domenica 22 marzo 2020

Il volontariato

di Livia Colnaghi

Livia Colnaghi il 9 aprile avrebbe compiuto 97 anni. Se ne è andata qualche giorno prima. Una donna dal carattere forte e combattivo, Livia, fiera, solidale e molto legata alle sue radici, alla sua famiglia e al paese ove nacque, nel 1923. Le piaceva leggere, documentarsi, approfondire i fatti, scrivere poesie, brani e racconti tratti dall’esperienza della sua lunga vita. Ricordo con piacere ed emozione quando, a casa sua, di fronte ad una tazza di caffè, mi raccontava, lucidamente e appassionatamente, pezzi della storia della sua vita e delle vicissitudini della “nostra” famiglia (mio nonno Beniamino era il fratello di suo padre Giuseppe), durante gli anni bui del fascismo e della guerra, dei soprusi, della fatica e delle privazioni a cui  i contadini e gli operai erano costretti per mandare avanti la famiglia.
Qualche anno fa mi diede alcuni sui scritti, che puntualmente ho pubblicato su questo blog. “Il volontariato” è  l’ultimo in mio possesso. Lo pubblico ora in suo ricordo. (b.c.)

Il volontariato è un settore molto importante della società, animato dall’impegnativo lavoro dei volontari, attività che lascia poco spazio all’improvvisazione ma che richiede preparazione, attitudine, dedizione, pazienza e spiccate competenze comunicative.
Riconosciuto dalla comunità e apprezzato per il ruolo che occupa, il volontario procede con coraggio, animato da spirito di forza e di volontà. Ed è una persona vitale, operosa, che si sente felice di lavorare per coloro che hanno bisogno di aiuto: non vuole essere felice da solo, al contrario si sente soddisfatto nel dare agli altri un po’ di sé stesso.
Il volontario parla di bontà, sa essere sereno in ogni circostanza, regala un sorriso alle creature che incontra; riconosce il valore del sorriso, sa che è il preludio di un dolce viso, ricorda che arricchisce chi lo riceve, senza impoverire chi lo dona, si accorge che non dura un istante e che il suo valore è eterno, sente che dà forza e consolazione a ogni pena e impara ogni giorno che è un rimedio naturale d’amore per chi soffre.
Rafforza la propria vitalità con la sua opera, sostenuta e rafforzata dal senso del vivere bene, il suo lavoro è d’esempio a sviluppare la propria capacità di cambiamento e a impegnare risorse personali verso il cambiamento collettivo.
Fare volontariato dovrebbe innalzarsi a valore sociale e condiviso: ad ogni età, animato da buon cuore, si potrebbe sostenere la solitudine e l’emarginazione, rendere disponibili le proprie risorse a chi necessita e di sostegno alle normali attività quotidiane, come essere accompagnati negli spostamenti dalla propria casa verso l’ospedale per poter fare le visite e gli esami.
Sentendosi sempre pronto e disponibile nel servizio agli altri, da un aiuto per piccoli problemi quotidiani a chi non ha le risorse per affrontarli, da forza al morale, crea atmosfere di serenità e lo fa discretamente, senza spettacolarizzazione, ma con grande, sorridente soddisfazione interiore.
La cosa più bella del volontariato, oltre naturalmente al servizio offerto, è il senso di appartenenza e di condivisione che si instaura fra i volontari di tutte le età e classi sociali. Questi impegni creano gruppo, squadre, famiglia, comunità.
Ad oggi, nella Regione Lombardia, il vento ha soffiato forte lanciando voce a persone di buon cuore, chiamandole a partecipare con impegno e sacrificio al servizio del volontariato, fornendo soluzioni di solidarietà nella prospettiva della democrazia sociale.
Il mio augurio e il desiderio di questo mio scritto è di far riflettere sulle molteplici attività di volontariato, alle quali ognuno di noi potrebbe partecipare attivamente, portando un po’ di sé come sa fare… sarebbe bello che ognuno di noi si muovesse per ottenere informazioni più specifiche sulle diverse attività erogate, che conoscesse la realtà del territorio, i centri, le associazioni e che incontrasse altri modi di vivere, difficoltà oggettive e sofferenze soggettive, paure, coraggio, gioia, speranza e fede.
 
