lunedì 21 ottobre 2013

L’alpino Mario Rigoni Stern sul fiume Don

“Ho ancora nel naso l'odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli starnuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don.”1
Così inizia il diario autobiografico dell’alpino Mario Rigoni Stern, terzo di sette fratelli, nato il 1 novembre 1921 ad Asiago, un piccolo paese dell’Altopiano dei Sette Comuni nelle Prealpi venete, in provincia di Vicenza.

Mario Rigoni Stern

Il sergente nella neve ripercorre i momenti cruciali e drammatici della Campagna di Russia del corpo di spedizione italiano, tra la fine del 1942 e l’inizio dell’anno successivo. Il ricordo copre i tre mesi in cui gli alpini italiani, impegnati nella resistenza contro i sovietici in un caposaldo sulle rive del Don, minacciati dall’accerchiamento russo, verso la metà di gennaio 1943 ricevono l’ordine della ritirata e procedono tra le steppe russe allo sbaraglio, stremati, affamati, di chilometro in chilometro, di villaggio in villaggio. La colonna in ritirata si riversa così nelle gelide steppe russe. Appena passata la frontiera ucraina una violenta battaglia scuote l’apparente calma della ritirata. È il 26 gennaio 1943, una data che moltissimi soldati e le loro famiglie non scorderanno mai: a Nikolajewka diversi plotoni ed intere compagnie andarono incontro alla morte; qui dopo un confuso assalto delle truppe di testa, aspettando il sostegno dei carri armati tedeschi e del resto della colonna, che arrivò troppo tardi, più della metà dei soldati italiani rimasero uccisi.

“...Corro e busso alla porta di un'isba. Entro.
Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz'aria. - Mnié khocetsia iestj, - dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C'è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d'ogni mia boccata. - Spaziba, - dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. - Pasausta, - mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell'ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco...”2

 
Soldati italiani in Russia

Accanto a Rigoni Stern, protagonista e narratore, i compagni Marangoni, Meschini, Bodei, Giuanin, Moreschi, Tourn, Antonelli condividono ansie e fatiche: persone semplici, di montagna, che compiono il proprio dovere e sanno perfino ridere delle proprie disgrazie. A Nikolajewka, a tentare di uscire dalla sacca in cui erano stati rinchiusi, insieme a Mario Rigoni Stern c’erano anche migliaia di alpini che in quel momento avevano in testa un solo obiettivo: “arrivare a baita”. Per gli alpini di Russia in ritirata, “arrivare a baita” significava, non solo ritornare a casa, bensì un ritorno agli affetti dei propri cari, al calore del focolare, alla serenità dopo un lungo periodo di sacrifici e sofferenze. Per Giuanin, uno dei personaggi più commoventi de Il sergente nella neve, era diventata una giusta e sacrosanta ossessione. “Ogni volta che gli capitavo a tiro mi chiamava in disparte, mi strizzava l’occhio e sottovoce mi chiedeva:”Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?”. Ma Giuanin, giovane falegname delle valli bergamasche, non è tornato a casa, è morto sulla neve mentre trasportava munizioni. Come Moreschi, come Raul, il primo amico della vita militare di Rigoni. Morto a Nikolajewka mentre andava all’assalto su un carro armato e saltando a terra prese una raffica di mitra. Come Marangoni, la sua salma è tornata in Italia solo alcuni anni fa. “Rideva sempre” racconta Rigoni, “e quando riceveva posta mi mostrava la lettera agitandola in alto: è la morosa”. Anche lui è morto. Una mattina, smontato all’alba, era salito sull’orlo della trincea a prendere la neve per fare il caffè e vi fu un solo colpo di fucile. Piombò giù nella trincea con un foro nella tempia.
E così fu per migliaia di soldati russi, uomini semplici e coraggiosi, pur se apparentemente duri e crudeli, che hanno perso la vita per difendere la propria terra e la propria gente.
L’invio di truppe italiane in Unione Sovietica al fianco degli alleati nazisti fu una delle scelte più disastrose e tragiche del fascismo e di Mussolini. Nel 1941 venne costituito un primo corpo di spedizione composto da circa 60mila uomini. L’anno successivo giunsero ingenti rinforzi e fu creata l’Armir, l’armata composta da quasi 230mila effettivi. Schierati lungo il fiume Don, i soldati italiani, del tutto impreparati e con pochi mezzi, falcidiati dalla fame e dal freddo micidiale, finirono in gran parte annientati dall’offensiva dell’Armata Rossa, tra il dicembre 1942 ed il gennaio 1943. Il bilancio delle varie fasi della guerra fu catastrofico, le perdite di vite umane furono impressionanti.

 
La ritirata dell'esercito italiano

Fatto prigioniero dai tedeschi dopo la firma dell'armistizio dell’8 settembre 1943, Rigoni Stern fu deportato in un campo di concentramento nell’allora Prussia Orientale, ove rimase prigioniero un paio d’anni, rifiutando, come la maggioranza dei militari italiani catturati dai nazisti, di ottenere la libertà in cambio dell'arruolamento nelle forze armate della Repubblica sociale italiana. Dopo la liberazione del campo durante l'avanzata dell'Armata Rossa verso il cuore della Germania, rientrò a casa a piedi il 5 maggio 1945.

