lunedì 18 dicembre 2017

Il blog Storia e storie di donne e uomini augura buone feste ed esprime sinceri auguri di pace e serenità per il nuovo anno

 
 
 
Le foto sono state scattate a Milano nel giorno di Sant'Ambrogio

venerdì 8 dicembre 2017

Ul piasè de cüntala su dei brianzoli
(il piacere di conversare, di raccontarla a qualcuno)

Si è molto parlato su questo blog della trasmissione orale di fatti, notizie, storie tra le più svariate nei periodi quando la televisione non era ancora entrata prepotentemente nelle case dei brianzoli. Se togliessimo le chiacchiere di paese ed i pettegolezzi, che hanno sempre fatto parte del vissuto di una comunità di persone, le storie più o meno vere, o verosimili, ovvero infarcite di balle macroscopiche, fino agli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso venivano raccontate e tramandate ai più giovani oralmente. Solitamente ciò avveniva in inverno nelle calde e maleodoranti stalle oppure davanti al grande camino della cucina, ove erano sedute almeno tre generazioni della famiglia patriarcale, mentre durante i mesi più caldi i principali centri di “comunicazione culturale” erano i portici ed i loggiati delle cascine e dei cortili rurali. In quei luoghi erano quasi sempre le persone più anziane a raccontare le storie e i bambini ed i più giovani ascoltavano in religioso silenzio, a volte a bocca aperta, altre volte con gli occhi sgranati. Per le generazioni passate era naturale e istintivo ul piasè de cüntala su ed i bambini di allora si immedesimavano nel racconto e viaggiavano di fantasia. Era un raccontare alla buona, spontaneo e senza pretese, però sempre con una morale, mural, un messaggio che dicesse qualcosa di utile a tutti, di esemplare, da cui trarre insegnamento per una migliore norma di vita.
Le storie di temp indree tramandateci dalla tradizione orale brianzola sono sostanzialmente esposizione di fatti veri, o solo in parte, senza pretese di essere in possesso di documenti e testi scritti. Alcuni racconti partivano da contingenze reali e man mano venivano ricostruiti e riadattati con ambiti ambientati ad hoc e con le caratteristiche dei protagonisti, in sintonia con i tempi e i luoghi nei quali i fatti erano accaduti. Nella maggior parte delle vicende raccontate dai vecchi campeggia la figura del “brianzolo tipo”, con i suoi pregi e difetti, le sue manie, le rigidità di usi e costumi, le sue ingenuità ma anche le sue furbizie.


Agli inizi del secolo scorso, ed almeno fino agli anni Sessanta, il vissuto terreno del brianzolo ruotava attorno alla Provvidenza, ai Santi ed ai suoi Morti. Sono questi aspetti importanti per capire su che basi si fondava la sua mentalità e come gli riuscisse di non “uscire dal seminato”. Il vecchio contadino aveva innato il senso del rispetto delle regole, dello stare al proprio posto, dell’attaccamento alla propria comunità. Ciò era dovuto anche al fatto che la vita comunitaria rurale della vecchia Brianza era piuttosto povera di avvenimenti e di novità e che i fatti e le cadenze si ripetevano stagione dopo stagione, anno dopo anno. Le novità le portavano in cascina e nei piccoli centri rurali i carbunatt, i cavalont, gli strascee, coloro che avevano la possibilità di spostarsi con i carri verso Milano, Monza e Sesto San Giovanni.
La peculiarità delle storie raccontate qui in Brianza riguardava quasi sempre una velata serenità di spirito che oggi si è persa e smarrita e della quale noi oggi proviamo una sicura nostalgia. Si trattava di quella condizione “spirituale” che apparteneva a classi di persone umili, buone di carattere, prive di turbamenti, tranquille. Secondo il vecchio brianzolo l’uomo non era quasi mai protagonista della propria vicenda terrena, governata com’era dalla Provvidenza, di fronte alla quale l’uomo è spesso soltanto muto spettatore. Quella Provvidenza era il piano di Dio, dalla quale il contadino traeva insegnamenti oppure giustificazioni, ma era certo che a quel disegno divino dipendeva il suo destino spirituale e terreno.


I racconti brianzoli erano tutti emanazione delle persone anziane ed ebbero come ribalta, come abbiamo visto, i luoghi tipici del vissuto contadino. Nella stalla, vicino al grande camino o sotto i portici si potevano ascoltare storie riferite al mondo dell’infanzia, racconti fantastici o di soldati che avevano combattuto in guerra oppure ancora racconti edificanti a carattere religioso, tratti dalla vita dei santi e dei grandi pellegrini.   
Siccome le vecchie storie erano tutte calate nel mondo contadino, per cercare di capirle e dar loro una seppur minima verosimiglianza bisognerebbe conoscere il contesto entro le quali nascevano e si sviluppavano, almeno secondo tre concetti già brevemente richiamati: la Provvidenza, la mentalità contadina e l’indole del brianzolo. Occorre cioè avere un’immagine precisa dell’intero mosaico, perché è la sua conoscenza specifica che può consentirci di interpretare e capire quel mondo ormai scomparso.
Il prezioso significato sociale della nostra narrativa orale sta nel fatto che attraverso di essa possiamo ricostruire pezzo per pezzo la vita della cascina, il ruolo comunitario del cortile e del grande portico comune, la funzione romantica, oltre che fondamentale, del pozzo, il senso profondo della Provvidenza e della vita religiosa. Sono le storie che raccontano la vita di quelle generazioni di persone, storie che animano la chiesa, l’osteria, le botteghe artigiane, il lavatoio pubblico, il cimitero, la villa padronale.
È grazie a questo mondo che i racconti e le storie dei vecchi contadini brianzoli non sono mai banali, perché posseggono un’anima ed una morale condivisa. 

Beniamino Colnaghi
 
Altri post che raccontano la Brianza
 

venerdì 1 dicembre 2017

Pillole di saggezza e buon senso 1

"È in arrivo il nuovo digitale"... ma "dire no grazie, per me può bastare così non è previsto, non è permesso, bisogna continuamente cambiare apparati, imparare l'uso, resettare le abitudini, rimettere mano al portafogli". "... è una questione di libertà di fermarsi".
Michele Serra, L'amaca, "la Repubblica" del 4 novembre 2017

 
"Viaggiare ha un effetto liberatorio: più viaggi, più ti liberi dai pregiudizi. Perché comprendi che la tua civiltà non è esclusiva"
Marco Polo
 