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sabato 14 marzo 2020

"Si muore soli. Il virus ci impone di rinunciare al culto dei morti"

Intervista al monaco e tanatologo Guidalberto Bormolini: “Stiamo rinunciando a due momenti che sono costitutivi della civiltà umana: l’accompagnamento alla morte e il rito funebre. Ma si resta umani solo riscoprendo il bene comune"

di Giulia Belardelli, giornalista HuffPost, 13.03.2020

In questi giorni sempre più spesso negli ospedali si muore soli, con o senza coronavirus, a causa delle stringenti regole giustamente imposte per contenere la diffusione del virus. E per legge, almeno fino al 3 aprile, si viene sepolti quasi da soli: i funerali sono vietati, è concessa solo una breve benedizione o un saluto laico, poche persone direttamente al cimitero. Se ne sono andati così gli oltre mille morti affetti da Covid-19, e con loro gli “altri”: persone il cui fine vita, per età o accidente, ha incrociato la Grande Storia della pandemia. D’un tratto la morte si è impossessata dei telegiornali, ha invaso i social network. L’attesa per il bollettino delle 18 della Protezione civile – quello sperare con tutte le forze che il numero s’abbassi - è diventato il nostro rito collettivo, un contatto comune con la morte.
È un contatto che in questo tempo solitario e sospeso sta probabilmente scavando in molti di noi. Ne abbiamo parlato con Guidalberto Bormolini: monaco, antropologo, tanatologo, docente al Master End of Life dell’Università di Padova, fondatore della prima scuola in Europa per l’assistenza spirituale non confessionale al fine vita nella malattia grave, a Prato. Qui – ci racconta - si sono formati alcuni medici e infermieri che in queste ore sono in prima fila nella lotta al virus. Un virus che ha colpito direttamente anche la sua famiglia.
 “Mio zio è morto a Brescia per il virus e per ore non veniva nessuno ad accertare la morte, nemmeno il medico legale. Ho dovuto avvertire io mio padre che suo fratello era morto e la prima cosa che mi ha chiesto è stata ‘e col funerale come facciamo?’ Questo perché la socializzazione del lutto è uno strumento fondamentale che in questo momento ci viene meno”.
Presso la vostra scuola si sono formate centinaia di medici e infermieri che si occupano della relazione di cura, in particolar modo nel fine vita. Molti di questi sono impegnati in prima fila nelle zone più colpite dal coronavirus. Li sta sentendo in queste ore?
“Passiamo giornate intere a confortare persone che ci chiamano dal Lodigiano, da Brescia, da Milano, dal Cremasco... Sono medici e infermieri che si trovano di fronte a quesiti morali e spirituali drammatici. Sono le storie di cui abbiamo letto in questi giorni: criteri da applicare in terapia intensiva, scelte da prendere. Sono situazioni drammatiche vissute in condizioni estenuanti. Purtroppo abbiamo pochi strumenti di conforto, se non quelli virtuali, che sono un salvagente ma non possono essere paragonati alla presenza, all’esserci”.
Qual è il costo emotivo e morale di questa pandemia?
“Il virus ci sta costringendo a rinunciare a due momenti che sono costitutivi della civiltà umana: l’accompagnamento alla morte e il rito funebre. La pandemia non ci nega solo il funerale, ma anche il momento prima della morte, i saluti, che sono molto importanti. L’aspetto terribile è che le persone muoiono in isolamento: non si può accompagnare il proprio caro, negli ospedali non possono entrare altre persone. Se anche la patologia non è il coronavirus, c’è una fortissima limitazione negli ingressi agli ospedali. Quindi si muore da soli e si è sepolti quasi da soli. È il contrario di ciò che è sano antropologicamente”.
Cosa è “antropologicamente sano”? Si è mai verificata nella storia moderna una circostanza simile, il divieto di salutare collettivamente i propri cari?
“Questa pandemia ci priva di un aspetto antropologicamente costitutivo della nostra civiltà, che è il culto dei morti. La civiltà inizia con la sepoltura dei cadaveri, che è il segno della fiducia in una vita ultraterrena. Non per nulla i cadaveri venivano sepolti in posizione fetale o colorati di ocra rossa. Le prime sepolture risalgono a 100 mila anni avanti Cristo. Siamo privati di qualcosa che, secondo gli storici e gli antropologi, ci rende umani. L’umano nasce con la cultura dei morti. Qui abbiamo di fronte una circostanza che toglie l’umano ad una società già disumana sotto molti aspetti, come lo sfruttamento del pianeta e degli esseri umani, la non-accoglienza, l’individualismo, il predominio del profitto sul bene comune...”.
Nelle società occidentali il fine vita è spesso considerato un tabù. Può un’epidemia globale stravolgere il nostro rapporto con la morte?
“Nell’Occidente contemporaneo l’occultamento del pensiero sulla morte, l’evitamento della parola morte è generalizzato. Siamo impreparati come Paese e come cultura. Per questo è più facile che sia messo in ginocchio un Paese che ha il terrore della morte rispetto a uno che con la morte ha più dimestichezza. Del resto, nel Medio Oriente il coronavirus non può impattare più di quanto abbia fatto la pace minata ormai da tempo. Qui invece eravamo in una bolla di benessere, un sistema fortemente consumistico, dove molti valori etici erano crollati. Anche le grandi mobilitazioni più recenti sono state sempre mosse dalla paura. Persino quella contro l’inquinamento spesso non è nutrita dall’amore per la natura, ma dalla paura per il proprio futuro. La nostra cultura tende a evitare la morte, ma la morte resta il movente di tante scelte e tanti orientamenti”.
Come Paese, secondo lei, c’è qualche risorsa che possiamo “elaborare” da questa esperienza collettiva di dolore e sacrificio?
“Siamo a un bivio. O apriamo gli occhi e superata l’emergenza nasce un Paese migliore, o seppelliamo definitivamente la nostra umanità. Il rischio c’è, bisogna essere realisti, ma per me la speranza è sempre più forte di qualsiasi ipotesi apocalittica. Questa secondo me è la grande occasione che ci è data di capire che quando c’è un problema, come diceva Don Milani, o se ne viene fuori tutti o neanche qualcuno. Ho sentito dire “il bene comune deve prevalere sul bene dell’individuo”… No, non mi piace: il bene comune è la forma migliore per tutelare ogni individuo. È un modo più nobile di esprimerlo. Dopo anni di individualismo, questo momento ci sta insegnando che l’unico modo di uscire da una crisi è il bene comune. Non lo abbiamo applicato durante la crisi economica, forse possiamo farlo adesso”.
Molti analisti sono concordi nel ritenere che l’impatto economico della pandemia sarà devastante. Perché dovremmo “svegliarci” proprio adesso?
“Perché questa situazione ci sta privando di ciò che ci mantiene umani anche dopo la morte. Perché se la morte è relazione, noi viviamo anche oltre la morte. Questo sembra insegnare la tradizione, l’antropologia stessa, senza entrare nella religione. Marcel Mauss, un grande antropologo del Novecento, diceva che si è umani quando si è donatori. La morte è l’ultimo dono che facciamo agli altri. Come moriamo rimane nella memoria di tutti. La morte ci costringe a donare tutto, volenti o nolenti. La differenza è in chi la accoglie. Ecco, il dono che ci possono fare le persone che stanno morendo ora è di farci capire l’importanza della relazione con chi sta per morire e della relazione con chi è già morto, così da restare veramente umani. Se accettiamo questa scommessa fino in fondo, usciremo da questa crisi con un Paese rinnovato, verso un’idea di bene comune altissima e nobilissima. Io lo spero”.

