venerdì 10 novembre 2017

Il “sarto di Ulm”, ovvero colui che voleva volare, e l’apologo di Bertolt Brecht

Ulm (Ulma, Germania), è una città tedesca affacciata sul Danubio, famosa nel mondo per aver dato i natali ad Albert Einstein, nel 1879, e per la presenza di una grande e bella cattedrale in stile gotico, il cui campanile, alto 161 metri e con 768 gradini, è indicato come il più alto al mondo.
Ad onor del vero vi sarebbe un terzo motivo che dovrebbe aggiungere fama alla città, ossia la vicenda che riguardò un suo cittadino, tale Albrecht Ludwig Berblinger.
Berblinger nacque infatti a Ulm il 24 giugno 1770, settimo figlio di Albrecht Ludwig Berblinger e di Dorothea Fink. Rimasto orfano del padre all’età di 13 anni, come spesso accadeva all'epoca nelle famiglie numerose e di umili origini, Albrecht fu mandato in un orfanotrofio, ove fu costretto a studiare come sarto, sebbene lui, appassionato di meccanica, ambisse a diventare un orologiaio.
Tuttavia, intrapresa la carriera di sarto, Berblinger mantenne sempre un grande interesse per la meccanica, disciplina che lo portò, nei primi anni dell’Ottocento, a progettare e costruire alcune carrozzine per bambini e altri piccoli veicoli. Successivamente ideò alcune protesi per le gambe. Ma il suo grande sogno fu quello di inventare una macchina che permettesse all’uomo di volare. Lavorò incessantemente per alcuni anni alla costruzione di un oggetto simile al deltaplano, con la convinzione che potesse volare. Il suo progetto, non suscitò solo curiosità, ma alimentò ilarità in gran parte della popolazione. Molti si chiesero se Berblinger non fosse diventato matto.
Ma le chiacchiere malevoli e le critiche non impedirono al “sarto di Ulm” di terminare la costruzione della sua invenzione, che rese quindi nota al pubblico tramite un'inserzione del 24 aprile 1811. Poche settimane dopo annunciò il suo tentativo di sorvolare il Danubio il 30 maggio, alla presenza del Re e di migliaia di spettatori, ma, all’ultimo momento, Berblinger rinunciò. Il giorno seguente, forse più convinto, tentò quindi nuovamente di sorvolare il Danubio, partendo dai bastioni di Ulm. Il tentativo fallì, in quanto Berblinger precipitò col velivolo nelle acque del fiume, dal quale venne tratto in salvo da alcuni pescatori.
Berblinger cadde quindi in miseria, avendo speso quasi tutti i suoi capitali nella realizzazione del progetto e nel 1819 fu dichiarato civiliter mortuus, una condizione che gli permise di ricevere una sovvenzione dalla sua città.
Albrecht Ludwig Berblinger morì il 28 gennaio 1829 in un ospedale di Ulm, all'età di 58 anni. Venne sepolto in una tomba nel campo dei poveri.

La macchina da volo ideata da Berblinger (fonte Wikipedia)
 
Bertolt Brecht (1898 – 1956), il noto drammaturgo, poeta e regista teatrale tedesco scrisse una versione diversa sulla “fine” del povero sarto, dedicandogli una poesia e un apologo. 
 
"Vescovo, so volare",
il sarto disse al vescovo.
"Guarda come si fa!"
E salì, con arnesi
che parevano ali,
sopra la grande, grande cattedrale.

Il vescovo andò innanzi.
 "Non sono che bugie,
 non è un uccello, l'uomo:
 mai l'uomo volerà",
 disse del sarto il vescovo.

"Il sarto è morto", disse
al vescovo la gente.
"Era proprio pazzia.
Le ali si son rotte
e lui sta là, schiantato
sui duri, duri selci del sagrato".

"Che le campani suonino.
 Erano solo bugie.
 Non è un uccello, l'uomo:
 mai l'uomo volerà",
 disse alla gente il vescovo.
 