 
"Rifiuta ciò che non ti serve. Riduci ciò di cui hai bisogno, Riutilizza ciò che consumi"
Bea Johnson, Zero rifiuti in casa, Logart Press editore

venerdì 10 novembre 2017

Il “sarto di Ulm”, ovvero colui che voleva volare, e l’apologo di Bertolt Brecht

Ulm (Ulma, Germania), è una città tedesca affacciata sul Danubio, famosa nel mondo per aver dato i natali ad Albert Einstein, nel 1879, e per la presenza di una grande e bella cattedrale in stile gotico, il cui campanile, alto 161 metri e con 768 gradini, è indicato come il più alto al mondo.
Ad onor del vero vi sarebbe un terzo motivo che dovrebbe aggiungere fama alla città, ossia la vicenda che riguardò un suo cittadino, tale Albrecht Ludwig Berblinger.
Berblinger nacque infatti a Ulm il 24 giugno 1770, settimo figlio di Albrecht Ludwig Berblinger e di Dorothea Fink. Rimasto orfano del padre all’età di 13 anni, come spesso accadeva all'epoca nelle famiglie numerose e di umili origini, Albrecht fu mandato in un orfanotrofio, ove fu costretto a studiare come sarto, sebbene lui, appassionato di meccanica, ambisse a diventare un orologiaio.
Tuttavia, intrapresa la carriera di sarto, Berblinger mantenne sempre un grande interesse per la meccanica, disciplina che lo portò, nei primi anni dell’Ottocento, a progettare e costruire alcune carrozzine per bambini e altri piccoli veicoli. Successivamente ideò alcune protesi per le gambe. Ma il suo grande sogno fu quello di inventare una macchina che permettesse all’uomo di volare. Lavorò incessantemente per alcuni anni alla costruzione di un oggetto simile al deltaplano, con la convinzione che potesse volare. Il suo progetto, non suscitò solo curiosità, ma alimentò ilarità in gran parte della popolazione. Molti si chiesero se Berblinger non fosse diventato matto.
Ma le chiacchiere malevoli e le critiche non impedirono al “sarto di Ulm” di terminare la costruzione della sua invenzione, che rese quindi nota al pubblico tramite un'inserzione del 24 aprile 1811. Poche settimane dopo annunciò il suo tentativo di sorvolare il Danubio il 30 maggio, alla presenza del Re e di migliaia di spettatori, ma, all’ultimo momento, Berblinger rinunciò. Il giorno seguente, forse più convinto, tentò quindi nuovamente di sorvolare il Danubio, partendo dai bastioni di Ulm. Il tentativo fallì, in quanto Berblinger precipitò col velivolo nelle acque del fiume, dal quale venne tratto in salvo da alcuni pescatori.
Berblinger cadde quindi in miseria, avendo speso quasi tutti i suoi capitali nella realizzazione del progetto e nel 1819 fu dichiarato civiliter mortuus, una condizione che gli permise di ricevere una sovvenzione dalla sua città.
Albrecht Ludwig Berblinger morì il 28 gennaio 1829 in un ospedale di Ulm, all'età di 58 anni. Venne sepolto in una tomba nel campo dei poveri.

La macchina da volo ideata da Berblinger (fonte Wikipedia)
 
Bertolt Brecht (1898 – 1956), il noto drammaturgo, poeta e regista teatrale tedesco scrisse una versione diversa sulla “fine” del povero sarto, dedicandogli una poesia e un apologo. 
 
"Vescovo, so volare",
il sarto disse al vescovo.
"Guarda come si fa!"
E salì, con arnesi
che parevano ali,
sopra la grande, grande cattedrale.

Il vescovo andò innanzi.
 "Non sono che bugie,
 non è un uccello, l'uomo:
 mai l'uomo volerà",
 disse del sarto il vescovo.

"Il sarto è morto", disse
al vescovo la gente.
"Era proprio pazzia.
Le ali si son rotte
e lui sta là, schiantato
sui duri, duri selci del sagrato".

"Che le campani suonino.
 Erano solo bugie.
 Non è un uccello, l'uomo:
 mai l'uomo volerà",
 disse alla gente il vescovo.
 

Scrisse dunque Brecht che quell’artigiano, fissato nell’idea di apprestare un apparecchio che permettesse all’uomo di volare, un giorno, convinto di esserci riuscito, si presentò al vescovo dicendogli che poteva volare. Si lanciò dal tetto della cattedrale ma, ovviamente, si spiaccicò sul selciato.
Tuttavia, constatò amaramente, ma lucidamente Brecht, alcuni secoli dopo gli uomini riuscirono effettivamente a volare, come riuscirono, aggiungo io, in molte parti del mondo, dopo avanzamenti e sconfitte, storie non lineari né univocamente progressive, dopo secoli di lotte contro lo schiavismo e la tirannide, la dominazione coloniale, le guerre di religione, gli uomini riuscirono, dunque, ad ottenere la libertà, a sviluppare scienza e tecnologia, a migliorare le proprie condizioni economiche, di salute, di vita più dignitose. 

Beniamino Colnaghi  

sabato 4 novembre 2017

La Valle di Ledro e la Boemia: storie di guerra e di amicizia
I deportati ledrensi in Boemia, dalla diffidenza all'accoglienza all'integrazione

Accadde tutto oltre cento anni fa, a poche ore dalla dichiarazione di guerra del Regno d´Italia all´Impero austro-ungarico. Il 24 maggio 1915 l´Italia entrò nel primo conflitto mondiale schierandosi con i Paesi dell‘Intesa. L'entrata in guerra dell'Italia aprì un grande fronte sulle Alpi, esteso dal confine con la Svizzera, a ovest, fino alle rive del mare Adriatico, a est. Le forze del Regio esercito sostennero il loro principale sforzo bellico contro le unità dell'esercito imperiale austro-ungarico, con combattimenti concentrati nel settore delle Dolomiti, dell'Altopiano di Asiago e soprattutto nel Carso. 


