venerdì 24 gennaio 2014

27 gennaio, “Giorno della Memoria”. Il tappeto di Łódź

Łódź è nota sia come la Manchester polacca, perché, col fiorire dell’industria tessile, divenne uno dei poli della rivoluzione industriale nella Mitteleuropea, sia come cuore pulsante dell’ebraismo europeo, seconda solo a Varsavia. A dicembre del 1939, con l’occupazione dell’esercito tedesco, l’intera popolazione ebraica di Łódź, oltre 200mila persone, circa un terzo degli abitanti totali, era rinchiusa fra palizzate e muri, pochi i varchi presidiati, tra parte della città vecchia e l´adiacente quartiere di Baluty. Per lasciare il resto della città Judenfrei furono chiuse quarantasette scuole, fu vietato ogni contatto o commercio con ariani, ogni attività lavorativa soppressa e sostituita da uno schiavismo operaio a favore della Wehrmacht. Scuole e stamperie erano clandestine, come lo furono teatri, concerti, cinematografi, e le tante fabbriche tessili presenti a Łódź.

Il primo riferimento che riguarda la fondazione di un ghetto apparve in un ordine datato 10 dicembre 1939 che parlava di un punto di raccolta temporaneo per gli ebrei locali al fine di semplificare le operazioni di deportazione. Quando, nel 1942, il ghetto di Łódź, si riempì anche di ebrei deportati da altre parti d’Europa, di rom e oppositori politici, iniziarono i viaggi della morte verso i campi di sterminio nazisti di Chelmno e Auschwitz. Ventimila bambini furono portati via a settembre e l´ospedale pediatrico fu svuotato a forza. Ci furono suicidi collettivi di famiglie intere per sfuggire ai treni della morte.
 
 
Immagini del Ghetto
 
Albert Speer, ministro degli armamenti, voleva tenere in vita gli operai-schiavi del ghetto per rifornire la Wehrmacht. Ma nel 1944, con la ritirata davanti ai russi, Himmler lo convinse a farne a meno. Avvennero massacri e deportazioni finali. Dei 204.000 ebrei che passarono attraverso il ghetto di Łódź, solo poche migliaia sopravvissero alla guerra ed allo sterminio. Fu solo la liberazione della città da parte dell'esercito sovietico il 19 gennaio 1945 che li sottrasse alla morte.

Due tra gli oggetti più significativi che ricordano quei circa 200mila sterminati e la loro voglia di vivere riguardano un tappeto ritrovato e l´album con le firme dei bambini, ora al museo dell’Olocausto di Washington.


Il tappeto

Il tappeto, opera di artisti e artigiani ebrei, fu un atto di resistenza. Il tappeto del ghetto di Łódź fu tessuto in segreto dagli ebrei della città, sfruttati come bestie dai nazisti per celebrare il Rosh Hashanah, il capodanno ebraico. Sopravvisse all’Olocausto e per settant´anni rimase quasi dimenticato in un semplice appartamento. Pochi anni fa è riemerso dal passato, con tutto il suo carico di memoria e lo Shem Olam Institute israeliano, fondato dal rabbino Avraham Krieger per studiare la cultura ebraica nell´Europa occupata dal Terzo Reich, lo ha esposto in pubblico. Venne realizzato da venti tessitori a notte, al lavoro alla luce di candele smozzicate. A turno, gli artigiani ebrei lavorarono attorno a un povero telaio di legno: quattro assicelle incollate e avvitate sui cui lati corti insistono a decine i chiodi essenziali all’ordito.
Venti, quaranta ma forse ottanta o più artigiani, schiavi diurni, resistenti notturni, coraggiosi, segreti.
Artigiani che alla vigilia del Rosh Hashanah decidono di augurare a Israele un anno migliore di quello trascorso, di celebrare insieme angoscia e speranza. Invisibili, che con una spoletta improvvisata disegnano nella trama un grande ragno nero, il simbolo di Lucifero, che opprime la propria ragnatela, il tetro nazismo, le brune armate hitleriane che dilagano in Europa e avviano l´Olocausto; e ancora una stella gialla a sei punte, come quella che i fratelli dei paesi invasi indossano ormai quale seconda pelle, su sfondo blu e bianco. Il blu, il colore del cielo, a rammentare a Israele la propria reale destinazione in fondo al transito sulla terra; il bianco, antitesi del nero, il colore della luce, della purezza della neve, dell’ innocenza, della vittoria finale sul Male. Anonimi. Ombre. Avraham o Yaacov, Leah o Elisheva, o forse Ephraim oppure Levi… non è dato sapere, neanche la sorte…


Donne al lavoro in una fabbrica di maglieria del Ghetto

Di quei tessitori coraggiosi non sappiamo nulla: né il nome, né quanti fossero, né se riuscirono a sopravvivere. Di loro resta quell’opera. Il grande tappeto. Sul quale è tessuta una data, riferita agli auguri per l´anno nuovo: anno 5702 del calendario ebraico. Corrisponde a un periodo a cavallo tra il 1941 e il 1942, quando appunto a Łódź i tedeschi accelerarono il ritmo industriale del genocidio.

