domenica 15 novembre 2015

Memorie di Lombardia: a Milano i murön fan l'üga”

Nonno Defendente era sveglio da almeno due ore. Tutte le sante mattine si svegliava alle quattro per mungere e regolare le mucche. La stalla e il campo vicino alla roggia “Molino nero” erano tutta la sua vita. Rimase vedovo presto. Sua moglie Francesca, Ceca, morì durante il parto del suo quinto figlio, avvenuto in una gelida notte di gennaio. Volle chiamarlo Benedetto, il figlio, “ricco di benedizioni divine”.  
Defendente uscì dalla stalla verso le sei e si diresse col secchio del latte nella sua umile dimora. Umile, ma pulita e dignitosa. Quando all’età di 40 anni rimase vedovo, non volle l’aiuto di nessuno: né di sua sorella maggiore, Clara, nubile per scelta, né delle vicine di casa che, a suo dire, avrebbero poi spettegolato nelle botteghe del paese sui suoi modi di condurre la casa ed educare i figli. Nulla di illegale né di riprovevole, si intende. Ma quella fedina penale macchiata dalla partecipazione alle proteste popolari nel 1919, caratterizzate dalle lotte operaie e contadine contro i padroni e i latifondisti, lo “marchiò” per lunghi anni. Si sa, queste cose fanno male, soprattutto in un momento storico contraddistinto da pesanti scontri ideologici e odiose discriminazioni. Il padrone lo cacciò di casa. Era una sua facoltà contrattuale, che esercitò immediatamente.
A quel punto, Defendente, già sposato e padre di un figlio maschio, dovette caricare “armi e bagagli” su un carro prestatogli da suo padre e trasferirsi in una piccola cascina della Bassa lombarda. Zona malsana: in estate afa e zanzare lunghe un dito, durante i mesi invernali nebbia fitta che “si tagliava con il coltello”. Ma Defendente era uno tosto, un combattente nato. Cominciò a lavorare alacremente ed a sfornare figli a ripetizione: cinque in quattordici anni.

Una cascina lombarda

Fu uno dei primi a meccanizzare il lavoro dei campi. Comprò un trattore usato Landini e alcune macchine agricole che gli permisero di ampliare le attività e ridurre i tempi. Crebbe i suoi cinque figli con dignità e con la forza del lavoro. Insegnò loro ad essere onesti, ad avere sempre la “schiena dritta” e non scendere mai a compromessi.
Nella sua vita andò poco in chiesa; partecipava alle funzioni religiose solo quando si rendeva strettamente necessario. Non era ateo, ma la sua fede si fermava spesso sul gradino del portone della chiesa. Però fece battezzare tutti i suoi figli e, diventati maggiorenni, lasciò loro ampia libertà sull’impostazione religiosa della loro vita.

Quando Defendente entrò in casa, il suo volto scavato e rugoso, dai tratti severi per sopracciglia folte e ormai bianche, molto simili a embrici sporgenti, si distese improvvisamente.
Carletto, Carletto, forza, scendi, la colazione è quasi pronta!”, disse mamma Ambrogia, trafelata e ansimante. Carletto, Carlo all’anagrafe, era nipote di nonno Defendente, figlio del suo primogenito. Come avveniva normalmente nelle società contadine, il figlio primogenito, dopo aver contratto matrimonio, rimaneva con la sua nuova famiglia nella casa dei genitori. Ci si arrangiava come si poteva, normalmente alzando una nuova parete, stramezza, nella grande camera da letto dei genitori.
L’onore di scegliere il nome del bambino venne affidato al nonno paterno, il quale non ci pensò su due volte: “Si chiamerà Carlo, come mio padre e come Marx”.
L’uso di chiamare i neonati con il nome dei loro avi e quello di riproporre il nome degli anziani nei neonati, nelle culture contadine s’inquadra in una particolare disciplina nominale che ha diverse valenze di tipo etno-antropologico, le quali si possono riassumere nel desiderio di onorare il capostipite, trasferire col nome anche il carattere della persona donante e la convinzione di trasferire l’anima del donante e con essa la vita.

Carlo era già sveglio da un pezzo. Era troppo agitato ed eccitato dalla novità. Si era girato e rigirato nel letto e, nei brevi intervalli di sonno, aveva sognato le guglie del Duomo di Milano, che vide per la prima volta in una foto sul libro di geografia. Quattordici anni appena compiuti, sarebbe partito da casa senza essere accompagnato dai genitori. E’ vero, tre anni prima partecipò ad una colonia estiva a Rimini, organizzata dall’oratorio locale, ma non si trovò a suo agio. Gli mancarono, seppur per il breve periodo del soggiorno, i suoi genitori e, soprattutto, sentì la mancanza del nonno, il suo vero punto di riferimento. Suo padre e sua madre lo iscrissero alla colonia perché nel mese di giugno di quell’anno ebbero la loro secondogenita.   