Alla vigilia del conflitto bellico, la regione Trentino-Alto Adige, poi interessata da sanguinosi combattimenti, era parte integrante dell´Impero austro-ungarico. Allo scoppio della guerra nel 1914 la popolazione adulta maschile della regione, compresa tra i 21 e i 42 anni, venne chiamata alle armi.  Gli austriaci erano convinti che l´Italia non avrebbe mantenuto a lungo la sua neutralità e che i primi scontri sarebbero avvenuti nella zona della Valle di Ledro, costruendo imponenti opere militari di difesa e sbarramento. A causa della pericolosità della situazione, gli austriaci diedero l´ordine di evacuare tutta la popolazione civile da quei territori. Il 22 maggio del 1915, sulle pareti delle case della popolazione ledrense, venne affissa la Notificazione dell’Imperial Regio Capitano di Riva che ordinava l’evacuazione per tutta la popolazione della Valle, da effettuarsi entro 24 ore. Il 23 maggio del 1915, giorno di Pentecoste, nel giro di poche ore, migliaia di persone, in prevalenza donne, bambini ed anziani, furono costretti a lasciare le loro case e quella che fino a quel momento era stata tutta la loro vita, per una destinazione e un futuro ignoti. Tutto quello che gli fu concesso portare con sé furono un bagaglio e i viveri necessari per alcuni giorni di viaggio. Questo vero e proprio esodo di massa coinvolse in totale circa 75.000 persone che da tutto il Trentino furono spostate nelle regioni interne dell’Impero: Austria, Moravia, Boemia; regioni per loro lontane, di lingue e culture diverse. Di queste persone, 11.400 circa, provenienti in prevalenza dalla valle di Ledro, arrivarono in Boemia. Se si considera che molta di quella gente non era mai prima di allora uscita dalla Valle, si può forse capire il dramma psicologico che gli sfollati dovettero sostenere.
La popolazione venne caricata su camion, treni  e carri e trasportata per giorni lungo centinaia di chilometri in condizioni estreme e, una volta giunta in territorio boemo, distribuita tra le famiglie ceche dei comuni di Buštehrad, Chynava, Doksy, Dřetovice, Nový Knin, Milin, Přibram, Ptice, Svárov, Železná,  Všeň e Stříbro; paesi dai nomi impronunciabili e di cui i trentini non conoscevano la lingua. I ledrensi furono accolti dalla popolazione boema e morava dapprima con curiosità e diffidenza e furono sistemati alla meglio in palestre e scuole trasformate in dormitori, o presso famiglie boeme. La promessa austriaca di una permanenza che doveva durare soltanto poche settimane venne disattesa e gli italiani capirono presto che in quelle terre lontane dalla propria casa sarebbero rimasti per un tempo indefinito e avrebbero dovuto iniziare da capo a costruirsi un’esistenza degna. Così, senza mezzi economici e senza conoscere la lingua locale, i ledrensi dovettero reinventarsi un’esistenza combattendo, almeno all’inizio, contro un insidioso nemico: la fame. I primi tempi furono molto duri anche a causa delle differenze linguistiche che all’inizio impedivano la comunicazione. Molti, per sfuggire alla fame, mangiavano le rane pescate negli stagni e qualsiasi cosa fosse commestibile. Ma poco a poco la diffidenza iniziale della popolazione boema e la differenza linguistica furono superate grazie alla laboriosità e alla modestia degli italiani che da subito cercarono di rendersi produttivi e di guadagnarsi il rispetto e la stima dei cechi, che non tardarono a manifestarsi, forse anche a causa del risentimento che i due popoli provavano contro gli austriaci, il comune oppressore. Successivamente, ai profughi venne assegnato un contributo giornaliero in denaro pari a 70 haler  che scongiurò i problemi più urgenti di sussistenza. Le donne italiane furono impiegate nei campi carenti di manodopera a causa della guerra e, con il loro duro lavoro, si guadagnarono l’affetto e il rispetto della popolazione locale. I bambini furono i primi ad imparare la lingua perché giocavano con i loro coetanei cechi e aiutarono presto i genitori a comunicare con la popolazione locale. Se da una parte il soggiorno boemo fu per i ledrensi un esilio forzato, dall´altra è anche vero che questo esilio si trasformò  in una storia di grande solidarietà e di amicizia che poco a poco nacque tra gli italiani ed i cechi. Nel cuore dei profughi la parola “Boemia” era sinonimo di esilio, ma in quelle lontane terre gli italiani continuarono a mantener vive le proprie tradizioni riuscendo ad integrarsi con la popolazione locale e a stringere con essa sinceri e duraturi rapporti di stima, rispetto e amicizia reciproci.
Nel corso dei mesi, mentre sul fronte italiano infuriava la guerra, in Boemia le donne trentine continuarono ad occuparsi della famiglia, aspettando speranzose il ritorno dei figli e dei mariti dal fronte. Quando l’esercito italiano riuscì ad occupare i paesi della Valle, il 4 novembre del 1918 le ostilità cessarono e il Regio esercito italiano ormai entrato a Trento issò il Tricolore sulle alture fino a poco tempo prima occupate dal nemico. Alla luce della nuova situazione, i profughi, dopo quattro anni in terra boema, poterono far ritorno alla proprie case insieme ai soldati che tornavano dal fronte. Ma se l’arrivo in Boemia era stato traumatico, lo fu altrettanto il doversi separare dagli amati cechi, ormai amici, che avevano permesso ai ledrensi di sopravvivere in quei duri anni. I rapporti di stima ed amicizia allacciati erano destinati a durare per sempre. Al ritorno a casa, i profughi e i soldati superstiti finalmente si ritrovarono: le mogli poterono riabbracciare i loro mariti e le madri i propri figli, ma i paesi nei quali facevano ritorno erano spesso ridotti a un cumulo di macerie, le case scoperchiate, i campi distrutti e disseminati di mine e proiettili inesplosi. Ai ledrensi non restò altro che iniziare nuovamente da capo, con nuova forza e grande dignità, per ricominciare a vivere normalmente.

Negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale i deportati della Valle di Ledro ricordarono spesso, e i loro discendenti ricordano ancora oggi, l’esodo in Boemia con profonda gratitudine nei confronti del popolo ceco, ritornando più volte in quelle località del Centro-Europa in segno di riconoscenza verso quelle popolazioni che li avevano ospitati, alla ricerca dei loro vecchi amici e, contemporaneammente, per visitare nei cimiteri boemi le tombe dei loro cari, deceduti in quelle terre lontane.
Ancora nel 2009, a quasi un secolo dall’esilio nell’attuale Repubblica Ceca è stato siglato, per volontà dell’amministrazione della Valle di Ledro, un gemellaggio in segno di amicizia tra i comuni della Valle e otto comuni cechi, a ricordo di quell’esperienza e in segno di reciproca e perpetua amicizia. In tale occasione é stato pubblicato il libro: “Boemia. L’esodo della Val di Ledro 1915 – 1919”, curato da Dario Colombo, e prodotto un DVD, che narrano nei particolari la vicenda e raccolgono le testimonianze dirette di questa pagina poco conosciuta della storia del nostro Paese.