«Per anni e anni questo tappeto rimase appeso a un muro dell’appartamento di mia madre», ha raccontato la donna polacca che lo ha scoperto. «Mamma si trasferì a Łódź da un villaggio vicino, dopo la guerra. Trovò alloggio in una zona abbandonata, aveva fatto parte del ghetto. Oggi mia madre è anziana, ho voluto evitare che quel tappeto andasse perduto, per cui ho voluto consegnarlo a chi tiene vivo il ricordo».
 
Beniamino Colnaghi
 

mercoledì 15 gennaio 2014

Giuseppe Verdi
 
Milano, 1890 circa. Giuseppe Verdi in Piazza della Scala.
 

venerdì 3 gennaio 2014

Begnàmen di Barbìs, mio nonno

Verderio Superiore, 18 agosto 1941. Quel giorno faceva molto caldo. Considerata la stagione, non avrebbe potuto essere diversamente. Allora, il ciclo naturale delle stagioni era regolare e in estate il caldo si faceva sentire. La giornata volgeva al termine. I contadini stavano rincasando, dopo aver trascorso una dura giornata nei fondi da essi coltivati.

Dalla Strada consorziale detta ai Maggioli, in fondo alla quale i Colnaghi lavoravano dei terreni dati loro in affitto dalla famiglia Gnecchi Ruscone, sopraggiunge un carro trainato da un cavallo. Il mezzo è condotto da Giuseppe Colnaghi, a fianco del quale è seduto il più piccolo dei suoi quattro figli, Felice, che non ha ancora compiuto dodici anni. In località Saruchen, l’area adiacente l’attuale intersezione presso la cappella di San Rocco, incrociano mio nonno Beniamino in sella alla sua bicicletta, il quale, probabilmente, sta provenendo dalla stazione ferroviaria di Paderno-Robbiate. In quel tempo di guerra e povertà, molti contadini, oltre il lavoro dei campi, svolgevano l’attività di cavallante, ossia trasportavano materiali di ogni tipo: dalla sabbia ai generi alimentari, dai mattoni al carbone che a volte venivano portati fino a Milano. Mio nonno era uno di questi.


Una bellissima foto scattata nell'estate del 1930 in località Saruchen a Verderio Superiore.
Ambrogio Colnaghi, detto Bös, con alcuni nipoti.
 
Giuseppe, detto Pen del mocc, e Beniamino, Begnàmen, erano fratelli ma, per espressa ammissione dei loro stessi figli, alcuni dei quali tuttora viventi, erano molto diversi fra loro, sia nell’aspetto fisico sia dal punto di vista caratteriale. I loro genitori, Felice e Maria Letizia Brivio, ebbero otto figli. Giuseppe nacque il 6 giugno 1892, Beniamino il 24 aprile 1900. 

Beniamino Colnaghi

Giuseppe ordina al cavallo di fermarsi e dice a Beniamino che l’indomani sarebbe dovuto partire alla volta di Bergamo, a ritirare un carico di formaggio e generi alimentari per conto della ditta Mattavelli di Sulbiate. I commercianti in questione avevano un deposito presso la Baita di via Sernovella, oggi “Ristorante da Remo”, e si avvalevano dei carrettieri locali per il trasporto della merce. Il prolungarsi dei lavori nei campi, però, non avrebbe consentito a Giuseppe lo svolgimento del trasporto già programmato. Era intento, come la maggior parte dei coloni, al taglio della stoppia, stubia, i residui di erba e steli di cereali rimasti sul terreno dopo la mietitura del grano. Fu per quel motivo che chiese a suo fratello di sostituirlo in quel trasporto.
“Va bene, vado io“, rispose prontamente mio nonno. Era sempre disponibile quando si rendeva necessario usare il “suo” cavallo, perché nutriva un grande affetto per quell’animale.
Lo avevano chiamato Nino, il cavallo. A dire il vero, mi ha riferito il signor Felice Colnaghi, avevano chiamato Nino anche il cavallo precedente, un bell’esemplare di razza ungherese. Ed anche quello successivo fu chiamato Nino, il quale morì a Saronno dopo aver trasportato un carico di cemento. Partì da Verderio il 5 luglio 1946 a mezzanotte, insieme ad una carovana composta da ben undici carri trainati da cavalli.

