venerdì 22 dicembre 2023

28 dicembre 1943: l’eccidio dei sette fratelli Cervi ad opera dei fascisti


In Italia ci sono luoghi apparentemente marginali e laterali che, se gli si dedica una visita con il giusto approccio curioso e interessato, sanno raccontare molto, consentendo esperienze uniche e stimolanti, non solo nel campo storico, ma anche in quello culturale, agroalimentare, dell’innovazione.
Uno di questi luoghi è a Gattatico, un piccolo paese in provincia di Reggio Emilia. Custodisce un passato d’inestimabile importanza e ne fa un motivo imprescindibile per guardare avanti.
Tutto si svolge attorno all’Istituto Alcide Cervi, che sorge in quella che fu la cascina della famiglia Cervi e che prende il nome del padre di sette fratelli, contadini e partigiani, vittime della repressione e della barbarie fascista.
La storia di questa famiglia appassiona ed emoziona principalmente per due motivi: da una parte perché è una storia di contadini e fa parte della storia della vita e delle tradizioni del nostro Paese, dall’altra perché costituisce una testimonianza d’impegno civile.
La famiglia Cervi attraversa il Novecento passando dalla condizione di mezzadri a quella di affittuari, coltivando la terra e cercando nella terra quel riscatto dalla miseria che contraddistingueva l’Italia della prima metà del secolo scorso. 
In casa Cervi circolavano parecchi libri e le discussioni politiche erano all’ordine del giorno. In questo contesto fu quasi naturale la nascita di quello spirito antifascista che costituì un carattere fondante del nucleo che segnò per sempre il destino dei sette figli maschi. Sempre qui avvenne l’incontro dei fratelli Cervi con Dante Castellucci, un partigiano poi fucilato dai suoi stessi compagni, poco prima dei fatti che portarono alla caduta del fascismo, e ciò sarà determinante per i Cervi perché entreranno a far parte attiva nella Resistenza.
Ma la rivoluzione di casa Cervi non è solo politica, è anche sindacale: il loro senso di giustizia sociale li ha portati a scelte importanti. La famiglia è unita e progressista, spinta all’innovazione, a guardare avanti, tutti elementi che saranno fondamentali anche per lo sviluppo della loro azienda agricola. Poter migliorare il lavoro agricolo è per i Cervi la condizione indispensabile per uscire dalla povertà e dallo sfruttamento della mezzadria. Con queste convinzioni, nel 1934 la famiglia si stabilisce nel podere Campirossi, in località Gattatico, dando inizio all’attività di affittuari. Il lavoro è duro e tutti insieme si impegnano a trasformare il loro podere, non particolarmente fertile, in un’attività produttiva evoluta attraverso gli studi innovativi sulle pratiche agricole. Il simbolo di modernità dell’azienda è il trattore Balilla, acquistato dai Cervi nel 1939. Nonostante la scarsa alfabetizzazione, ai Cervi piaceva leggere, documentarsi, imparare non solo per migliorare le tecniche del loro lavoro, ma anche per il proprio accrescimento culturale.
 
La famiglia Cervi. Al centro, seduti, papà Alcide e mamma Genoeffa (1)

Con la dichiarazione di Mussolini che certificava l’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940, la situazione nel nostro Paese peggiorò ulteriormente. Nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943Benito Mussolini venne esautorato dal Gran Consiglio del Fascismo e subito dopo deposto dal re Vittorio Emanuele III. Furono giorni aggrovigliati, inquieti, densi di agguati, tradimenti e vendette.
La notizia esplose nel paese come un fulmine a ciel sereno. Poco più di un mese dopo, l'armistizio di Cassibile fu diramato l'8 settembre del 1943, e prevedeva la resa incondizionata italiana alle forze alleate con il disimpegno italiano dall'alleanza dell'Asse e l'inizio di fatto della cobelligeranza tra Italia e Alleati in caso di reazione della Germania nazista. L'annuncio dell'armistizio ebbe per conseguenza l'occupazione dei territori italiani da parte tedesca e l'inizio della Resistenza e della guerra di liberazione italiana contro il nazifascismo. 
Così, mentre avveniva il totale sbandamento delle forze armate, le armate tedesche della Wehrmacht e delle SS presenti in tutta la penisola poterono far scattare l'Operazione Achse, occupando tutti i centri nevralgici del territorio nell'Italia settentrionale e centrale, fino a Roma, sbaragliando quasi ovunque l'esercito italiano: la maggior parte delle truppe fu fatta prigioniera e venne mandata nei campi di internamento in Germania, mentre il resto andava allo sbando e tentava di rientrare al proprio domicilio. Di questi ultimi, una buona parte, quella più politicizzata, si diede alla macchia, andando a costituire i primi nuclei del movimento partigiano che partecipò attivamente alla resistenza italiana.
Dentro questo clima complicato, il 25 novembre 1943 casa Cervi viene circondata e al primo mattino, dopo uno scontro a fuoco, i sette fratelli vengono arrestati. Anche il padre Alcide, che non voleva abbandonarli, seguirà la stessa sorte. Gelindo, Antenore, Ferdinando, Aldo, Agostino, Ovidio ed Ettore Cervi rimasero in carcere a Reggio Emilia sino al 28 dicembre, quando vengono trasferiti al Poligono di tiro, appena fuori Reggio, e lì fucilati come rappresaglia per l’uccisione del segretario comunale di Bagnolo in Piano. Anche don Pasqualino Borghi, parroco di Tapignola, morirà fucilato al Poligono, in quanto fervente antifascista e facente parte del movimento partigiano con il nome di Albertario. La sua canonica fu un rifugio sicuro per tanti perseguitati e ricercati dalla milizia fascista, ebrei, militari sbandati. 
La tomba dei Cervi al cimitero di Campegine (RE)