 
È in questo contesto che la nuova terra in cui si ritrovarono la maggior parte dei ledrensi al termine di quella odissea, la Boemia e la Moravia del Sud, Paesi dove si parlava un idioma a loro incomprensibile, diventò a poco a poco il luogo dove si alimentò la speranza del ritorno e si coltivarono, nel limite del possibile, le proprie tradizioni e la propria cultura. “Boemia” era l’esilio e, negli anni seguiti al ritorno in Valle, “Aver fatto la Boemia” espresse giorno dopo giorno il concetto intero dell’esodo, indipendentemente dal fatto che chi lo avesse espresso fosse stato davvero in Boemia e non a Mitterndorf, a St. Pölten, in Moravia o in altre zone dell’impero e tale fu la forza evocativa di quella parola che non necessitò mai di alcun chiarimento ed anzi, più si allontava negli anni la vicenda reale, più nel ricordo dei sopravvissuti acquistò forza e contenuto. Perché se da un lato l’esodo fu dramma, dolore, in qualche caso anche morte, dall’altro divenne anche una straordinaria storia di solidarietà, d’intraprendenza, di integrazione che permise ancora una volta ai trentini di conquistarsi il rispetto e l’ammirazione delle popolazioni locali, che, dopo la diffidenza ed il rifiuto iniziali, salutarono, anche con le lacrime agli occhi, la partenza degli esuli al momento del ritorno in Italia, avendo altresì costruito e stretto rapporti che sarebbero durati per decenni. Rispetto e ammirazione che furono soprattutto per le donne, le meravigliose donne ledrensi che portarono avanti pressoché sole intere famiglie, mentre padri, fratelli e mariti vestivano l’uniforme dei Kaiserjäger e dei Kaiserschützen sui Carpazi, in Galizia, sul fronte dolomitico.
Non è casuale che la copiosa corrispondenza seguita agli anni dell’esodo tra la Valle e la Boemia sia stata soprattutto corrispondenza tra donne, spesso accomunate dal crudele destino della perdita di un figlio, di un marito, di un fidanzato, di un padre nella terribile carneficina durata quattro anni, ma soprattutto legate da quel filo invisibile ma non per questo meno solido che univa donne che avevano lottato giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, per conquistare o condividere un pezzo di stoffa, un pugno di farina, una coperta. “Aver fatto la Boemia” diventò dunque allegoria per un periodo davvero straordinario della Valle, segno della capacità di superare una prova di quella portata con l’unica risorsa del proprio coraggio, della propria integrità e del proprio lavoro. Un coraggio, un’integrità, un’intraprendenza che vengono prepotentemente alla luce nei diari e nei racconti dei protagonisti, volutamente lasciati al presente proprio in quanto evocatori di valori che ancor oggi fanno parte, devono fare parte, di una comunità. Di tutto questo insieme di ricordi, sensazioni, valori la parola Boemia è sicuramente la sintesi più vera e felice, la parte fondante della spontaneità popolare, che nessuno può permettersi di dimenticare.
 
Patto di Gemellaggio
Noi Sindaci, liberamente eletti dal suffragio dei nostri cittadini, rappresentanti dell‘Unione dei Comuni della Valle di Ledro, composta dai Comuni di:Bezzecca, Concei, Molina di Ledro, Pieve di Ledro, Tiarno di Sopra e Tiarno di Sotto,
e dei Comuni Boemi di:
Buštěhrad, Chyňava, Doksy, Milín, Nový Knín, Příbram, Ptice, Všeň, 
auspichiamo che non si ripetano più guerre come quella tragica avvenuta negli anni 1914 -1918, che ha causato spaventose sofferenze ai cittadini di tutta l’Europa e ha costretto tutta la popolazione della Valle di Ledro ad abbandonare le proprie case e i propri averi e trovare temporanea amorevole ospitalità tra la gente dei Comuni Boemi. Nei cimiteri della Boemia riposano ancora i Ledrensi che laggiù hanno perso la vita e che non hanno potuto ritornare nella propria Valle. Con l’aiuto degli amici Boemi ci impegneremo a ricordarli e a mantenere un decoroso aspetto delle loro tombe.A ricordo di quella dolorosa esperienza, nello spirito della pace, della stima reciproca, della comprensione e dell’ affetto umano dei propri abitanti, le Amministrazioni Comunali della Valle di Ledro e dei Comuni Boemi istituiscono dei rapporti di gemellaggio fortemente auspicati dai nostri concittadini perchè continuino i vincoli di amicizia che sono nati nel corso della prima guerra mondiale tra le nostre popolazioni.A tal fine ci impegneremo a mantenere legami permanenti tra le nostre Comunità e a favorire in ogni campo la cooperazione e gli scambi istituzionali, culturali e sociali (scolastici, sportivi, parrocchiali, delle singole associazioni e di tutti i nostri concittadini) per sviluppare con una migliore comprensione reciproca il sentimento vivo della fraternità europea.Il presente accordo, redatto il lingua italiana e ceca ha durata illimitata e in ogni caso è valido fino a che le parti lo desiderano secondo la manifesta volontà di tutti, è stato sottoposto all´approvazione dei rispettivi Consigli Comunali ed entrerà in vigore dalla data della sottoscrizione.Valle di Ledro, 28 giugno 2008
Viaggi di amicizia in Boemia
Durante il mese  di giugno del 2009 una buona parte della popolazione della Valle di Ledro, mezzo migliaio tra sindaci, assessori comunali, sacerdoti, vigili del fuoco volontari, cooperatori, associazioni culturali, sportive o di volontariato e soprattutto famiglie, partecipò  ad alcuni viaggi in Repubblica Ceca, promossi ed organizzati dall’Unione dei Comuni e dalla Cassa Rurale di Ledro. L’obiettivo fu quello di rivivere le emozioni dei nonni e bisnonni che tanto raccontarono di quelle terre lontane, di quella gente generosa che li aveva aiutati in un momento così tragico della loro esistenza e con cui avevano stretto forti legami di amicizia. A Svatá Hora i ledrensi ebbero l’occasione di partecipare all’inaugurazione di un monumento a ricordo degli oltre 400 profughi della Valle di Ledro che ancora riposano nei cimiteri della Boemia.
E già da alcune settimane, autorità e cittadini italiani e cechi stanno preparando nuovi viaggi di amicizia e fratellanza volti a ricordare la ricorrenza del 4 novembre 2018, data che segna il centenario della vittoria italiana e della fine della Prima guerra mondiale.
 
Beniamino Colnaghi

mercoledì 25 ottobre 2017

Martin Luther. Dopo cinque secoli sono ancora attuali le sue tesi?

Il 31 ottobre 1517, cinque secoli fa, Martin Luther (Lutero) affisse sulla porta della Schlosskirche del castello di Wittenberg (Germania) le sue 95 tesi contro la pratica delle indulgenze. Martin Luther (Eisleben, 1483 – 1546) aveva 34 anni. Il monaco tedesco, con l’affissione delle sue tesi, cambiò il volto della Chiesa e la vita di milioni di persone. Il suo gesto cambiò anche la cultura, la società e la storia dei tedeschi. E quindi dell’Europa intera. Con la diffusione delle sue tesi, infatti, la Cristianità si spaccò in due: al Nord le chiese riformate di Lutero, e poi di Calvino, al Sud i cattolici fedeli all’infallibilità del papa e della gerarchia della Chiesa apostolica e romana. Tutto ciò che fino ad allora il cristiano aveva creduto, sperato o temuto venne messo in dubbio dalla protesta di Lutero. Certo, l’invenzione della stampa ad opera di Gutenberg diede l’impulso decisivo alla diffusione della Riforma luterana, ma le tesi di Luther furono senza ombra di dubbio “rivoluzionarie”. Quella del monaco tedesco fu una dieta radicale contro una Chiesa romana sempre più grassa e corrotta e contro la fame compulsiva di potere e denaro.
Martin Luther in un ritratto di Lucas Cranach (1529)