A proposito di quella guerra Rigoni Stern dirà:
“I russi erano dalla parte della ragione, e combattevano convinti di difendere la loro terra, la loro casa, le loro famiglie. I tedeschi d'altra parte erano convinti di combattere per il grande Reich. Noi non si combatteva né per Mussolini né per il Re, si cercava di salvare la nostra vita.”3

Mario Rigoni Stern muore il 16 giugno 2008 all’età di 86 anni. Per sua stessa volontà la notizia della morte verrà data solo a funerali celebrati. Durante la malattia chiese di non essere ricoverato in ospedale e fu assecondato. Sempre su sua richiesta venne sepolto senza vestiti nella nuda terra sotto ad una semplice croce di legno d'abete, come tanti soldati caduti sull’Altopiano durante la Prima guerra mondiale.

Beniamino Colnaghi
Note e riferimenti bibliografici
1 Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve, Einaudi, Torino, 1953
2 Mario Rigoni Stern, op. cit.
3 Ritratti: Mario Rigoni Stern di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini, 1999.

mercoledì 16 ottobre 2013

mercoledì 2 ottobre 2013

Milano, dal Naviglio al Duomo attraverso Porta Ticinese

Prosegue la collaborazione del signor Pietro Marchisio con il blog “Storia e storie di donne e uomini“. (b.c.)

Abbiamo visto, nel post dello scorso mese di marzo, che la via privilegiata per far arrivare le materie prime, necessarie alla Fabbrica del Duomo di Milano, era il Naviglio Grande e che il primo facile approdo in città era la darsena di Porta Ticinese.
Quella era la Milano dei navigli che hanno accompagnato la sua storia e la sua crescita per molti secoli, rappresentando, fin dal Medioevo, l’espressione milanese e lombarda della scienza e dell’ingegneria idraulica, copiata in ogni parte d’Europa.
 
La Milano dei navigli non c’è quasi più. A Nord-Est è rimasto un tratto della Martesana, il canale che derivato dal fiume Adda a Trezzo collegava la città col Lario; a Sud rimane il complesso della darsena di Porta Ticinese cui perviene il Naviglio Grande, derivato un tempo dal Ticino a Tornavento e alimentato ora sempre dalle acque del Ticino, incanalate a Somma Lombardo soprattutto per scopi irrigui, industriali e per la produzione di energia elettrica. Presso la darsena ha l’incile il Naviglio Pavese, che torna al Ticino a Sud di Pavia.


Mappa dei navigli lombardi nel XVIII secolo
Fonte Regione Lombardia, settore coordinamento per il territorio
 
Grazie ai traffici sviluppatisi presso la darsena, il cuore pulsante di tutti i traffici mercantili di Milano divenne ufficialmente Porta Ticinese, più nota e cara ai milanesi come Porta Cicca, presumendo tale appellativo derivato, in epoca di dominio spagnolo, da chica (piccola) e poi trasformato nella vulgata popolare in “cicca”.

 
Milano. Porta Ticinese nel 1901
Fotografia nel pubblico dominio in quanto il copyright è scaduto
 
A Porta Cicca vennero installati mulini e casere, tant’é che il quartiere lungo Corso San Gottardo era detto el borg di furmagiatt. Qui si trovavano le famose osterie dove si potevano degustare autentici risotti con l’ossobuco, le costolette alla milanese con la “gremulada” e la frittura di rane, il tutto circondato dall’andirivieni dei barconi, degli scaricatori, tencitt, delle lavandaie, dei venditori ambulanti e di tutti i popolani che, risalendo il Naviglio da Boffalora a bordo dei famosi barchett, raggiungevano Milano.

Le vecchie botteghe di Corso di Porta Ticinese 
Fotografia nel pubblico dominio in quanto il copyright è scaduto
 
Il carattere laborioso e mercantile di Porta Ticinese aveva lontane origini, infatti, la vecchia piazza interna ai bastioni si chiamava Piazza Mercato, uno dei luoghi cittadini più vocato a scambi commerciali, proprio perché alimentati dalle merci provenienti da fuori città.
In seguito, venuta meno la peculiarità dei navigli, il mondo di Porta Cicca cambiò radicalmente subendo un lungo e duro periodo di declino e di abbandono.

Le botteghe ed i vecchi cortili vennero pian piano occupati da artigiani di ogni genere: falegnami, ferraioli, riparatori di biciclette, rutamatt, fino a giungere ai giorni nostri, epoca in cui il quartiere più popolare di Milano è stato riscoperto da artisti di ogni genere e dalla nuova borghesia, trasformandosi nella cosiddetta Montpartnasse meneghina.

E’ così che le vecchie osterie hanno lasciato il posto a ristoranti finto-antichi ed ai pianobar e che l’artigianato povero si è trasformato in artigianato d’elite. Gli ultimi barconi ormai in disuso sono stati ancorati davanti ai ritrovi notturni e trasformati in giardini galleggianti.

 
Milano. Alzaia Naviglio Pavese di notte
 
A vegliare su tutti questi cambiamenti è comunque rimasto l’Arco Trionfale di piazza XXIV Maggio, inaugurato da Luigi Cagnola nel 1815 a ricordo della vittoria Napoleonica di Marengo sugli Austriaci e che prese temporaneamente il nome di Porta Marengo, ritornata Porta Ticinese col rientro dell‘imperatore d’Austria Francesco II, che anziché distruggere il monumento lo dedicò alla pace, sostituendo le lodi a Napoleone con la scritta “Alla pace liberatrice dei popoli”.

Pietro Marchisio