Alcide Cervi

Alla fine la casa della famiglia venne bruciata dai fascisti, con le donne ed i bambini abbandonati in strada. Papà Cervi era ancora in cella e non fu nemmeno informato quando i suoi figli vennero condannati a morte e fucilati. “Dopo un raccolto ne viene un altro, bisogna andare avanti”. Queste le parole del vecchio “Cide” quando, tornato a casa dal carcere, seppe dalla moglie Genoeffa la tragica fine dei suoi ragazzi. Da quel giorno infatti, furono le donne dei Cervi a lavorare la terra con Alcide e con gli 11 nipoti.
Nell’immediato dopoguerra, il Presidente della Repubblica appuntò sul petto del vecchio padre sette Medaglie d’argento, simbolo del sacrificio dei suoi figli. Papà Cervi viaggiò in mezzo mondo, rappresentando la Resistenza italiana, partecipando alle grandi manifestazioni politiche, partigiane ed antifasciste. Morì a 94 anni il 27 marzo 1970, salutato ai suoi funerali da oltre 200.000 persone.
L’Istituto Alcide Cervi gestisce la casa museo dei Cervi, oggi uno straordinario museo della storia dell’agricoltura, dell’antifascismo e della Resistenza, e la Biblioteca Archivio Emilio Sereni, che ospita la biblioteca privata di questo importante scrittore, politico e storico italiano. Entrambe le strutture sono visitabili.

Beniamino Colnaghi

Note

1)      Fonte Wikipedia https://commons.wikimedia.org/wiki/File:La_famiglia_Cervi.jpg?uselang=it

 

martedì 5 dicembre 2023

Agosto 1848: Giuseppe Garibaldi è in Brianza, a Verderio, Merate e Imbersago


L’intento di questo breve scritto è quello di raccontare il passaggio di Garibaldi, accompagnato da alcuni suoi fedelissimi, sul territorio di alcuni Comuni della Brianza Comasca, oggi Lecchese, nell’obiettivo di cacciare l’invasore austro-ungarico e ricomporre sotto un’unica bandiera il suolo italiano.
Nei primi mesi del 1848 Garibaldi era in Uruguay. Il 5 aprile, in compagnia di una sessantina di suoi uomini, si imbarcò sul brigantino Speranza per far ritorno in Italia. Giunti in Spagna, e saputo di ciò che stava avvenendo in Italia, fecero rotta su Nizza, città natale di Garibaldi, dove arrivarono il 23 giugno. Dopo 14 anni ritrovò la moglie Anita ed i figli e riabbracciò la madre. Trascorsi pochi giorni in compagnia dei familiari, la sua volontà fu quella di dirigersi a Milano, ma Mazzini e Medici, repubblicani, cercarono di dissuaderlo, perché là combattevano, dalla parte dei milanesi, i monarchici del re Carlo Alberto. Garibaldi ribatté che lui era tornato dall’America per combattere i nemici dell’Italia. Il 4 luglio 1848 si recò a Roverbella a colloquio con re Carlo Alberto, ma subito notò la diffidenza del Savoia nel trovarsi al cospetto di questi uomini che indossavano la camicia rossa.
Chiuso il negativo incontro con il re sardo, Garibaldi puntò su Milano, dove arrivò il 20 luglio. Gabrio Casati, capo del governo provvisorio, accolse bene i garibaldini e al generale conferì il grado di colonnello. Ma l’aria che si respirava non faceva presagire niente di buono, gli austriaci si apprestavano a ritornare a Milano.
Garibaldi con i suoi venne inviato a Bergamo in cerca di rinforzi, ma quasi subito richiamato dovette fermarsi a Monza, dove trovò un clima decisamente caotico, che impiegò due o tre giorni per ripristinare il pur minimo ordine. Da Monza, secondo i piani prestabiliti, partirono attraverso la campagna verso Bernareggio e Usmate. Il pranzo del 2 agosto venne consumato a Bernareggio, a palazzo Landriani. Nel primo pomeriggio Garibaldi ripartì alla volta di Verderio Superiore, tre chilometri più a nord, dove incontrò la famiglia del conte Confalonieri, il quale invitò i prestigiosi ospiti a cena.

Verderio, sullo sfondo villa Gnecchi Ruscone, costruita ove nel 1848 sorgeva villa Confalonieri


Il giorno seguente, come previsto, Garibaldi incontrò Mazzini a Merate. Il generale, nel suo libro “Memorie”, a pagina 144, scrisse testualmente: “Mi comparì il Mazzini, sotto la sua bandiera, attorniato da un folto gruppo dei suoi intellettuali”.
I nostri due eroi del Risorgimento furono ospiti dei principi Belgioioso, sino al pomeriggio inoltrato del 4 agosto 1848. A tale proposito è da ricordare che la principessa Cristina fu una delle principali ispiratrici e finanziatrici del giornale mazziniano “Giovine Italia”.
Durante il suo breve soggiorno a Merate, Garibaldi scrisse un breve comunicato rivolto ai suoi seguaci:


ALLA LEGIONE ITALIANA (1)

Ordine del giorno 

Merate, 4 agosto 1848

Legionari, il cannone tuona – Il punto in cui siamo è pericoloso, come in posizione di essere tagliati fuori, e poi il giorno di domani ci promette un campo di battaglia degno di voi.

Adunque vi chiedo ancora una notte di sacrificio – Procediamo la marcia.

Viva l’indipendenza italiana! 

G. Garibaldi

 

Terminati gli estenuanti discorsi previsionali, Garibaldi, Mazzini e il loro seguito marciarono su Imbersago, dove il generale, nella serata del 4 agosto, tenne dal balcone del palazzo Albini, affacciato sulla piazza del piccolo borgo, l’immancabile discorso.