Un’altra grande intuizione di Luther fu la traduzione della Bibbia in tedesco, che ebbe una larghissima diffusione in Germania, tanto che generazioni di tedeschi impararono a leggere su quel testo e il tedesco di Lutero è l’impronta più profonda nella grammatica dell’anima tedesca. Non si possono comprendere i tedeschi senza i secoli di biblicismo interiore dell’etica luterana. Dal 1517 in poi nell’Europa del Nord la religione diventa un modo più rigoroso per gestire i debiti con Dio. L’operazione di Luther, e soprattutto dei calvinisti, di annullare lo spazio del Purgatorio per radicarlo nella vita terrena contribuisce alla spaccatura tra Nord e Sud dell’Europa, che comprende, tra l’altro, la cultura, le regole della vita e l’etica del lavoro.  
Contro la trasformazione dei peccati in oro, con la salvezza dell’anima dei fedeli, contro cui si scaglia Martin Luther, basti vedere la lingua di Sant’Antonio nella basilica di Padova: il culto della reliquia si basa sulla magia dell’incarnazione del Verbo in una lingua. Dalla Riforma luterana spariscono dalle chiese protestanti non solo le immagini di Maria, ma anche le reliquie, passaggi decisivi per capire l’essenza del cristianesimo e delle sue confessioni.

domenica 1 ottobre 2017

Le case di ringhiera, edifici tipici del Nord Italia, e la storia di un ombrello nero

Il ricordo più nitido che ho riguardo le case di ringhiera nasce e si sviluppa nel palazzo dove abitava la sorella di mio nonno, a Cinisello Balsamo.  Del ricordo sono parte integrante un ombrello nero, di tela, come usavano una volta, e lo sguardo di rimprovero di mio padre.
Prima di arrivare all’ombrello nero, però, devo fare un salto indietro di oltre mezzo secolo e spiegare brevemente gli antefatti.
I miei bisnonni materni, Natale Scotti (1864) e Teresa Airoldi (1868), nacquero entrambi a Porto d’Adda, allora provincia di Milano, e lì risiedettero fino alla loro morte. Ebbero quattro figli: mio nonno Giuseppe nel 1899 e tre femmine, Rosa, Giovanna e Angelina. Rosa rimase “zitella” e ben presto lasciò il paese per andare a servizio presso una famiglia della borghesia milanese. Giovanna morì abbastanza giovane mentre Angelina, l’ultimogenita, prese marito a Cinisello Balsamo, da poco unificato a causa della politica del regime fascista in tema di accorpamento forzato dei comuni.
La nuova famiglia si stabilì in un quartiere costruito nei primi anni del secolo scorso da una cooperativa edilizia locale. Gran parte del quartiere era formato pressoché da palazzi di tre-quattro piani dotati del cortile interno condominiale, sul quale si affacciavano tutte le unità immobiliari, che condividevano la stessa ringhiera, o ballatoio. In buona sostanza la porta di ingresso di ogni unità abitativa si trovava su un unico e lungo ballatoio comune che correva lungo tutto il piano, interrotto solamente dall’accesso alla rampa delle scale. Spesso le case avevano nel cortile un altarino, una piccola edicola votiva o un affresco dedicati alla Madonna o a qualche santo prediletto. Durante la festa patronale i segni della religiosità popolare e della fede erano più illuminati del solito e lungo le ringhiere si stendevano le sandaline e le ghirlande di fiori di carta.



Le case a ringhiera rappresentavano un vero e proprio modello abitativo, non solo architettonico, ma anche un modello sociale di relazioni, perché lì i numerosi bambini si ritrovavano a giocare tutti insieme, i giovani s’innamoravano lungo i ballatoi, gli uomini si scambiavano le vicissitudini della vita e le esperienze della fabbrica, le donne “esportavano” il lavoro della casa, tra rammendi, mastelli e secchi per il bucato. Si condivideva tutto in quegli edifici, dalle chiacchiere delle donne anziane alle liti tra coniugi ai rumori dei primi elettrodomestici che facevano capolino nella società italiana che stava pian piano rialzando la testa dopo oltre un ventennio di dittatura fascista e di guerra. 
Le case di ringhiera erano presenti un po’ in tutte le città del Nord Italia. Milano e il suo hinterland ne erano pieni. Non riguardavano solamente le case popolari, ma a Milano anche alcuni palazzi della piccola e media borghesia ne erano adorni.
V’erano infatti ringhiere e ringhiere.  
V’erano quelle dei fatiscenti palazzi di Porta Ticinese, di piazza Vetra, di alcune vie che si affacciavano sui navigli che si aprivano su abitazioni di un solo locale, dove spesso si annidavano personaggi furtivi o sbandati. V’erano le ringhiere popolose e chiassose delle case di Porta Comasina, di Porta Vittoria, di Corso Garibaldi e di altri rioni milanesi dove viveva un popolo laborioso, composto, per la maggior parte, da operai delle officine e delle grandi fabbriche di Milano e del suo hinterland. V’erano poi le ringhiere delle case del centro, normalmente più ordinate, più pulite, spesso trasformate in piccoli giardini, con i gerani e altri fiori riposti nelle fioriere e i rampicanti che formavano deliziosi pergolati. Su queste ringhiere di case borghesi si aprivano non più di tre o quattro appartamenti per ogni piano, senza che ciò, tuttavia, togliesse socialità e vicinanza tra le famiglie residenti.  
La ringhiera, nella maggior parte dei casi, avvicinava, affratellava più d’ogni altro mezzo moderno di convivenza sociale. Sui ballatoi si organizzavano gite e scampagnate, gare di bocce e tornei di carte, feste e matrimoni. In quei tempi, la ringhiera era uno dei luoghi, parimenti al circolo, all’oratorio, all’osteria dove si “produceva” socialità. Certo, i pettegolezzi erano all’ordine del giorno, qualche vecchia ruggine o beghe di cortile potevano creare piccole tensioni e malumori ma la “filosofia” di quelle case tendeva poi a riappacificare, unire, creare le condizioni per sanare i contrasti.