martedì 10 marzo 2020

Il paesaggio romanico lombardo nel Triangolo lariano

di Alberto Novati (architetto)

Volendo studiare il romanico non possiamo sottrarci alla necessità di intrecciare i temi dell’urbanistica con quelli dell’architettura. Solo in questo modo si riuscirà a fornire qualche contributo apprezzabile alla ricostruzione storica del definirsi del romanico nel cosiddetto triangolo lariano. Invece, utilizzando nei fatti un ampio spettro di indagini, si potranno restituire le modalità insediative e i processi di civilizzazione di lunga durata che caratterizzano l’evo medio.
Dobbiamo subito chiederci: dopo il declino dell’impero romano, come la cristianità ha voluto e saputo costruire il proprio consistere nel pagus e nel castrum e come ha reinterpretato globalmente l’insediamento umano?  
Collochiamoci, da subito, in un preciso orizzonte macrourbanistico: la direttrice est-ovest proveniente da Aquileia e da Ivrea passante per il ponte di Olginate, nelle diverse alternative e varianti locali, si interfaccia nel territorio lariano con la direttrice europea nord-sud che metteva in comunicazione il bacino del Reno con la Lombardia e il mar Mediterraneo.
Flussi di merci, uomini e idee connessi non solo dalla città di Como ma da una serie di porti che, seppur di dimensioni ridotte, come il porto di Nesso(1), costituivano i nodi di interscambio dell’altopiano lariano. Altri porti, posti su entrambi i rami del lago, costituivano una valida alternativa al porto di Nesso.