Merate, l'interno di villa Belgioioso

Sotto, Imbersago, targa ricordo dell'evento e la palazzina dalla quale Garibaldi parlò alla folla 




Il giorno dopo, all’alba, incolonnati arrivarono a Brivio, sulle rive del fiume Adda, risalirono verso Calco e presero la via per Como. E qui la visita di Garibaldi in Brianza terminava.
A Como i due grandi uomini del nostro Risorgimento di divisero, Mazzini proseguì verso nord, per Lugano, Garibaldi piegò verso il lago Maggiore e, giunto ad Arona, s’imbarcò sui mezzi messi a disposizione dell’amministrazione locale e puntò su Luino, dove sapeva che avrebbe incrociato gli austriaci.
Quella brianzola fu solo una breve tappa di un percorso che, tredici anni dopo, ci condusse alla nascita dello Stato unitario italiano (seppur ancora parziale e incompleto) proclamato il 17 marzo 1861.

Beniamino Colnaghi


(1) Giuseppe Garibaldi, Scritti politici e militari, Ricordi e pensieri inediti, raccolti su autografi, stampe e manoscritti da Domenico Ciampoli, Roma, Enrico Voghera editore, pag. 20 





lunedì 20 novembre 2023

Il 25 novembre di ogni anno è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne

Per ricordare le donne vittime di violenza di genere, che rimane una delle principali forme di violazione dei diritti umani, ad opera di uomini della famiglia o di ex mariti e compagni, proponiamo la lettura di questa poesia di Alda Merini, che ha per titolo "Il canto delle donne"

Io canto le Donne prevaricate dai bruti
la loro sana bellezza, la loro ‘non follia’
il canto di Giulia io canto riversa su un letto
la cantilena dei Salmi, delle anime ‘mangiate’
il canto di Giulia aperto portava catene pesanti
la folgore di un codice umano disapprovato da Dio.
Canto quei pugni orrendi dati sui bianchi cristalli
il livido delle cosce, pugni in età adolescente
la pudicizia del grembo nudato per bramosia.
Canto la stalla ignuda entro cui è nato il ‘delitto’
la sfera di cristallo per una bocca ‘magata’.
Canto il seno di Bianca ormai reso vizzo dall’uomo
canto le sue gambe esigue divaricate sul letto
simile a un corpo d’uomo era il suo corpo salino
ma gravido di amore come in qualsiasi donna.
Canto Vita Bello che veniva aggredita dai bruti
buttata su un letticciolo, battuta con ferri pesanti
e tempeste d’insulti, io canto la sua non stagione
di donna vissuta all’ombra di questo grande sinistro
la sua patita misura, il caldo del suo grembo schiuso
canto la sua deflorazione su un letto di psichiatria,
canto il giovane imberbe che mi voleva salvare.
Canto i pungoli rostri di quegli spettrali infermieri
dove la mano dell’uomo fatta villosa e canina
sfiorava impunita le gote di delicate fanciulle
e le velate grazie toccate da mani villane.
Canto l’assurda violenza dell’ospedale del mare
dove la psichiatria giaceva in ceppi battuti
di tribunali di sogno, di tribunali sospetti.
Canto il sinistro ordine che ci imbrigliava la lingua
e un faro di marina che non conduceva ad un porto.
Canto il letto aderente che aveva lenzuola di garza
e il simbolo-dottore perennemente offeso
e il naso camuso e violente degli infermieri bastardi.
Canto la malagrazia del vento traverso una sbarra
canto la mia dimensione di donna strappata al suo unico amore
che impazzisce su un letto di verde fogliame di ortiche
canto la soluzione del tutto traverso un’unica strada
io canto il miserere di una straziante avventura
dove la mano scudiscio cercava gli inguini dolci.
Io canto l’impudicizia di quegli uomini rotti
alla lussuria del vento che violentava le donne.
Io canto i mille coltelli sul grembo di Vita Bello
calati da oscuri tendoni alla mercé di Caino
e canto il mio dolore di esser fuggita al dolore
per la menzogna di vita
per via della poesia.

Alda Merini (Da Testamento, 1988)

mercoledì 8 novembre 2023

 Abbazia di Sant’Egidio in Fontanella del Monte (Bg)

 

Cenni di storia

 

Il 13 gennaio 1080 prese avvio, per iniziativa di Alberto da Prezzate, l’antico priorato di Sant’Egidio sul Monte Canto. Esso nacque dalla pietas di un potente convertito al monachesimo, e del suo consortium familiare (nell’atto di fondazione sono citati i nomi di Giovanni, Isengarde e Teiperga, la cui tomba si trova nel chiostro). Ordinati dalla regola benedettina di Cluny, qui i monaci vissero fino all’aprile 1473, quando papa Sisto IV tolse la comunità monastica da Fontanella. L’8 ottobre 1575 il priorato venne annesso, insieme al priorato di Pontida, ai beni della basilica di San Marco a Venezia dall’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo.

Intorno al 1630 la chiesa di Sant’Egidio tornò alla Diocesi bergamasca. Il 27 maggio 1699 venne eretta la parrocchia di Fontanella e le furono assegnati un parroco e un chierico. Fino al 1986 questo territorio era chiamato Fontanella del Monte e, quindi, la sua parrocchia prese il nome di S. Egidio di Fontanella del Monte.