Dopo aver cercato di spiegare come erano strutturate le case di ringhiera e quale fosse il modello sociale che in esse regnava, vorrei ritornare alle ringhiere del palazzo di Cinisello Balsamo, ove viveva la sorella di mio nonno. E all’ombrello nero.
Nei primi anni Sessanta capitava spesso che i miei genitori mi portassero a far visita ai miei nonni materni, nel frattempo trasferitisi da Porto d’Adda a Milano, e alle due zie di mia madre. Allora la famiglia “allargata” era una realtà forte e le relazioni tra i miei parenti erano buone. L’occasione per far visita alla zia Angelina, rimasta vedova da pochi mesi, fu l’avvicinarsi della ricorrenza dei defunti e la doverosa visita al cimitero di Balsamo, ove era stato sepolto il corpo dello zio Luigi, Luisin per i parenti. Era una domenica di fine ottobre. Grigia, triste, piovigginosa. Mio zio parcheggiò la Fiat 600 bianca sulla via e tutti insieme ci dirigemmo verso il portone del palazzo a ringhiera, cominciando a salire le scale che conducevano al terzo piano. Ciò che per anni rimase nella mia mente di bambino nato e vissuto in un piccolo paese brianzolo fu l’impatto con il contesto abitativo e urbano che mi circondava. Palazzi alti, fitti, che si rincorrevano uno dopo l’altro, incroci di strade, gente che sembrava sempre indaffarata. Tutto ciò mi incuriosiva e, nello stesso tempo, mi rendeva abbastanza insofferente. Molto probabilmente fu con questo stato d’animo che mi approcciai a far visita alla zia Angelina. Dalla zia Rosa ricordo che ci andavo più volentieri, per via del fatto che, sopra una credenza del salotto buono, arredato con mobili d’epoca, argenteria e soprammobili di pregio, erano posti dei vasi di vetro finemente decorati, colmi di piccoli confettini bianchi ripieni di rosolio, caramelle alla liquirizia e zuccherini colorati all’anice, che mi venivano regolarmente offerti. La zia Angelina, invece, aveva il braccino più corto e, se andava bene, mi toccavano dei biscottini con il tè.
Dopo i saluti di rito e gli sbaciucchiamenti della zia e delle cugine chiesi a mia madre di poter uscire sul ballatoio. “Sì, ma non sporgerti dalla ringhiera, può essere pericoloso… e rimani qui sul piano”, ammonì mio padre. Appena fuori cominciai a correre lungo gli stretti ballatoi, da un capo all’altro del palazzo. Incrociai il vano scale e subito fui colto dall’istinto di salire le scale fino al quarto piano, l’ultimo, il più alto. Non c’ero mai stato. Con sguardo furtivo diedi un’occhiata alla porta della casa della zia e, sentendo che i miei parenti discutevano amabilmente al suo interno, cominciai a salire le due rampe di scale. Al piano superiore, nella zona centrale della ringhiera, sapevo che abitavano due vecchie signore, anch’esse vedove, amiche della zia Angelina: la Rusèta (Rosa, Rosetta…) e la Teresina.
Causa la giornata di pioggia, la Rosetta aveva lasciato appeso sul corrimano della ringhiera il suo ombrello nero, grande, massiccio, con il manico di legno, come usava in quel tempo.
Erano già ormai diversi minuti che gironzolavo sui ballatori e per timore che mio padre mi stesse cercando feci per allontanarmi dalla casa della Rosetta e scendere al piano di sotto, quando mi venne in mente che avrei potuto fare qualcosa con quell’ombrello. Ritornai sui miei passi, raggiunsi l’ombrello, lo afferrai e, in una frazione di secondo, decisi che lo avrei lanciato giù in cortile. Un volo di quattro piani. Non avevo mai visto cadere un oggetto da un’altezza simile, neanche dal palazzo dove abitavano i miei nonni a Milano, che di piani ne aveva cinque. Detto, fatto. Ovviamente l’ombrello si sfracellò al suolo, il manico di legno si ruppe in alcuni pezzi e la maggior parte delle bacchettine metalliche si piegarono. Il botto richiamò l’attenzione di alcuni residenti del primo piano che, guardando verso l’alto, scorsero un bambinetto di 6 anni dalla testa ricciuta, che, colta al volo la mala parata, cominciò a correre giù dalle scale e dirigersi verso la casa della zia Angelina. Entrai un po’ trafelato e mi misi a sedere vicino a mia madre, temendo le conseguenze del mio gesto. Della Rosetta, ma soprattutto di mio padre. Non erano trascorsi più di un paio di minuti quando dal cortile si levò una voce femminile che invitava la zia Angelina a scendere. Ven giò un moment. Ma il vociare dal cortile e il trambusto che si era nel frattempo levato attirarono i miei parenti sul ballatoio, compresi i miei genitori, che ci misero davvero poco a comprendere la dinamica dell’accaduto e a individuare il responsabile. Che venne “salvato” dalla bontà cristiana della Rusèta, la quale, in buona sostanza, mi definì piccolo pargoletto innocente del Signore e che simili gesti potevano essere perdonati ad un angioletto di sei anni. Mio padre, con la faccia scura e lo sguardo severo, dopo essersi scusato con la Rosetta, si impegnò a comprarle un ombrello nuovo. Però, precisò la vecchietta, al voeri ner col manic de legn.

Beniamino Colnaghi

sabato 16 settembre 2017

Giornate Europee del Patrimonio
Domenica 24 settembre 2017 ore 15.00
Museo Etnografico dell’Alta Brianza, Località Camporeso, Galbiate
 
 Diventare grandi: giovani antropologi alla prova
con Marco Aime, Daniela Ferrario, Rosalba Negri
Una ricerca sui cambiamenti e i riti di passaggio nelle vite di ieri e di oggi
 
L’antropologo accademico, la studiosa del MEAB e l’insegnante con i suoi studenti
ne commentano le premesse e i risultati.
 
Info:  MEAB tel. 0341.240193
Parco Monte Barro tel. 0341.542266    http://meab.parcobarro.it/
 

lunedì 11 settembre 2017

Verderio: la Madonna dell'aiuto è riapparsa


Aprendo il collegamento che segue si possono leggere alcune notizie storiche sull'affresco da poco riapparso nell'edicola di via Principale: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2015/12/verderio-la-madonna-dellaiuto-da-alcune.html

domenica 10 settembre 2017

Folco Terzani
 
"Io uso il computer ogni giorno ma non ho la più pallida idea di come funzioni, l'aeroplano non so come faccia a volare, l'iPod a ricordarsi tutta quella musica o l'economia a fluttuare.
Sono circondato da meccanismi che non capisco.
Fra i sadhu invece ho riscoperto la bellezza degli elementi - l'acqua, la terra, il fuoco, l'aria.
Mi sono sentito felice camminando sulla terra, facendo il bagno nei fiumi freddi dell'Himalaya, stando accucciato accanto alle fiamme di un fuoco, respirando spazio."
Folco Terzani, A piedi nudi sulla terra, Mondadori 
 
 