Su questo assetto macrourbanistico si innesteranno le reti dei villaggi del romanico realizzando, nei fatti, un sistema insediativo completamente diverso da quello del castrum romano. E’ una vicenda antica. La struttura territoriale a rete, a grafi, radicalmente diversa da quella derivata in quache modo dalla modellistica gravitazionale (geocentrica tolemaica o eliocentrico copernicana-newtoniana) era, fin dall’antichità, ampiamente conosciuta e utilizzata nella costruzione del paesaggio umanizzato come testimonia Tucidide a proposito della città-villaggio di Sparta. Infatti, l’occupazione militare romana del bacino lariano del 196 a.C., tramandataci dallo storico Tito Livio, ha reso visibile la forma preesistente a rete dell’organizzazione territoriale, come testimoniano anche gli studi di Giorgio Luraschi. Con questa premessa urbanistica, fu compito della Pieve organizzare e utilizzare appieno le potenzialità di quei nodi urbanistici innestando e integrando le funzioni dei centri plebani con quelle dei porti.
Quel lago, quei luoghi, quelle cose, quegli animali, quelle donne e quegli uomini furono i soggetti dei dipinti di Giuseppe Canella e di Giovanni Segantini.
Il lavoro e quelle armature urbane resero possibile la costituzione del surplus economico che venne gestito dalla Pieve e utilizzato per la costruzione degli apparati monumentali dei centri plebani e delle tappe intermedie degli itinerari. Fu così che, in alternativa alla città romana-vescovile, si costruirono veri e propri santuari extraurbani frequentati da popolazioni che si andavano, pian piano, riorganizzando dopo il tracollo dell’impero romano. Primari centri monumentali che non furono mai subalterni al castrum comense. Si pensi a San Pietro al Monte o a Galliano, dove sono ancora ben visibili quei cicli pittorici capaci di interpretare, di qua delle Alpi, quello spirito nuovo europeo che si andava affermando nelle scuole pittoriche al di là delle Alpi, come alla Reichenau o a Müstair.
Lo scritto del monaco Raoul Glaber (985 circa – 1047 circa) ha la capacità di ben sintetizzare dati quantitativi e qualitativi del candido manto di chiese che ammantò la nascente Europa agli inizi dell’anno Mille. Così scrive: “Si era già quasi all’anno terzo dopo il mille quando nel mondo intero, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si ebbe un rinnovamento delle chiese basilicali… Pareva che la terra stessa, come scrollandosi e liberandosi della vecchiaia, si rivestisse tutta di un candido manto di chiese.”
Come si attuarono quelle strategie insediative? Furono le parole dell’antico linguaggio architettonico ad interpretare e costruire lo spazio pieno europeo non univocamente incentrato sulla città romana. Fu così che la costituzione del nuovo paesaggio  del romanico venne condotta dalle figure matrici della basilica, della crociera, della pianta centrale, dell’abside, del portale, della cripta, del recinto, del tumulo, della tomba a torre, del masso avello e dalle matrici urbanistiche dell’agorà, dell’acropoli e della piazza sagrato.

Lasnigo, chiesa di Sant'Alessandro

Secondo Virgilio Gilardoni (Il Romanico, Mondadori, 1963), “Lo spirito di rigorosa coerenza stilistica ha trascinato a sua volta un rivolgimento generale dei modi e delle concezioni costruttive, d’altronde richiesto dalle nuove esigenze tecniche e tettoniche, ha sollecitato il paesaggio dal sistema conglomerato della costruzione romana a quello elastico romanico.”
Sulla scrittura architettonica romanica “nessun ordine riveste più l’edificio: scompaiono le colonne sovrapposte, le antiche trabeazioni, sostituite da una sola colonna, da una parasta o da fasci di colonne e di paraste, da bande e da segna piani suggeriti sempre dalle masse stesse o da ragioni comunque costruttive. Predilezione cosciente che si afferma nella genuina dichiarazione delle forme costruttive… Lo spazio acquista misure narrative e drammatiche, si scioglie in elementi e volumi che non rinunciano alla propria individualità: l’atrio, il nartece, la centrale, le navatelle, i bracci del transetto, il presbiterio, la cripta, l’abside, le cappelle, le torri scalarie, il tiburio, la cupola, la torre o le torri finestrate del transetto; ma tosto, appena liberate nella loro individualità, le parti si riconnettono nell’unità del ritmo segnato dalle paraste, dalle archeggiature, dalle fasce di archetti pensili, dalle cornici, che rispondono allo scheletro interno di pilastri e di arcate e che dichiarano, nella nudità del loro sforzo, la tensione di spinte e controspinte, l’organamento dei corpi murari, il conflitto misurato, calcolato, delle masse costruttive e delle masse atmosferiche.”

Albese con Cassano, San Pietro

Anche oggi possiamo abitare quei paesaggi e quelle architetture del romanico, ancora prodotte, quasi per filiazione, da quell’antico linguaggio architettonico che ha dato forma al mondo.
Scrive Giovanni Testori: “Ormai i soli nomi che riesco a scrivere senza essere sopraffatto da un’impressione di falsità, sono i nome dei luoghi d’origine della mia famiglia: Lasnigo, Sormano… Per me, deve esistere sempre, mentre scrivo una precisa incarnazione, o co-incarnazione. Col passare del tempo… mi accorgo che in tutto questo corre qualcosa di fondamentale, di decisivo”.
 
Bibliografia
Alberto Novati, Francesco Sala, Tra i due rami del lago di Como: paesaggi del romanico lombardo, GWMAX, Erba 2016.