Negli anni che vanno dal 1964 al 1992 è stato ospitato, presso le strutture dell’abbazia, il servita David Maria Turoldo, insigne teologo, filosofo, scrittore e poeta friulano, membro dell'ordine dei Servi di Maria. Proprio nel 1992, il 6 febbraio, padre Turoldo muore in una clinica di Milano, e, per sua espressa volontà il corpo viene tumulato nel piccolo cimitero di Fontanella. Turoldo, dal 2016, riposa  accanto ad un altro grande uomo di Chiesa, il cardinale Loris Capovilla, per oltre un decennio, dal 15 marzo 1953 al 3 giugno 1963, segretario particolare di Angelo Giuseppe Roncalli, prima quando questi, appena diventato cardinale, viene nominato nuovo patriarca di Venezia, poi, dal 28 ottobre 1958, quando Roncalli diventa papa Giovanni XXIII; incarico che terrà fino al momento della morte del pontefice.

A Sant’Egidio il papa, nativo di Sotto il Monte, un piccolo paese di contadini ai piedi di Fontanella, saliva ogni anno a rifocillare lo spirito nelle pietre che, egli diceva, pregano per noi.

Dal 1998 il complesso è divenuto Cappellania Vescovile, guidata da un proprio rettore, che ha il compito di garantire il silenzio a chi è in ricerca, sia attraverso l’incontro personale e di gruppo, sia con celebrazioni liturgiche che esprimano la preghiera della Chiesa nella sobrietà, che diventa essa stessa solennità.




 

Sant’Alberto, il fondatore

 

Alberto, nato a Prezzate, piccola località poco distante da Fontanella del Monte, del quale sono incerte le date di nascita e di morte, fu un personaggio molto importante del suo tempo, con capacità economiche rilevanti, come testimoniato dal fatto che abbia fondato l’abbazia di San Giacomo di Pontida, pochi anni prima del priorato di Sant’Egidio, entrambe sui due declivi del Monte Canto.

Ebbe pure un potere politico importante, tanto da accompagnare in diversi placiti gli imperatori Enrico III ed Enrico IV, testimoniando così una certa vicinanza e familiarità verso l’imperatore.

Il nobile Alberto, che indosserà l’abito monacale e sarà canonizzato, fu uno dei maggiori propugnatori e diffusori del riformismo cluniacense in Lombardia. Si adoperò per lo sviluppo delle abbazie, riuscendo ad ampliarle e renderle economicamente e politicamente importanti, coinvolgendo in quest’opera molti esponenti dell’aristocrazia militare di Bergamo.

Il monastero di S. Egidio stesso rientrò in quella rete europea di priorati sviluppatasi da Cluny ed attorno a Cluny, venendo a fare parte di un Ordine la cui benemerenza maggiore fu l’avere promosso la riforma della Chiesa, ma la cui potenza fu molto presto causa della propria decadenza.

Dei suoi cammini tra i due monasteri, per la cura che ebbe dei primi monaci, è rimasto un gran masso al colmo del monte, su cui la devozione popolare legge sedute di riposo: l’ambiente benedettino fa correre il pensiero agli incontri di Benedetto con Scolastica, e dunque di Alberto e della sorella Teiperga, considerata madre e cofondatrice del monastero fontanellese.

Primo priore di Pontida, Alberto “emigrò in cielo, tristezza al mondo ma gioia per gli angeli” il 2 settembre del 1095 in grande fama di santità; le sue reliquie furono ben presto meta di devozioni che ottennero numerose grazie per la sua intercessione al Dio Trinitario, Padre e Figlio e Spirito Santo.


L'interno della chiesa, il cortile e le abitazioni dell'abbazia









 

Sant’ Egidio, il patrono


“Il beatissimo Egidio è il più sollecito di tutti i santi a giungere in soccorso dei bisognosi, dei tribolati e degli afflitti che a lui si rivolgono”. Così la Guida del pellegrino di Campostela presentava questo antico eremita a coloro che, diretti al celebre santuario della Galizia, giungevano lungo la via tolosana alla tappa obbligata di St-Gilles-du-Gard. Tappa obbligata anche per Alberto, di ritorno dal noviziato di Cluny, tanto da portare in Fontanella la devozione a questo santo. La più antica recensione della Vita, databile appunto al X secolo, narra che Egidio, venuto in Gallia dalla Grecia, suo paese d’origine, dopo una breve sosta in Provenza si era ritirato a vivere vita eremitica in un luogo deserto della Linguadoca, in compagnia soltanto di una cerva che gli forniva il suo latte.  Durante una battuta di caccia  l’animale si salvò perché Egidio fu colpito al suo posto da una freccia scagliata dal re dei Goti, rimanendo ferito a una gamba. Il sovrano donò allora all’eremita delle terre sulle quali egli costruì un monastero, di cui divenne abate. Alla sua morte, le reliquie vennero custodite nel monastero, dando allo stesso una vastissima fama. 
Egidio veniva invocato dal popolo contro un gran numero di malattie e fu nominato patrono delle genti di mare, dei pastori e dei mendicanti, dei mutilati, tanto che nel XV secolo  entrò nel novero dei 14 santi ausiliatori.

Architettura della chiesa

La chiesa abbaziale di Sant’Egidio costituisce un esempio di romanico bergamasco che trova espressione anche nel vicino tempio di San Tomé della piana di Almenno.
L’interno presenta uno schema basilicale costituito da tre navate, separate da colonne, con copertura a capriate e un transetto non eccedente con sopraelevazione all’incrocio. Nella zona presbiteriale, le tre absidi sono precedute da tre campate quadrangolari comunicanti, coperte da volte a crociera. Le pareti interne presentano resti di affreschi del XV e del XVI secolo ancora perfettamente leggibili, anche se sono incerti i personaggi raffigurati.
Di grande rilievo è la torre campanaria.
La chiesa ha subito nel corso dei secoli numerosi danneggiamenti dovuti sia all’incuria che ad attacchi specifici da parte di milizie nei torbidi periodi medievali ed anche a causa di alcuni restauri inappropriati, rivelatisi poi deleteri. I restauri più impegnativi vennero effettuati nel biennio 1910-1911 e nel periodo 1959-1962. L’ultimo restauro  di rilievo risale agli anni 1998-2000, promosso dalla diocesi bergomense, in occasione del Giubileo, restituendo la chiesa e i corpi annessi al pregevole stato attuale. 