Scrisse dunque Brecht che quell’artigiano, fissato nell’idea di apprestare un apparecchio che permettesse all’uomo di volare, un giorno, convinto di esserci riuscito, si presentò al vescovo dicendogli che poteva volare. Si lanciò dal tetto della cattedrale ma, ovviamente, si spiaccicò sul selciato.
Tuttavia, constatò amaramente, ma lucidamente Brecht, alcuni secoli dopo gli uomini riuscirono effettivamente a volare, come riuscirono, aggiungo io, in molte parti del mondo, dopo avanzamenti e sconfitte, storie non lineari né univocamente progressive, dopo secoli di lotte contro lo schiavismo e la tirannide, la dominazione coloniale, le guerre di religione, gli uomini riuscirono, dunque, ad ottenere la libertà, a sviluppare scienza e tecnologia, a migliorare le proprie condizioni economiche, di salute, di vita più dignitose. 

Beniamino Colnaghi  

sabato 4 novembre 2017

La Valle di Ledro e la Boemia: storie di guerra e di amicizia
I deportati ledrensi in Boemia, dalla diffidenza all'accoglienza all'integrazione

Accadde tutto oltre cento anni fa, a poche ore dalla dichiarazione di guerra del Regno d´Italia all´Impero austro-ungarico. Il 24 maggio 1915 l´Italia entrò nel primo conflitto mondiale schierandosi con i Paesi dell‘Intesa. L'entrata in guerra dell'Italia aprì un grande fronte sulle Alpi, esteso dal confine con la Svizzera, a ovest, fino alle rive del mare Adriatico, a est. Le forze del Regio esercito sostennero il loro principale sforzo bellico contro le unità dell'esercito imperiale austro-ungarico, con combattimenti concentrati nel settore delle Dolomiti, dell'Altopiano di Asiago e soprattutto nel Carso. 