lunedì 4 settembre 2017

La via Francigena nei magnifici territori della provincia di Siena

Visitare Siena, inoltrarsi tra le colline della sua provincia e ammirare le principali testimonianze architettoniche, artistiche e paesaggistiche presenti sul territorio implica necessariamente il fatto di occuparsi di una strada medievale i cui apporti culturali ed economici furono significativi per Siena e il suo territorio. Il passaggio della Francigena nel senese, infatti, e delle sue varianti, sia immediatamente tangenti o limitrofe ai territori dei comuni sia integrate con il sistema della viabilità locale, generò la nascita ed il successivo forte sviluppo di diverse tipologie di strutture assistenziali, umanitarie e commerciali ad essa funzionali e collegate.
Prima del Giubileo dell´anno 2000 si fece un gran parlare, molto spesso a sproposito e con diverse deformazioni, della via Francigena. Ma la strada in questione non può essere equiparata ad una via consolare romana, come ad esempio la via Emilia o la via Aurelia, o, ai giorni nostri, ad un‘autostrada. Nel Medioevo non esisteva un‘autorità che avesse il potere o fosse in grado di costruire percorsi sovraregionali, come fu possibile per l´Impero romano. Quindi, partendo da questo assunto, si può affermare che non è mai esistita una via Francigena a lunga percorrenza che unisse Roma al Nord Europa. Ci furono invece diverse varianti e possibilità, come attestano alcuni documenti medievali, che citano occasionalmente una via o strada francigena, o francisca, o romea. Come accennato, le possibili varianti furono molteplici. Come quella percorsa dall´arcivescovo di Canterbury, Sigerico che, tra il 990 e il 994, superò le Alpi al Gran San Bernardo e attraversò la Manica non lontano da Calais. Oppure, due secoli dopo, il viaggio del re di Francia, Filippo Augusto, che, di ritorno in patria dalla Terra Santa, percorse itinerari diversi in Toscana e superò le Alpi al Moncenisio.
Relativamente alle origini della via Francigena, questo itinerario comincia ad essere documentato nella prima metà dell´VIII secolo ma, se ci limitassimo al tratto italiano, dovremmo precisare che il percorso comincia a definirsi con i Longobardi che, per recarsi nella Tuscia e scendere nei loro possedimenti meridionali passavano per l´Alpem Bardonis, Monte Bardone, cioè da quel passo che in seguito sarà detto della Cisa. Per i Longobardi questa strada ebbe un forte peso strategico perchè in Toscana permetteva un percorso intermedio tra la costa, soggetta ad attacchi dal mare, e i territori orientali controllati dall´Esarcato. La via che superava il Monte Bardone mantenne grande importanza  anche con l´avvento dei Franchi, tanto che da questi in qualche maniera prese il nome. Sulla via Francigena si viaggiava prevalentemente a piedi. Solo i piú abbienti potevano permettersi il lusso di una cavalcatura mentre le merci venivano trasportate con animali da soma. Le strade medievali erano spesso tortuose e ripide e i selciati erano malridotti e i ponti stretti e insicuri. Per meglio comprendere, in maniera eloquente, la struttura della via Francigena e chi fossero i suoi utenti, basti osservare gli affreschi del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, contenuti nel Palazzo Pubblico di Siena. Sul tratto senese della strada si notano i signori a cavallo con il falcone e il seguito dei servi, ma anche il mercante con il mulo, il contadino che porta in cittá il porco, il pellegrino ed anche il povero che chiede l´elemosina. Le difficoltà e la lentezza del viaggio rendevano necessaria la presenza di numerosi ospizi, secondo il principio cristiano dell´aiuto al prossimo, bisognoso di assistenza materiale e spirituale. Nel senese furono decine e decine gli ospizi documentati presenti sulla Francigena. Una trentina nella sola Siena. L‘ospitalità era offerta anche da istituzioni religiose quali monasteri, pievi, canoniche. Successivamente si diffuse un‘ospitalità che oggi potremmo definire laica, a pagamento, quale quella delle taverne, delle osterie, delle terme, la cui conduzione vide spesso impegnate intere famiglie.
Entrando ora nel merito dei percorsi della strada che interessano i comuni senesi, con le eccezioni di Volterra (provincia di Pisa) e Cortona (provincia di Arezzo), che ho ritenuto di visitare per la loro storia e bellezza, dopo essersi infilata in Lunigiana ed aver toccato Lucca, la Francigena si avvicina ad un passaggio che intorno all’anno Mille era tra i più temuti: la piana del Serchio, i boschi delle Cerbaie, i paduli di Porcari e di Fucecchio, aree paludose oggi bonificate, l’Aqua nigra menzionata da Sigerico. Il passaggio dell’Arno lo si vede scorrere da un solido  ponte in muratura e se si alza lo sguardo dagli argini già si vede svettare la torre di San Miniato, roccaforte imperiale a controllo della strada. Oltre quel crinale si distende il mare ondulato delle colline toscane. Orizzonti vastissimi si aprono dal crinale che si affaccia sulla Val d´Elsa, dove si cammina seguendo fedelmente le orme dell’arcivescovo Sigerico. I viandanti si ritrovano immersi nella solitudine dei campi di grano, contemplando paesi lontani: Castelfiorentino, Gambassi Terme, Certaldo, una costellazione di borghi sui crinali, i casali, le pievi romaniche tra gli ulivi e i cipressi, poco più a sud, si cominciano a intravedere le magnifiche torri di San Gimignano, ricordato fin dal X secolo come castello di pertinenza della Chiesa volterrana. Due secoli più tardi la comunitá di San Gimignano si staccò progressivamente dal dominio politico di Volterra, avviando la formazione di un proprio distretto. Tra varie difficoltà e apposizioni di ostacoli da parte di Firenze e Siena, nei primi anni del Trecento la città fu teatro di una grande espansione mercantile e di operazioni finanziarie di ampio raggio che, però, non ressero a lungo alla forte pressione e ingerenza fiorentina e alla grave crisi internazionale che iniziò verso la metà del Trecento. La crescita urbana della città ebbe un arresto definitivo. Ma l‘immobilismo dei secoli e drastiche operazioni di tutela del patrimonio monumentale hanno creato le premesse per la fortuna di oggi, tanto da poterci consentire di ammirare una cittá che ha pochi eguali al mondo.


San Gimignano

Poc‘anzi ho accennato al fatto che Volterra meriti senz‘altro una visita, in primis per la sua bellezza e per la vicinanza a San Gimignano, e poi perchè essa, seppur non interessata direttamente dal passaggio della Francigena, estese storicamente il suo territorio e il dominio proprio su zone oggi appartenenti alla provincia di Siena.

Volterra

Il percorso della Francigena descritto da Sigerico poco più a sud di San Gimignamo entra nel territorio comunale di Colle di Val d´Elsa, la quale si vide certamente favorita e beneficiata da tale passaggio, sia dal punto di vista dello sviluppo economico sia dall‘incremento demografico. Nel corso del Medioevo Colle mantenne dapprima una politica di equilibrio tra le due città egemoni della Toscana, Siena e Firenze, per poi avvicinarsi sempre più a quest´ultima. Numerosi sono i monumenti di un certo interesse presenti sul suo territorio, soprattutto a Colle Alto, sviluppatosi lungo la sottile cresta di una scoscesa collina.
L´estremitá sud-occidentale del comune di Castellina in Chianti era interessata da un percorso della Francigena proveniente da Poggibonsi che correva sulla destra del torrente Staggia, il quale vedeva la presenza di alcuni ospizi. Nei primi anni del Duecento il territorio di Castellina entrò a far parte anch‘esso dell‘influenza di Firenze, assumendo un ruolo importante nel sistema difensivo del confine meridionale, in contrapposizione al castello senese di Monteriggioni. Alla metà dello stesso secolo fu posta a capo di uno dei terzieri che formavano la Lega del Chianti. Situata sulla cresta di una collina, in posizione panoramica a dominio delle valli della Pesa, dell‘Arbia e dell‘Elsa, Castellina venne fortificata e potenziata, ad opera dei Fiorentini, nella cinta muraria, con torri mozzate a pianta quadrata.
 