Il cimitero

A poche decine di metri dall'abbazia si trova il piccolo cimitero, nel quale sono sepolti, tra gli altri, padre David Maria Turoldo ed il cardinale Loris Capovilla, che fu segretario particolare di papa Giovanni XXIII.




 
La maggior parte delle informazioni contenute in questo articolo sono tratte da un opuscolo, edito dalla diocesi di Bergamo, distribuito nell’abbazia.

Beniamino Colnaghi

martedì 26 settembre 2023

Sono trascorsi 80 anni dalla Milano bombardata del 1943

L’estate del 1943 è un tornante decisivo della Seconda guerra mondiale. La Germania nazista è in difficoltà, gli Alleati avviano la controffensiva. Il territorio italiano diventa sede di pensantissimi scontri di guerra: dal cielo, da terra, dal mare, oltre che segnato da una lacerante e sanguinosa guerra civile. Nel luglio 1943 avviene lo sbarco degli Alleati in Sicilia, poi il primo bombardamento su Roma e a seguire la caduta del fascismo e le dinamiche che porteranno all’armistizio dell’8 settembre.
Dai cieli della capitale la guerra aerea si muove verso le città del Nord. Siamo ai primi giorni di agosto 1943, un intervallo di pochi giorni  per confermare la strategia anglo-americana, volta a colpire al cuore l’alleato italiano del Terzo Reich, attraverso bombardamenti con un’intensità senza precedenti. I vertici militari inglesi e americani non sono inizialmente concordi su come e dove condurre i bombardamenti, ma con il mese di agosto la scelta diventa quella di colpire le città italiane del triangolo industriale, Milano, Torino e Genova, in linea con urgenti ordini politici. Il 7 e l’8 agosto dalle basi inglesi si alzano in volo quasi 200 Lancaster divisi in tre formazioni. A ogni gruppo viene affidato il perimetro di una città da colpire; il secondo si occupa del cielo sopra Milano. Gli esiti sono immediati e drammatici. Colpiti e distrutti o seriamente danneggiati stabilimenti industriali, infrastrutture, edifici civili e monumenti. Tra i monumenti e le opere danneggiate o perse per sempre figurano un’ala della pinacoteca di Brera, il Teatro alla Scala e dei Filodrammatici, la Galleria Vittorio Emanuele, alcune guglie del Duomo, la sede del Comune di Palazzo Marino, l’Arcivescovado, il Castello Sforzesco, Santa Maria delle Grazie, dove si trova il Cenacolo di Leonardo da Vinci. E molto altro ancora. 



I bombardamenti di alcuni monumenti simbolo di Milano, dall'alto: Basilica di Sant'Ambrogio, Galleria Vittorio Emanuele II, Teatro alla Scala (Fonte Wikipedia.org bombardamenti di Milano, foto nel pubblico dominio) 


Il 9 agosto il quotidiano milanese, il Corriere della Sera, titola: Il bombardamento terroristico di Milano e il giorno successivo pubblica con risalto le foto dei danni sotto il titolo Dove è passata la RAF. Iniziano i conteggi dei morti e dei feriti e le valutazioni sulle strategie di condotta della guerra. Tra il 12 e il 13 agosto sono oltre 500 i bombardieri che lasciano le basi inglesi per far rotta verso il Nord Italia. Milano è l’obiettivo principale, punto di riferimento per i piloti. Il bilancio è drammatico, un primato per l’Italia che resta ineguagliato, tra bombe e ordigni incendiari scaricati. Una forza imponente e una tempesta di fuoco che si abbatte su una città fortunatamente semi deserta. La guerra rompe ogni argine fino a coinvolgere popolazioni civili innocenti e intere comunità.
La città è in ginocchio, senza gas e energia elettrica, con le linee dei tram divelte dalle esplosioni e le vetture del trasporto pubblico inservibili. Manca l’acqua potabile e il cibo. Si stimò che il calcolo delle vittime potesse aggirarsi intorno a 500. Ma la guerra continua, non ammette soste nelle afose notti successive. Milano è al centro di nuovi attacchi che si spingono fino al 16 agosto. Nelle quattro grandi incursioni aeree dell’agosto 1943 oltre il 15% degli edifici cittadini è stato colpito o comunque danneggiato in modo rilevante.
Il colpo è profondo, la ferita non si cancella ma la città non muore, anzi.
La guerra prosegue attraverso altre prove impegnative fino alla primavera del 1945 quando la Liberazione di Milano, il 25 aprile, sarà il segno della fine del conflitto e della tirannia fascista e dell’inizio di una nuova storia.
Le parole di Antonio Greppi, primo sindaco di Milano dopo la Liberazione dal nazifascismo, esprimono il carattere e la voglia di riscatto dei milanesi: “Molto si è distrutto, ma noi tutto ricostruiremo con pazienza e con la più fiduciosa volontà. Ricomincia la storia degli uomini che credono soltanto nelle proprie virtù e nelle proprie opere e che considerano la libertà come la continuazione non prescindibile dell’adempimento consapevole dei propri doveri”.