Alla vigilia del conflitto bellico, la regione Trentino-Alto Adige, poi interessata da sanguinosi combattimenti, era parte integrante dell´Impero austro-ungarico. Allo scoppio della guerra nel 1914 la popolazione adulta maschile della regione, compresa tra i 21 e i 42 anni, venne chiamata alle armi.  Gli austriaci erano convinti che l´Italia non avrebbe mantenuto a lungo la sua neutralità e che i primi scontri sarebbero avvenuti nella zona della Valle di Ledro, costruendo imponenti opere militari di difesa e sbarramento. A causa della pericolosità della situazione, gli austriaci diedero l´ordine di evacuare tutta la popolazione civile da quei territori. Il 22 maggio del 1915, sulle pareti delle case della popolazione ledrense, venne affissa la Notificazione dell’Imperial Regio Capitano di Riva che ordinava l’evacuazione per tutta la popolazione della Valle, da effettuarsi entro 24 ore. Il 23 maggio del 1915, giorno di Pentecoste, nel giro di poche ore, migliaia di persone, in prevalenza donne, bambini ed anziani, furono costretti a lasciare le loro case e quella che fino a quel momento era stata tutta la loro vita, per una destinazione e un futuro ignoti. Tutto quello che gli fu concesso portare con sé furono un bagaglio e i viveri necessari per alcuni giorni di viaggio. Questo vero e proprio esodo di massa coinvolse in totale circa 75.000 persone che da tutto il Trentino furono spostate nelle regioni interne dell’Impero: Austria, Moravia, Boemia; regioni per loro lontane, di lingue e culture diverse. Di queste persone, 11.400 circa, provenienti in prevalenza dalla valle di Ledro, arrivarono in Boemia. Se si considera che molta di quella gente non era mai prima di allora uscita dalla Valle, si può forse capire il dramma psicologico che gli sfollati dovettero sostenere.
La popolazione venne caricata su camion, treni  e carri e trasportata per giorni lungo centinaia di chilometri in condizioni estreme e, una volta giunta in territorio boemo, distribuita tra le famiglie ceche dei comuni di Buštehrad, Chynava, Doksy, Dřetovice, Nový Knin, Milin, Přibram, Ptice, Svárov, Železná,  Všeň e Stříbro; paesi dai nomi impronunciabili e di cui i trentini non conoscevano la lingua. I ledrensi furono accolti dalla popolazione boema e morava dapprima con curiosità e diffidenza e furono sistemati alla meglio in palestre e scuole trasformate in dormitori, o presso famiglie boeme. La promessa austriaca di una permanenza che doveva durare soltanto poche settimane venne disattesa e gli italiani capirono presto che in quelle terre lontane dalla propria casa sarebbero rimasti per un tempo indefinito e avrebbero dovuto iniziare da capo a costruirsi un’esistenza degna. Così, senza mezzi economici e senza conoscere la lingua locale, i ledrensi dovettero reinventarsi un’esistenza combattendo, almeno all’inizio, contro un insidioso nemico: la fame. I primi tempi furono molto duri anche a causa delle differenze linguistiche che all’inizio impedivano la comunicazione. Molti, per sfuggire alla fame, mangiavano le rane pescate negli stagni e qualsiasi cosa fosse commestibile. Ma poco a poco la diffidenza iniziale della popolazione boema e la differenza linguistica furono superate grazie alla laboriosità e alla modestia degli italiani che da subito cercarono di rendersi produttivi e di guadagnarsi il rispetto e la stima dei cechi, che non tardarono a manifestarsi, forse anche a causa del risentimento che i due popoli provavano contro gli austriaci, il comune oppressore. Successivamente, ai profughi venne assegnato un contributo giornaliero in denaro pari a 70 haler  che scongiurò i problemi più urgenti di sussistenza. Le donne italiane furono impiegate nei campi carenti di manodopera a causa della guerra e, con il loro duro lavoro, si guadagnarono l’affetto e il rispetto della popolazione locale. I bambini furono i primi ad imparare la lingua perché giocavano con i loro coetanei cechi e aiutarono presto i genitori a comunicare con la popolazione locale. Se da una parte il soggiorno boemo fu per i ledrensi un esilio forzato, dall´altra è anche vero che questo esilio si trasformò  in una storia di grande solidarietà e di amicizia che poco a poco nacque tra gli italiani ed i cechi. Nel cuore dei profughi la parola “Boemia” era sinonimo di esilio, ma in quelle lontane terre gli italiani continuarono a mantener vive le proprie tradizioni riuscendo ad integrarsi con la popolazione locale e a stringere con essa sinceri e duraturi rapporti di stima, rispetto e amicizia reciproci.
Nel corso dei mesi, mentre sul fronte italiano infuriava la guerra, in Boemia le donne trentine continuarono ad occuparsi della famiglia, aspettando speranzose il ritorno dei figli e dei mariti dal fronte. Quando l’esercito italiano riuscì ad occupare i paesi della Valle, il 4 novembre del 1918 le ostilità cessarono e il Regio esercito italiano ormai entrato a Trento issò il Tricolore sulle alture fino a poco tempo prima occupate dal nemico. Alla luce della nuova situazione, i profughi, dopo quattro anni in terra boema, poterono far ritorno alla proprie case insieme ai soldati che tornavano dal fronte. Ma se l’arrivo in Boemia era stato traumatico, lo fu altrettanto il doversi separare dagli amati cechi, ormai amici, che avevano permesso ai ledrensi di sopravvivere in quei duri anni. I rapporti di stima ed amicizia allacciati erano destinati a durare per sempre. Al ritorno a casa, i profughi e i soldati superstiti finalmente si ritrovarono: le mogli poterono riabbracciare i loro mariti e le madri i propri figli, ma i paesi nei quali facevano ritorno erano spesso ridotti a un cumulo di macerie, le case scoperchiate, i campi distrutti e disseminati di mine e proiettili inesplosi. Ai ledrensi non restò altro che iniziare nuovamente da capo, con nuova forza e grande dignità, per ricominciare a vivere normalmente.

Negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale i deportati della Valle di Ledro ricordarono spesso, e i loro discendenti ricordano ancora oggi, l’esodo in Boemia con profonda gratitudine nei confronti del popolo ceco, ritornando più volte in quelle località del Centro-Europa in segno di riconoscenza verso quelle popolazioni che li avevano ospitati, alla ricerca dei loro vecchi amici e, contemporaneammente, per visitare nei cimiteri boemi le tombe dei loro cari, deceduti in quelle terre lontane.
Ancora nel 2009, a quasi un secolo dall’esilio nell’attuale Repubblica Ceca è stato siglato, per volontà dell’amministrazione della Valle di Ledro, un gemellaggio in segno di amicizia tra i comuni della Valle e otto comuni cechi, a ricordo di quell’esperienza e in segno di reciproca e perpetua amicizia. In tale occasione é stato pubblicato il libro: “Boemia. L’esodo della Val di Ledro 1915 – 1919”, curato da Dario Colombo, e prodotto un DVD, che narrano nei particolari la vicenda e raccolgono le testimonianze dirette di questa pagina poco conosciuta della storia del nostro Paese.

 
È in questo contesto che la nuova terra in cui si ritrovarono la maggior parte dei ledrensi al termine di quella odissea, la Boemia e la Moravia del Sud, Paesi dove si parlava un idioma a loro incomprensibile, diventò a poco a poco il luogo dove si alimentò la speranza del ritorno e si coltivarono, nel limite del possibile, le proprie tradizioni e la propria cultura. “Boemia” era l’esilio e, negli anni seguiti al ritorno in Valle, “Aver fatto la Boemia” espresse giorno dopo giorno il concetto intero dell’esodo, indipendentemente dal fatto che chi lo avesse espresso fosse stato davvero in Boemia e non a Mitterndorf, a St. Pölten, in Moravia o in altre zone dell’impero e tale fu la forza evocativa di quella parola che non necessitò mai di alcun chiarimento ed anzi, più si allontava negli anni la vicenda reale, più nel ricordo dei sopravvissuti acquistò forza e contenuto. Perché se da un lato l’esodo fu dramma, dolore, in qualche caso anche morte, dall’altro divenne anche una straordinaria storia di solidarietà, d’intraprendenza, di integrazione che permise ancora una volta ai trentini di conquistarsi il rispetto e l’ammirazione delle popolazioni locali, che, dopo la diffidenza ed il rifiuto iniziali, salutarono, anche con le lacrime agli occhi, la partenza degli esuli al momento del ritorno in Italia, avendo altresì costruito e stretto rapporti che sarebbero durati per decenni. Rispetto e ammirazione che furono soprattutto per le donne, le meravigliose donne ledrensi che portarono avanti pressoché sole intere famiglie, mentre padri, fratelli e mariti vestivano l’uniforme dei Kaiserjäger e dei Kaiserschützen sui Carpazi, in Galizia, sul fronte dolomitico.
Non è casuale che la copiosa corrispondenza seguita agli anni dell’esodo tra la Valle e la Boemia sia stata soprattutto corrispondenza tra donne, spesso accomunate dal crudele destino della perdita di un figlio, di un marito, di un fidanzato, di un padre nella terribile carneficina durata quattro anni, ma soprattutto legate da quel filo invisibile ma non per questo meno solido che univa donne che avevano lottato giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, per conquistare o condividere un pezzo di stoffa, un pugno di farina, una coperta. “Aver fatto la Boemia” diventò dunque allegoria per un periodo davvero straordinario della Valle, segno della capacità di superare una prova di quella portata con l’unica risorsa del proprio coraggio, della propria integrità e del proprio lavoro. Un coraggio, un’integrità, un’intraprendenza che vengono prepotentemente alla luce nei diari e nei racconti dei protagonisti, volutamente lasciati al presente proprio in quanto evocatori di valori che ancor oggi fanno parte, devono fare parte, di una comunità. Di tutto questo insieme di ricordi, sensazioni, valori la parola Boemia è sicuramente la sintesi più vera e felice, la parte fondante della spontaneità popolare, che nessuno può permettersi di dimenticare.
 