Carletto, scendi, farai tardi, la corriera non ti aspetterà”. Nella cucina del piano inferiore la colazione era già servita sul grande tavolo di ciliegio massello. Il tavolo venne costruito dal falegname del paese, un certo Ugeni, Eugenio, che sapeva usare la pialla e lo scalpello come pochi altri. Il materiale grezzo fu invece fornito dallo stesso Defendente, il quale fu costretto a tagliare un vecchio ciliegio malato, messo a dimora da suo nonno nella cascina che lo vide nascere. Suo nonno, secondo una storia raccontatagli da suo padre, fu un fervente garibaldino e, per salutare l’Unità d’Italia, piantò due ciliegi ai lati del portone d’ingresso della cascina.
Quando Carlo cominciò a divorare la colazione, sua madre si affacciò alla finestra e vide le prime foglie cadere dagli alberi. “Oh, Signor, vardée, comincia l’autün”, disse. 
Il ragazzo non si alzò dalla sedia finché non ebbe finito di inzuppare il pane imburrato nel latte. Sulla stufa di ghisa sfrigolava dell’altro latte per la colazione del nonno, che finì col traboccare sugli anelli roventi, sollevando uno strepito di bollicine crepitanti in una nuvoletta di fumo acre.

La corriera dei pendolari era pronta sulla piazza del Municipio. Mancavano dieci minuti alle sei e mezza, ma il motore era già acceso, provocando una fastidiosa e maleodorante nuvoletta nera. Gli operai arrivavano alla spicciolata, qualcuno con l’ombrello aperto, per via di una leggera pioggerellina autunnale. Tutti avevano in mano una borsa di cuoio o una sporta dentro le quali era ben riposta la gavetta, schiscéta, il contenitore a più scomparti per portarsi sul luogo di lavoro il cibo già cotto a casa. Dalle vicine stalle, oltre l’inconfondibile odore di sterco, provenivano i muggiti delle mucche e le bonarie lamentele dei contadini. I giovani operai ormai non ci badavano più, perché erano tutti di estrazione contadina e sapevano bene quanto fosse dura quella vita. Le promesse di una vita migliore e le speranze di elevare la condizione economica e sociale, rispetto a quella dei loro padri, li avevano spinti a chiudersi in fabbrica dieci ore al giorno. Ma era ancora sangue contadino a scorrere nelle loro vene ed era l’odore acre della terra che filtrava nelle loro narici.  

La schiscéta
 
Carlo arrivò accompagnato dalla mamma e da un loro vicino di casa, che prendeva la corriera per Milano tutti i giorni, compreso il sabato. In quegli anni la ricostruzione del Paese imponeva duri sacrifici e chiedeva il massimo impegno da parte delle classi sociali meno abbienti, quelle che avrebbero voluto riscattarsi dopo secoli di subalternità.
Qualche operaio più anziano si lasciò andare a qualche battuta scherzosa, tanto per far sentire a proprio agio il ragazzo.  
“Ue, Carletto, che buon profumino che esce dalla tua borsa, la mamma ti ha preparato un buon pranzetto, neh?”. “Devi mangiare, ragazzo, la vita del pendolare è faticosa”.
La corriera alle 6.30 in punto partì scoppiettando dalla piazza. Percorse poche decine di metri, Carlo voltò la testa indietro, cercando il volto di sua madre. La vide che si stava unendo ad un gruppetto di donne vestite di nero, appena uscite dalla chiesa. Il campanile rintoccava le ore, l’osteria “Lisander” stava alzando la clèr, la saracinesca, il lattaio caricava i contenitori del latte sul calesse, il garzone del prestinèe, sulla bicicletta nera con due grandi cesti di vimini, stava consegnando il pane: scene di vita quotidiana in un piccolo borgo contadino.
Il cielo grigio e uggioso fece improvvisamente sparire ogni traccia del paese. La campagna si aprì, facendo intravedere i lunghi filari di gelsi che cingevano i campi addormentati e i pioppeti che fiancheggiavano il fiume. Sulla corriera la compagnia si animò: l’autista cominciò a cantare motivetti allegri e spensierati, alcuni operai iniziarono a giocare a briscola, altri ascoltavano la piccola radio a transistor appoggiata all’orecchio per non disturbare.
A mano a mano che la corriera lasciava alle sue spalle i piccoli paesi che si affacciavano sul “grande stradone” e incontrava le prime case dei quartieri periferici della metropoli, Carlo si “caricò” di curiosità. Osservò ogni palazzo, scrutò in ogni negozio, si meravigliò della frenesia con la quale si muoveva la gente della città. Fantasticò sulle grandezze e le meraviglie di Milano.