Beniamino Colnaghi

Di seguito sono elencati alcuni post che trattano fatti avvenuti durante la Seconda guerra mondiale in Brianza:


lunedì 11 settembre 2023

Brianza: radici, storia ed evoluzione


Su questo blog sono presenti numerosi articoli, o post, come direbbero i blogger più ortodossi, che trattano argomenti di natura sociale, storica, economica e ambientale relativi ad un’area posta a nord di Milano, che oggi si divide sostanzialmente tra le province di Monza e Brianza, Como e Lecco. Questa terra è la Brianza,  da sempre una terra contadina, un polmone verde, un territorio ricco di boschi, dolci colline, cascine e campanili, vissuta da genti laboriose e produttive. In questa plaga lombarda i borghesi e le più affermate famiglie aristocratiche milanesi costruirono le loro sontuose dimore di villeggiatura e svilupparono alcune loro attività industriali. Oltre ai contadini ed ai coloni, quindi, la Brianza arricchì la sua componente sociale con la presenza di famiglie appartenenti alle antiche nobiltà lombarde ed agli emergenti ceti industriali. Come citato in diversi precedenti articoli, questa terra, almeno a partire dagli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, rafforzata dall’avvento del boom economico, ha riscontrato una lenta ma progressiva scomparsa di gran parte delle culture e delle tradizioni locali.

Se volessimo condensare in poche parole ciò che è avvenuto, non solo qui in Brianza, ma purtroppo nell’Italia rurale e contadina, a partire dagli anni Cinquanta, potremmo leggere ciò che denunciò, con lucida determinazione e forza, come nessun altro in quel periodo storico, Pier Paolo Pasolini, su ciò che lui definì “genocidio culturale”, ossia  gli effetti nefasti prodotti dalla società capitalistica matura, dal punto di vista economico-sociale e antropologico, primo fra tutti, appunto, il “genocidio” delle classi sottoproletarie e subalterne e della loro specificità e autonomia culturale.     

Per citare alcuni esempi che possano meglio chiarire il concetto, pensiamo alla scomparsa della civiltà contadina. Per più di mezza Italia gli anni del “miracolo economico” sono anche gli anni della grande migrazione contadina, dello spopolamento delle campagne e dei piccoli borghi, della fine dell’agricoltura, La migrazione contadina causò profondi sconvolgimenti dal punto di vista sia sociale sia culturale. Poi subito dopo seguì l’inarrestabile e distruttiva espansione edilizia, che ha dapprima circondato e poi indistintamente sommerso le dimore rurali e le magnifiche cascine lombarde. Con essa sono scomparsi i saperi, le manualità, l’uso degli oggetti tradizionali, le botteghe e le osterie storiche, le tracce della diffusa religiosità brianzola. Le poche testimonianze superstiti, se non prontamente recuperate da proprietari e amministratori illuminati e lungimiranti, versano ormai in condizioni precarie e di abbandono, al limite della demolizione.

Qualcuno ha scritto che l’esercizio della memoria permette al passato di riaffiorare e di essere rivissuto. Ma c’è qualcuno, oggi, a parte alcuni studiosi e appassionati di storia locale, a cui interessa esercitare la memoria per far riaffiorare il passato dei nostri contadini, così duro, faticoso, a tratti disumano? Chi oggi sa leggere e interpretare il dialetto della Brianza antica? Chi conosce come si svolgeva la vita nei vecchi borghi contadini? Chi ha mai sentito parlare dei ritmi lentissimi scanditi non dagli orologi ma dalle stagioni del lavoro nei campi, dai muggiti delle mungiture quando era ancora buio, dall’incedere lento del vomere, dalle campane delle pievi, dalle sirene dei filatoi e degli opifici? Pochi, ormai, immersi come siamo in questa vita frenetica e autodistruttiva, che cancella anche la memoria del nostro passato.

Come accennato poco sopra, la Brianza non è oggi, e non è mai stata in passato, una unitaria provincia lombarda. E l’istituzione della provincia di Monza e Brianza, avvenuta nel 2004, non colma la lacuna, riguardando di fatto solo la Brianza milanese.

Per rintracciare una unicità amministrativa di questa terra occorre ritornare nei secoli addietro, allorché il Ducato di Milano aveva suddiviso il proprio territorio in “contadi”. Uno di questi era il contado della Martesana che aveva pressappoco gli stessi confini dell’attuale Brianza. Era il riconoscimento di una realtà oggettiva. Qualcosa di omogeneo già allora esisteva in quella gente che abitava fra il Seveso e l’Adda. Il Contado della Martesana aveva un capoluogo piuttosto decentrato, Vimercate, ove erano insediati il Vicario ducale e il Capitano, e mantenne le sue funzioni per almeno tre secoli.

 

 
Vimercate. Collegiata di Santo Stefano

 

Poi, a fine Settecento, le grandi sistemazioni attuate dagli Asburgo d’Austria introdussero nel territorio lombardo la suddivisione in province ripartire in circondari e questi, a loro volta, in distretti. Il Contado della Martesana, che era ormai conosciuto maggiormente con il nome di Brianza, si trovò suddiviso fra le province di Como e Milano. In questo frangente anche Monza venne accorpata nel disegno generale perdendo le sue autonomie, ma guadagnando, nella tradizione popolare, il titolo di capoluogo della Brianza sebbene, in realtà, fosse assurta a capo non dell’intera Brianza ma di un circondario pur molto importante che comprendeva i distretti di Vimercate, Desio, Carate, Barlassina. Dopo il breve intervallo di dominazione francese, che introdusse i dipartimenti, si tornò con la Restaurazione alle province austriache. Una situazione che è rimasta immutata sino all’ultimo decennio del secolo scorso, con lo scorporo della provincia di Lecco da quella di Como, e all’istituzione della provincia di Monza e Brianza.