Patto di Gemellaggio
Noi Sindaci, liberamente eletti dal suffragio dei nostri cittadini, rappresentanti dell‘Unione dei Comuni della Valle di Ledro, composta dai Comuni di:Bezzecca, Concei, Molina di Ledro, Pieve di Ledro, Tiarno di Sopra e Tiarno di Sotto,
e dei Comuni Boemi di:
Buštěhrad, Chyňava, Doksy, Milín, Nový Knín, Příbram, Ptice, Všeň, 
auspichiamo che non si ripetano più guerre come quella tragica avvenuta negli anni 1914 -1918, che ha causato spaventose sofferenze ai cittadini di tutta l’Europa e ha costretto tutta la popolazione della Valle di Ledro ad abbandonare le proprie case e i propri averi e trovare temporanea amorevole ospitalità tra la gente dei Comuni Boemi. Nei cimiteri della Boemia riposano ancora i Ledrensi che laggiù hanno perso la vita e che non hanno potuto ritornare nella propria Valle. Con l’aiuto degli amici Boemi ci impegneremo a ricordarli e a mantenere un decoroso aspetto delle loro tombe.A ricordo di quella dolorosa esperienza, nello spirito della pace, della stima reciproca, della comprensione e dell’ affetto umano dei propri abitanti, le Amministrazioni Comunali della Valle di Ledro e dei Comuni Boemi istituiscono dei rapporti di gemellaggio fortemente auspicati dai nostri concittadini perchè continuino i vincoli di amicizia che sono nati nel corso della prima guerra mondiale tra le nostre popolazioni.A tal fine ci impegneremo a mantenere legami permanenti tra le nostre Comunità e a favorire in ogni campo la cooperazione e gli scambi istituzionali, culturali e sociali (scolastici, sportivi, parrocchiali, delle singole associazioni e di tutti i nostri concittadini) per sviluppare con una migliore comprensione reciproca il sentimento vivo della fraternità europea.Il presente accordo, redatto il lingua italiana e ceca ha durata illimitata e in ogni caso è valido fino a che le parti lo desiderano secondo la manifesta volontà di tutti, è stato sottoposto all´approvazione dei rispettivi Consigli Comunali ed entrerà in vigore dalla data della sottoscrizione.Valle di Ledro, 28 giugno 2008
Viaggi di amicizia in Boemia
Durante il mese  di giugno del 2009 una buona parte della popolazione della Valle di Ledro, mezzo migliaio tra sindaci, assessori comunali, sacerdoti, vigili del fuoco volontari, cooperatori, associazioni culturali, sportive o di volontariato e soprattutto famiglie, partecipò  ad alcuni viaggi in Repubblica Ceca, promossi ed organizzati dall’Unione dei Comuni e dalla Cassa Rurale di Ledro. L’obiettivo fu quello di rivivere le emozioni dei nonni e bisnonni che tanto raccontarono di quelle terre lontane, di quella gente generosa che li aveva aiutati in un momento così tragico della loro esistenza e con cui avevano stretto forti legami di amicizia. A Svatá Hora i ledrensi ebbero l’occasione di partecipare all’inaugurazione di un monumento a ricordo degli oltre 400 profughi della Valle di Ledro che ancora riposano nei cimiteri della Boemia.
E già da alcune settimane, autorità e cittadini italiani e cechi stanno preparando nuovi viaggi di amicizia e fratellanza volti a ricordare la ricorrenza del 4 novembre 2018, data che segna il centenario della vittoria italiana e della fine della Prima guerra mondiale.
 
Beniamino Colnaghi