 Castellina in Chianti
Se Castellina ebbe il compito di difendere da sud il contado fiorentino, Monteriggioni nacque come baluardo della frontiera a nord dello Stato senese. Tutti i percorsi della Francigena a nord di Siena confluivano nell´attuale circoscrizione comunale, per poi unirsi poco prima di raggiungere la città. Il tratto della Francigena che raggiunge Monteriggioni, proveniente da San Gimignano e Colle Val d´Elsa, è senza alcun dubbio di grande bellezza paesaggistica e particolarmente ricco di testimonianze storiche e architettoniche. Monteriggioni, celebre per via della cinta muraria circolare, con quattordici torri quadrilatere, presenta un asse viario principale  alle cui estremità si aprono due porte. Al centro è una vasta piazza su cui si affaccia la pieve di Santa Maria, di forme romanico-gotiche.       


Monteriggioni

Pochi chilometri di percorrenza verso sud ed eccoci a Siena, punto importante di convergenza dei vari percorsi francigeni. Siena, la colonia romana Sena Julia, emblema della via Francigena e una delle maggiori cittá del Medioevo, la cui fortuna e prosperità fu gran parte legata alla via stessa, che vi entrava a nord da Porta Camollia e usciva a sud da Porta Romana, quella raffigurata dal Lorenzetti nel Buon Governo. Le torri, piazza del Campo, il Duomo e l´inconfondibile profilo della cittá accompagnavano a lungo i viandanti e i pellegrini mentre si dirigevano verso Roma, inoltrandosi in un percorso più netto, anche se vi potevano essere delle varianti. Due di queste si dirigevano, l‘una verso Isola d‘Arbia, Monteroni, Lucignano d‘Arbia, Buonconvento e giù giù fino a San Quirico d‘Orcia, punti fissi della Francigena, l‘altra verso Taverne d‘Arbia, Vescona e Asciano, nel cuore delle Crete Senesi, una via bellissima, tutta di crinale, tra panorami immensi e dolcissime colline di argilla coltivate a grano.  


Siena
 
Da Asciano, volendo ricongiungersi con la Francigena in direzione Buonconvento, come un‘oasi nel deserto, racchiusa entro il verde immenso di un bosco di cipressi, improvvisamente appare Monte Oliveto, grande monastero fondato nel 1319 per iniziativa di alcuni nobili senesi che in questo luogo si erano da tempo ritirati a vita eremitica. In seguito divenne il centro di un‘importante e vasta congregazione religiosa. Tutt‘ora è sede di una numerosa congregazione di monaci benedettini.  


Abbazia di Monte Oliveto Maggiore

Superato Buonconvento verso sud, solo l´estremo lembo nord-orientale del territorio di Montalcino è interessanto dal passaggio della Francigena. Comune autonomo dalla fine del XII secolo lottò per tutto il Duecento a difesa della sua indipendenza contro le mire espansionistiche di Siena, che ebbe la meglio nel secolo successivo. L‘importanza della città nell‘età medievale è testimoniata da numerosi monumenti, tra i quali la Rocca, il Palazzo Comunale, il Duomo e numerose chiese.
La strada che da Montalcino porta a San Quirico d´Orcia offre belle vedute sulle dolci colline delle valli dell‘Asso e dell‘Orcia, con squarci di paesaggio tra i più fotografii della Toscana. Sede di una pieve ricordata fin dall‘età longobarda, il castello di San Quirico assunse notevole importanza nel corso del XII secolo, quando divenne residenza dei funzionari dell‘Impero. Quale ultimo grande castello prima di uno dei tratti più insicuri dell‘intero percorso, San Quirico, sede di numerosi ospizi per pellegrini e viandanti, costituì una delle principali tappe lungo la strada. La stessa struttura urbana si è in gran parte sviluppata lungo la Francigena, da Porta Camaldoli a Porta Ferrea, oggi entrambe scomparse. Da ricordare che nel 1154 Federico Barbarossa stabilì qui il proprio accampamento per trattare con i messaggeri di Papa Adriano IV i termini della propria investitura ad imperatore. Anche in epoca moderna San Quirico ha visto passare tra le sue mura principi e imperatori, religiosi, eserciti e pellegrini, tra i quali i papi Pio VI e Pio VII, quest‘ultimo mentre si recava a Parigi per l‘incoronazione di Napoleone Bonaparte.   
San Quirico d'Orcia

Ad est di quest‘ultima località troviamo due importanti città della provincia senese, Pienza e Montepulciano. La prima, molto vicina al passaggio principale della Francigena deve il suo nome e la sua fama a Enea Silvio Piccolomini, Papa Pio II, che nel 1459 concepì l‘idea di sperimentare i nuovi sentimenti e i nuovi ideali estetici dell´Umanesimo nel castello di Corsignano, dove lui stesso ebbe i natali. Nel giro di pochi anni elevò il castello a sede episcopale, ne cambiò il nome, obbligò i cardinali al suo seguito a costruirvi proprie residenze e dette l´incarico al Rossellino di mettere a punto il progetto, che si fermò alla morte di Pio II. Fulcro estetico ed urbanistico del grande progetto è piazza Pio II, dalla singulare forma trapezoidale, con il Duomo, dalla facciata rinascimentale in travertino, e i palazzi che la circondano, tra i quali il Palazzo Piccolomini, il Palazzo Pubblico e il Palazzo Borgia.

Pienza

Montepulciano, anche se distante una ventina di chilometri dalla Francigena, merita senz´altro una visita. Per rendersi conto della bellezza e della storia della città, basti iniziare la visita dalla piazza Grande, centro monumentale ed insieme alla Rocca elemento emergente del suo impianto insediativo. L’architettura degli edifici attuali risale al rinnovamento prodottosi in città nei secoli XV e XVI e mostra gli influssi delle correnti culturali del Rinascimento fiorentino e romano. Il Palazzo Comunale, Palazzo Contucci Del Monte, il Duomo e il pozzo meritano particolare attenzione. E poi conviene percorrere le diverse stradine che contengono numerosi segni e testimonianze della gloriosa storia di Montepulciano.   


Montepulciano

A sud di  San Quirico ai viandanti si aprivano piú possibilitá per superare il monte Amiata, al fine di dirigersi verso Radicofani, Piancastagnaio a sud-ovest e San Casciano dei Bagni a sud-est. A sud di questi tre comuni, in localitá Ponte del Rigo, confluivano tutti i percorsi di quel fascio di strade che caratterizzava l´andamento della Francigena tra la Val d´Orcia e l´ingresso nel Patrimonio di San Pietro, cosí come oggi segna il confine tra la Toscana e il Lazio. Da qui passava il piú antico percorso della strada, quello di fondovalle, attestato dall´arcivescovo Sigerico e rimasto in uso fino alla fine del Cinquecento.
Qui la via Francigena entra nel Lazio e prosegue verso Roma. E qui termina il mio viaggio.        

Beniamino Colnaghi

Note e bibliografia
Le fotografie che corredano l’articolo sono state scattate nel mese di giugno 2017
I percorsi della via Francigena nelle terre di Siena, prodotto dalla Provincia di Siena, edizione 2003, Editrice Le Balze, Montepulciano
Via Francigena, sito ufficiale: http://www.viefrancigene.org/it/
Via Francigena, Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Via_Francigena