Lasciamo un attimo da parte le modifiche territoriali e gli scorpori attuati dai potenti di turno. Poniamoci invece la domanda se, nella sua lunga storia, la Brianza abbia mai vissuto, al suo interno, una defezione, ossia una pieve, un feudo o un paesotto che abbiano voluto andarsene, rimanere fuori dai suoi confini. Parrebbe proprio di no, anzi, sono invece numerosi i casi di comuni che si sono arrogati nel tempo il diritto di aggiungere al proprio nome storico questo segno distintivo, l’attributo Brianza. L’unica cosa che si sa con certezza è che per ricomprendere tutti i comuni, gli elastici confini della Brianza si sono sempre più allargati.

Ma c’è un nucleo della Brianza vera che avrebbe potuto eccepire qualcosa contro questo annacquamento della specie? “Sono gli abitanti del Monte di Brianza, ove c’era il comune di Brianza (improvvidamente modificato nel secolo scorso in un meno significativo Colle Brianza), ovvero quel lungo crinale verde detto “San Genesio”, che va da Olgiate e da Santa Maria Hoé a Galbiate e che culmina con la cima del Monte Crocione (877 metri) e con il bianco eremo che fu dei monaci Camaldolesi” (Dr. Fabrizio Mavero, La grande Brianza, Canturium, 2009).  

 


 

Il Monte di Brianza, detto anche San Genesio, è una montagna delle Prealpi Luganesi che si trova in Provincia di Lecco. E’ suddiviso in 3 colli: Monte Regina (817 m), Monte Crocione (877 m) e Monte San Genesio (832 m). Il suo territorio ha un’estensione di 3362 ettari, pari a 33 chilometri quadrati.

 


 

Mavero riprende aggiungendo che “I fatti storici sono questi. Siamo negli ultimi decenni del 1300. L’Adda funge da confine fra Ducato di Milano e Repubblica della Serenissima. I Veneziani non nascondono le loro mire sullo Stato milanese governato dai Visconti. Il fronte degli attacchi è lungo l’Adda  nei pressi di Brivio, ove il fiume offre un facile guado (il termine celtico “briva” significava proprio questo). I primi a dover fronteggiare le armate della Serenissima sono pertanto i brianzoli del Monte di Brianza che costeggia l’Adda in quel punto”.

Fu proprio per la fedeltà delle genti brianzole che, di fatto, nel 1373 Bernabò Visconti, respinti i Veneziani, premiò i brianzoli del Monte concedendo immunità e privilegi,ovvero esentandoli da tutta una serie di tasse. “I brianzoli del Monte – prosegue Mavero – non persero tempo e si organizzarono in una Universitas Montis Briantie, ovvero l’insieme di coloro che avevano diritto a queste esenzioni. La corsa ad essere “dentro” l’Universitas dovette essere furibonda tant’è che, per semplificare le cose, tutti gli abitanti delle quattro Pievi (di Garlate, di Oggiono, di Brivio e di Missaglia) in cui il Monte è compreso furono esentati da dette tasse. Alcuni anni dopo, siamo nel 1449, i brianzoli del Monte aiutarono Francesco Sforza a conquistare Milano. Al nuovo padrone, che aveva confermato e ulteriormente arricchito i privilegi, i brianzoli chiesero anche che il territorio dell’Universitas così delimitato assurgesse al grado di Vicariato. E così fu. Dal 1451 al 1544, quindi per quasi un secolo, le Pievi citate costituirono il Vicariato del Monte di Brianza con sede del Vicario in Oggiono”.

Ma la storia non finisce mica qui, sarebbe stato fin tropp bel…  Nel 1544 gli Spagnoli, i nuovi potenti di turno, decisero che il Vicariato dovesse chiudere e le quattro Pievi sopraccitate tornare nel Vicariato della Martesana, un territorio antico e vastissimo, con sede del Vicario e del Capitano a Vimercate. Comprendeva dodici Pievi, da Vimercate a Desio e Cantù, a Garlate, sino ad Asso e alle sue valli, ben oltre le Pievi brianzole.

E, con questi cambiamenti, qualcuno potrebbe dedurre che i “brianzoli” siano ritornati a chiamarsi “martesani”. No, non avvenne così, ma esattamente il contrario, e nessuno sa bene sulla base di quale decisione o imposizione. I “martesani” divennero, si presume in maniera graduale, “brianzoli”. Non sappiamo perché tutta questa gente ritenne utile essere considerata dentro la Brianza, che allora non esisteva, se non su quel Monte. “Forse – cerca un possibile motivo il dr. Mavero – potevano essere ancora quei privilegi fiscali che cessarono solo nel 1746 col governo austriaco di Maria Teresa. Chiamarsi brianzoli lasciava pur sempre qualche speranza. L’imperatrice asburgica, però, non cadde nel tranello e li tolse tutti”.

Comunque sia, il marchio Brianza ebbe la meglio e l’intero territorio che era Martesana divenne Brianza per la soddisfazione di tutti, compresi gli aristocratici e gli industriali milanesi che qui costruirono la loro elegante e sontuosa villa.

La Brianza, quindi, assorbì tutto il vasto territorio che era ancora ufficialmente Vicariato della Martesana, sempre con capoluogo Vimercate.

Ma manca un tassello a tutta questa ricostruzione storica: Monza. Dov’era Monza nel frattempo? Monza stava fuori, per conto suo. Era la “corte di Monza”, un feudo tra i più aristocratici ed esclusivi che storicamente vantava la propria autonomia anche da Milano, tant’è che gli vennero riconosciuti propri Statuti. Ma era anche città regale e imperiale. E sul piano ecclesiastico “enclave” di rito romano nel bel mezzo della grande diocesi ambrosiana.

