erano legati al timore che le donne si lasciassero troppo influenzare dai parroci e dalla Chiesa. Le perplessità democristiane erano invece legate alla possibilità che, con la nuova partecipazione alla vita politica, le donne si allontanassero progressivamente dai valori tradizionali, incrinando così l’unità e la serenità della famiglia. In più casi venne addirittura rinfacciato alle donne italiane di essere arrivate al diritto di voto senza aver fatto granché per ottenerlo, di non aver avuto un movimento suffragista veramente combattivo e consapevole, come ad esempio quello inglese, e molti ribadirono che le donne erano assolutamente impreparate a compiere il loro dovere elettorale.
Malgrado fosse ancora molto il lavoro da fare per migliorare le condizioni economiche, civili e sociali delle donne in Italia, il corso della storia non si fermò.
Rimane tuttavia, ancora oggi, il fatto che sostanzialmente la piena parità uomo-donna non è stata raggiunta e non sono ancora sopravvenute le giuste condizioni per far sì che le donne possano inserirsi ai vertici della vita sociale, economica e politica del nostro Paese.