Il Duomo di Milano

Un’ora dopo la partenza la corriera scaricò gli operai in un grande parcheggio adiacente il piazzale intitolato a Luigi Emanuele Corvetto, giurista e politico ligure. Gli operai si divisero. Erano parecchie le fabbriche che avevano sede in zona. Carlo, con altri sette operai, si diresse verso Corso Lodi ove aveva sede una nota azienda metalmeccanica. Una folata di vento obbligò il gruppetto ad alzare il bavero dei giacconi e stringersi nelle spalle. Sul breve percorso, due vecchi milanesi in bicicletta, avvolti nel tipico tabarro nero, alzarono gli occhi verso gli operai e urlarono: “Ocio, operai, proletari campagnoli, a Milan i murön fan l'üga, a Milano i gelsi fanno l'uva, ossia a Milano ogni cosa è possibile, tutto può essere realizzato.      
Gli operai, abituati alle battute dei vecchi milanesi, si misero a ridere. Anche Carlo rise, per non essere di meno, anche se non ne comprese bene il senso. Strinse la borsa sotto il braccio destro e salutò gli altri lavoratori, con educazione e rispetto, i quali proseguirono ancora per un centinaio di metri prima di timbrare il cartellino nella loro fabbrica.
Carlo era arrivato. Ad attenderlo c’era il custode, che lo invitò a salire al 5° piano, presso l’ufficio del personale. Durante la salita in ascensore tutto gli parve bello ed entusiasmante. Pensò a nonno Defendente ed alla carezza che il vecchio gli diede quella mattina prima di uscire di casa.
I suoi occhi brillarono di emozione e di gioia, incastonati su un viso fiorito di colori campagnoli.    

Beniamino Colnaghi

martedì 3 novembre 2015

Morti di fame: voci dalla Grande guerra
 
Domenica 8 novembre 2015 alle ore 15.00  
  Sala Leydi del Museo Etnografico dell’Alta Brianza di Galbiate

Immagine
 

Rosalba Negri, Massimo Pirovano e il Gruppo “Leggere per gioco, leggere per amore”

Nel centenario dell’entrata in guerra dell’Italia nel conflitto che è costato 600.000 morti solo al nostro Paese, si presentano testimonianze, lette e cantate, sulla Grande guerra, per ricordare che la vita quotidiana della ‘gente comune’, di cui si occupano i musei etnografici, viene sconvolta dall’irruzione della ‘grande storia’ con le sue decisioni e le sue tragedie.

Info:  MEAB tel. 0341.240193 - http://meab.parcobarro.it/ 
 

domenica 1 novembre 2015

Pier Paolo Pasolini
 
"Si applaudono soltanto i luoghi comuni, mentre sarebbe il caso di coltivare l'atrocità del dubbio"
 
Pier Paolo Pasolini (5 marzo 1922 - 2 novembre 1975)
 
Di Pasolini e su Pasolini ho letto molto. È lo scrittore che più di ogni altro mi ha trasmesso l'interesse e la passione per la letteratura e la memoria. Ho iniziato a leggerlo solo dopo la sua morte. Forse perché il suo assassinio, perpetrato in una terra desolata quale era Ostia a metà degli anni Settanta, creò scalpore, fomentò polemiche, disvelò ai più la cruda realtà delle borgate romane e del sottoproletariato giovanile. Ma quando iniziai a leggerlo, mi si aprì un mondo, una prospettiva. Non potei rimanere indifferente di fronte al suo stile letterario, alla forza di provocazione, alle sue denunce di una società in profonda trasformazione, alla poetica che privilegiava, lui borghese, il rapporto con la realtà più difficile, con il popolo, con gli ultimi. Ciò che Pasolini scrive e filma di quel mondo non ha nulla a che vedere con lo sviluppo e con il boom economico, imperniati sull'omologazione e sulla dittatura dei consumi. Lui lo può fare perché, a differenza della maggior parte degli intellettuali e degli scrittori del tempo, conduce la vita dei suoi simili, parla la loro stessa lingua, frequenta quotidianamente il popolo. Per definire la deriva che stava avvenendo coniò il concetto forte di "genocidio culturale". E difatti, quel mondo e quei suoi personaggi oggi sono stati spazzati via dalla "modernità", dalla storia.
Ebbe decine e decine di querele, denunce, processi per reati che andavano dalla diffamazione a mezzo stampa al vilipendio della religione all'oltraggio al pudore. Non volevano che scrivesse, che si esprimesse, che denunciasse il malaffare, il perbenismo borghese, il moralismo bigotto, le trame occulte e eversive. Venne segnalato all'Italietta del tempo come un artista pericoloso, da evitare. Lo hanno censurato, perseguitato, hanno cercato di fermarlo in ogni modo. E, il 2 novembre 1975, ci sono riusciti.
Non ha lasciato eredi, almeno a me pare, ma di lui abbiamo un'opera letteraria vastissima: scritti di tutti i generi, poesie, romanzi, sceneggiature, film, interventi critici, articoli, saggi.
Da quarant'anni, però, ossia da quando è stato assassinato, ci manca la sua passione viscerale, la sua coscienza critica, la scandalosa irrequietezza, l'analisi lucida e penetrante, il suo orgoglio intellettuale, il suo sguardo profondo sul mondo, il suo immenso talento.
Insomma, ci manca Pasolini.
 
 
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