 

Monza, il Duomo

 

Nel 1786 Giuseppe II d’Austria riorganizza in senso moderno lo Stato di Milano, attuando il nuovo Compartimento territoriale della Lombardia e inventando le Province. Per cui le Corti e i Vicariati non ci sono più e il territorio di quello che era la Martesana-Brianza viene diviso in due da una linea orizzontale che è più o meno ancora quella che oggi divide a nord le Province di Como e Lecco da quella di Monza-Brianza a sud. Ma allora Monza era inserita nella Provincia di Milano. Poteva la regale e altolocata Monza finire i suoi giorni come burocratica sede di qualche ufficio amministrativo alle dipendenze di Milano? Certo che no! Eccola allora intraprendere il cammino verso il titolo di capitale della Brianza.

Nel 1861, con l’Unità d’Italia, Monza diviene capoluogo di un vasto circondario al quale facevano capo gli ex distretti di Barlassina, Desio, Carate e Vimercate. Praticamente era già l’ossatura della provincia attuale, divenuta operativa nel giugno 2009.

Ma nessuno si è mai chiesto perché la nuova provincia con sede a Monza non si chiami semplicemente Provincia di Monza? Il motivo vero è che quel nome, Brianza, rappresenta un valore aggiunto cui nessuno può rinunciare e, pur di tenerselo, Monza è andata incontro alle non lievi rampogne della Brianza comasca e lecchese che si è sentita un po’ defraudata. Ma questa e ormai la storia, Monza si è definitivamente collocata dentro la Brianza.

Ai nostri giorni la Brianza si ritrova quindi suddivisa fra quattro diverse province, un frazionamento come mai in passato le era stato riservato. Malgrado ciò questa terra ha mantenuto una certa omogeneità culturale che sembra essere il carattere saliente della Brianza, una “piccola patria” come l’aveva definita Carlo Cattaneo nella prefazione al volume “Storia della Brianza e de’ paesi circonvicini” e quindi, come tutte le piccole patrie, un duraturo “luogo del cuore”.        

Malgrado ciò, la Brianza di oggi è molto diversa da quella, non solo di cento anni fa, ma persino di quarant’anni or sono. Questi ultimi anni hanno visto il tramonto definitivo del mondo agricolo ed anche il parziale  superamento dell’economia artigiana e industriale, a favore del settore terziario. Fattori di estrema importanza  per focalizzare l’immagine della Brianza odierna, ai quali si sono aggiunti una  urbanizzazione a tratti selvaggia e disordinata, un conseguente e impressionante incremento demografico e una densità abitativa per kmq quattro volte quella dell’intera Lombardia (in Italia è seconda dietro la provincia di Napoli, e tra le più elevate in Europa ).

E’ vero che a partire dalla metà degli anni Ottanta in Lombardia sono state poste sotto tutela, attraverso la costituzione dei parchi regionali, alcune centinaia di migliaia di ettari di territorio e che in Brianza la percentuale di territorio tutelato sale al 25%, se si somma la superficie dei parchi sovraccomunali, ma è altrettanto vero che, come abbiamo visto, molte testimonianze e tradizioni secolari si sono irrimediabilmente perse a causa dell’eccessivo sviluppo urbanistico.

La Brianza, come tutti gli ambienti abitati dall’uomo, è un organismo vivente, dotato di una vitalità superiore alla norma, che l’ha portata, appunto, a trasformazioni repentine e radicali. Per valutare questi cambiamenti basterebbe girovagare in queste terre in un qualsiasi giorno della settimana, con uno sguardo attento alla realtà che ci circonda: traffico elevatissimo, inquinamento tra i più alti d’Europa, presenza massiccia di capannoni e aree industriali e artigianali, carente presenza di reti e infrastrutture di servizi pubblici locali. La Brianza quindi è un territorio ad altissima concentrazione del mondo del lavoro e di quello manifatturiero in particolare. Non c’è settore economico che non sia rappresentato. 

La Brianza è diventata una inconsueta “città diffusa, multicentrica e multietnica”, in linea di massima benestante, popolosa e manifatturiera, adagiata in un originario e incantevole ambiente naturale, oggi trasformato e imbruttito, in alcuni casi devastato, dalla mano dell’uomo.

Beniamino Colnaghi 

mercoledì 24 maggio 2023

 A 60 anni dalla morte di Giovanni XXIII

San Giovanni XXIII, nato Angelo Giuseppe Roncalli (Sotto il Monte, Bergamo, 25 novembre 1881 - Città del Vaticano, 3 giugno 1963) è stato il 261° vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica.

Rimangono memorabili tanti suoi piccoli gesti che hanno rivoluzionato lo stile papale, le sue illuminate encicliche, tra le quali la più conosciuta Pacem in Terris, ma epocale è stata la convocazione del Concilio Vaticano II, che aprì le porte ad un nuovo cammino di rinnovamento e speranza.
Giovanni XXIII morì il 3 giugno 1963. Sono trascorsi 60 anni da quel giorno e, per ricordare l’evento, ho ripercorso tre luoghi fondamentali della sua crescita umana e religiosa, ai quali, il giovane Angelo prima, e l’amato papa poi, era molto affezionato: la piccola corte di Sotto il Monte, ove nacque, l’abbazia di S. Egidio, appena sopra il paese, e il santuario della Madonna del Bosco, a Imbersago, terra lecchese, che raggiungeva attraversando il fiume Adda con il traghetto “leonardesco”.

Le sette foto che seguono indicano il cortile, gli alloggi al primo piano, tra i quali la camera ove nacque il piccolo Angelo e la cantina







L'abbazia di Sant'Egidio in Fontanella del Monte


Il santuario della Madonna del Bosco a Imbersago. La foto al centro rappresenta la gigantesca statua di san Giovanni XXIII




Beniamino Colnaghi