Eh, i cavalli, ci sarebbe da scrivere un bell’articolo sui cavalli. No, non quelli di oggi, che spesso vediamo passeggiare sui viottoli di campagna, viziati e ben spazzolati, ma quei cavalli di una volta, quelli che erano in tutte le corti e cascine, in ogni famiglia. Erano l’automobile che portava la comitiva in gita, erano i piccoli Tir che trasportavano la sabbia, i mattoni e il fieno, erano i trattori che aravano i campi. I cavalli, forse più delle mucche e dei maiali, hanno rappresentato il sostentamento dei poveri contadini.

Nino, quello di mezzo, era stato acquistato da una famiglia di Paderno che viveva alla cascina Maria, la quale aveva dei terreni nelle adiacenze della cascina Brughèe, che si raggiunge percorrendo l’attuale via Fornace, in direzione Porto d’Adda. Quindi, il cavallo conosceva bene la strada che portava alla cascina Brughèe, perché c’era stato molte altre volte con i vecchi proprietari e, dopo averlo acquistato, c’era andato anche con i Colnaghi, che lavoravano alcuni terreni in quella zona.

Dopo la breve parentesi sui cavalli, riprendo dunque il racconto.

Mio nonno Beniamino entra in cortile, subito raggiunto da Pen e Felice, i quali depositano il carro sotto uno dei portici che la famiglia Colnaghi aveva in affitto e conducono il cavallo nella stalla.
Nella corte erano presenti due ceppi Colnaghi, i cui antenati originariamente provenivano dalla cascina Casa Nuova di Verderio Inferiore e, prima ancora, dal piccolo borgo di Colnago: l’uno denominato Barbìs, baffi, dal quale avevano estrazione i due fratelli, l’altro chiamato Penàgia, dall’attrezzo a stantuffo che serviva per produrre il burro.
 

Via Angolare. Il portico d'ingresso che conduce nella corte, visto da piazza Roma (foto di Giulio Oggioni).

Non appena mio nonno scende dalla bicicletta, che appoggia ordinatamente al muro, sua figlia Letizia Stefanina, di soli due anni, esterna la gioia e l’emozione nel vedere suo padre nascondendosi nella stia, la gabbia di legno chiusa da una rete metallica o da sottili aste di ferro, utilizzata per il trasporto e l’allevamento di pollame. Begnàmen si lascia andare ad un tenero e dolce sorriso e si dirige verso la gabbia, dalla quale estrae sua figlia e se la porta in braccio, baciandola amorevolmente. Dopo aver avuto mio padre nel 1927, i miei nonni “perdono” due figli quando entrambi avevano poco più di un anno: Luigi nel 1930 e Letizia nel 1933. Questi gesti di tenerezza e dolcezza verso sua figlia si possono spiegare col fatto che Beniamino avesse un buon carattere e amasse la sua famiglia. Era sostanzialmente un uomo buono e pacato, così perlomeno mi è stato descritto da chi lo ha conosciuto.  
Nel frattempo, sua moglie Clelia, detta Scighera, classe 1904, con la quale contrasse matrimonio il 30 gennaio 1926 a Verderio Superiore, lo stava attendendo per servire la cena. Mio nonno, così mi è stato riferito, non se la sentì di mangiare, dicendo che non aveva fame. La cosa parve alquanto strana a mia nonna, considerato che Beniamino era "una buona forchetta", ma così avvenne.
La sera mio nonno andò a dormire molto presto, "con le galline", come si usava dire all’epoca. Del resto, i contadini svolgevano attività fisicamente faticose, vivevano per e con la terra, seguendo i ritmi e le cadenze regolari delle stagioni ed avevano necessariamente bisogno di riposare per recuperare le forze. Salì le scale di granito che conducevano al piano superiore, ove avevano sede le camere da letto, fece pochi metri sul ballatoio a ringhiera e si diresse nella sua stanza, la prima a destra. Si svegliò verso le tre del mattino, si vestì in camera e scese a prendere il caffè.

 
Giorno di bucato in corte dei Colnaghi (fonte Giulio Oggioni)
E’ il 19 agosto 1941. La seconda guerra mondiale è in corso ormai da due anni, l’esercito tedesco ha invaso e occupato la Polonia, la Cecoslovacchia, la Scandinavia, l’area meridionale dell’Unione Sovietica ed il 19 agosto l’11a Armata tedesca è già sulle coste del Mar Nero e in Crimea. L’Italia fascista è in guerra da oltre un anno e partecipa attivamente alle azioni di aggressione a fianco dell’esercito nazista.

Begnàmen entra nella piccola stalla, stalén, dalla quale fa uscire il cavallo per poterlo agganciare e legare al carro. Nel frattempo, il cortile inizia ad animarsi. Le regiùre, le donne di casa, sono già attive perché devono preparare la colazione per i propri mariti che stanno andando al lavoro. Anche Fulvia è sveglia, ha 19 anni, si sta alzando e sente tutto ciò che sta avvenendo in quei momenti in cortile. E’ la primogenita di Giuseppe e Angela Colnaghi. Mio nonno, contrariamente al solito, non riesce ad imbrigliare e legare il cavallo al carro; Nino sembra nervoso, irrequieto, forse “sente” qualcosa o “capisce” che mio nonno non sta bene. Alcune razze di animali hanno sensazioni straordinarie e possono prevedere gli eventi molto prima degli esseri umani. Al terzo tentativo riesce ad agganciarlo ai finimenti, si porta lentamente verso il grosso portone di legno che chiude il cortile, alza i catenacci e la grossa sbarra che assicura la chiusura. Il portone è aperto. Esce in contrada con il carro, si ferma, scende e ritorna sui suoi passi. Richiude il portone ed esce dalla porticina pedonale che assicura a chiave dall‘esterno. Fulvia sente le mandate della chiave.
Le campane non hanno ancora rintoccato le 4 del mattino. E’ ancora buio pesto.
“Ua”, dice al cavallo, vai Nino, e parte per Bergamo, ma a Bergamo non ci arriverà mai, si fermerà molto prima. Il carro lascia l’abitato di Verderio Superiore, supera la salita del Genasa, si dirige verso la località denominata Padernen, passa davanti al “Dopolavoro Viscardi“, gestito da Cecilia Colnaghi, sorella di mio nonno, prosegue verso l’abitato di Paderno d’Adda. In corrispondenza del ponticello sulla ferrovia, anziché andare diritto, verso il ponte San Michele, il cavallo prende la strada sulla destra, dirigendosi verso le cascine Assunta, Lazzarona, Fornace e Brughèe. Una strada conosciuta, come già accennato.
Nino è ormai senza guida. Mio nonno è steso sul pianale del carro, già cadavere. Il cavallo entra nella cascina Brughèe e si ferma sotto il portico di un’abitazione. E’ ancora buio. Per farsi sentire comincia a battere gli zoccoli contro il selciato, una, due, tre volte, finché una donna già sveglia esce di casa per capire da dove provenissero quei colpi. Si rende conto che sul carro c’è il cadavere di un uomo, ma non ne conosce l‘identità. Chiama gli uomini del cortile, che accorrono e intuiscono la tragedia. Si tratta sicuramente di un cavallante. Uno di questi inforca la bicicletta e va "come un fulmine" alla cascina Airolda, da Marco Gariboldi, Marcu de l’Irolda, che coordina i cavallanti e dovrebbe conoscere il nome di quell‘uomo. “L’è Begnàmen di Barbìs“, dice Marco, oggi aveva in programma un ritiro di generi alimentari a Bergamo.
Qualcuno viene incaricato di recarsi in paese a dare la triste notizia ai parenti. Bussa al grosso portone. Angelo Colnaghi, Angiulot di Penàgia, classe 1901, che sta regolando le mucche nella stalla vicina, viene subito informato. La notizia trapela immediatamente tra i parenti più stretti, uno dei quali si incaricherà di informare sua moglie. 


Angelo Colnaghi in cortile (fonte Giulio Oggioni)
Il corpo rimane per alcune ore presso un’abitazione della cascina Brughèe, in attesa del nulla-osta alla rimozione da parte del medico e del magistrato di turno. Nel pomeriggio dello stesso giorno è adagiato su una scala a pioli di legno e portato a casa, accompagnato da alcuni parenti, tra cui sua sorella Cecilia, Cia, e suo fratello Giuseppe. Viene seppellito nel cimitero di Verderio Superiore, ove attualmente riposa.
 
Un’antica filastrocca tramandata dai contadini dell’Appennino emiliano recita che “la vita di un uomo è lunga quanto la vita di tre cavalli…”. Purtroppo, mio nonno si è fermato prima, anzi, metaforicamente, è stato sepolto da un suo cavallo, anche se, Nino, non lo ha abbandonato in mezzo alla campagna o ai bordi di una strada, come noi esseri umani usiamo spesso comportarci con gli animali diventati improvvisamente ingombranti.
Beniamino Colnaghi