mercoledì 20 febbraio 2013

Verderio Superiore: la signora Aida Chiesa e i “platani gemelli”

Quando la signora Aida fu avvisata che alcuni coloni, dipendenti della sua famiglia, stavano abbattendo un platano lungo la strada che porta a Paderno d’Adda, lasciò le lussuose stanze della villa padronale e si diresse immediatamente sul posto. Malgrado la sua repentina presenza, il bell’esemplare dell’albero era già ai piedi dei contadini. Dei due “platani gemelli“, solo uno continuava a svettare fiero.
Dalle testimonianze dei residenti verderiesi, che si sono poi tramandate negli anni, non risulta che il platano fosse affetto dalla malattia conosciuta con il nome di cancro colorato, un parassita che attacca i platani fino a portarli alla morte. Per quanto se ne sapesse allora, eravamo verso la fine degli anni Trenta, primi anni Quaranta, il platano non presentava particolari problemi. Stava crescendo bello e robusto, come il suo gemello. Fiancheggiavano entrambi, come due vedette, un piccolo ponticello costituito da una grande lastra di granito, che dalla strada che conduce a Paderno d’Adda, ora via Contadini verderiesi, diramava verso ovest, su una stradina campestre che portava nella zona delle cave. Oggi quella stradina non c’è più, e non c‘è più nemmeno il ponticello in granito. Nei primissimi anni Ottanta sono stati cancellati dagli aratri. Gli “spensierati” anni ‘80 sono stati esiziali per il futuro della bellissima terra di Brianza: tante testimonianze storiche, monumentali e ambientali, tramandate da coloro che ci avevano preceduto, sono state distrutte o lasciate lentamente morire, a causa di scelte politiche e urbanistiche dissennate.


Fotografia scattata presumibilmente nel 1940. Si notano l'attuale via Contadini verderiesi e la nuova strada per la stazione ferroviaria di Paderno, inaugurata nel 1938. Sullo sfondo la Grigna ed il Resegone. Sul margine destro della foto, verso il basso, si può notare la presenza dei due platani gemelli, del ponticello in granito e della stradina campestre. 

Questa fotografia, presa durante il periodo invernale, è temporalmente successiva alla foto che precede. Come risulta evidente, uno dei due platani è già stato abbattuto.

Ci sarà pur stato, qualche anno prima, un disegno ben preciso, accidenti. Qualcuno avrà pur pensato ad un progetto per la messa a dimora di una serie di platani, proprio su quella strada. Probabilmente, anzi, oserei dire sicuramente, saranno state accertate le migliori condizioni ambientali favorevoli allo sviluppo di questa specie. Tra il “grande platano” che svetta maestoso al centro della rotatoria in largo della Battaglia e il “cerchio dei platani“, in prossimità della salita per Paderno c’erano loro, i “platani gemelli“. E’ bastato poco, anche allora, come avviene spesso oggi, per “rompere” un’idea, scardinare un progetto, compiere un’insensatezza. Senza quel platano, non sarebbe stata più la stessa cosa.



Il platano rimasto "orfano"
La signora Aida, che i contadini chiamavano Iden, lo intuì subito. Inferocita, cominciò ad imprecare contro coloro che l’avevano abbattuto; tuonò così tanto che la sua voce non poté non giungere fin nelle stanze della villa sovrastante. Chissà se il marito, il compositore Vittorio Gnecchi, udì le sue lamentele.
 
Vittorio e Aida fidanzati 
Era un bel tipo, la signora Aida Chiesa. Una bella donna, colta ed elegante. Probabilmente era anche risoluta e determinata, stando alle cronache del tempo. Nacque l’8 agosto 1885 a Chiasso, in Svizzera. Suo padre, un ricco industriale che possedeva alcune fabbriche e negozi di ferramenta, aveva anche diverse proprietà immobiliari a Milano. Durante lo svolgimento di una festa in uno di questi palazzi, Aida conobbe Vittorio Gnecchi, colui che, il 26 maggio 1904, sarebbe diventato suo marito. La coppia si stabilì nella villa di Verderio e, nei successivi quattro anni, ebbe due figli: Alberto nel 1905 e Isabella, detta Isa, nel 1908.

La famiglia al completo: Aida e Vittorio Gnecchi con i figli Isabella e Alberto

Nella bibliografia e nei documenti fin qui prodotti sulla famiglia Gnecchi Ruscone, hanno avuto particolare rilievo le biografie, i ruoli e le opere dei “maschi” del casato. Non poteva che essere così, considerata l’epoca storica ed il lignaggio aristocratico della famiglia.
Non ho elementi concreti, a parte ciò che ho letto in funzione della stesura di questo articolo, per poter affermare con certezza se l’antico proverbio latino che recita: "Dotata animi mulier virum regit", che concettualmente dovrebbe voler dire che una donna provvista di coraggio e di spirito sostiene e consiglia il marito, possa verosimilmente valere per la nostra coppia. Ciò di cui si è certi si desume dalle biografie delle figure femminili della famiglia aristocratica e borghese del luogo che mettono in luce donne colte, filantrope, sagge le quali hanno contribuito ad imprimere prestigio e identità al casato.

Fotografia tratta dal libro di Giulio Oggioni, Quand sérum bagaj.
Da sinistra: Vittorio Gnecchi, Miss Jessie Mason, Anna Gnecchi Baroli, il bambino vestito alla marinara è Gianfranco Gnecchi, la balia con in braccio Alberto Gnecchi, Aida Chiesa.
 
Al di là di ogni considerazione strettamente personale, Aida Chiesa sposò quindi Vittorio Gnecchi ed entrò a far parte di una famiglia che spiccava per operosità, intraprendenza e generosità e indubbiamente quell’epoca, a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento, fu propizia all’ulteriore ascesa di una borghesia ricca di mezzi, di spirito di iniziativa e di capacità.
Vittorio, per confutare quanto appena asserito, ebbe i natali a Milano il 17 luglio 1876, nelle stanze del bel palazzo che il nonno Giuseppe aveva appena acquistato al numero 10 della centralissima via Filodrammatici, proprio dietro al Teatro alla Scala. Era un edificio confacente all’accresciuto rango sociale della famiglia. Come gli Gnecchi, altre famiglie lombarde erano riuscite ad introdursi ai vertici della società milanese, grazie non solo ai mezzi puramente economici, ma anche e soprattutto ad una accorta “politica matrimoniale” che aveva portato a fitti legami di parentela con le famiglie dell’aristocrazia più altolocata, e poi ad una generosa e intelligente attività mecenatistica, che a quel tempo era necessaria ben più di oggi per ben figurare nel mondo della borghesia.
In questo senso il citato Giuseppe Gnecchi, nonno di Vittorio, aveva compiuto le scelte migliori: coniugatosi con la contessa Giuseppina Turati, un’altra “grande” donna della famiglia, aveva acquistato nel 1848 a Verderio Superiore, dove già possedeva una dimora, la splendida villa che era stata dei Confalonieri e che per il suo aspetto imponente conferiva alla famiglia un indiscutibile prestigio. Francesco Gnecchi, figlio di Giuseppe, sposò Isabella Bozzotti, una giovane e colta signorina di buona famiglia, dalla quale ebbe tre figli: Cesare, detto Rino, nel 1873, il già citato Vittorio e Carla, nel 1886. Gli Gnecchi potevano dunque dirsi arrivati. Pienamente inseriti nella società più altolocata di Milano e proprietari di una notevole fortuna, essi potevano godere di una vita agiata che permetteva loro di dedicarsi alle attività preferite: filantropia, mecenatismo, interessi culturali. Su questi fronti si concentrò infatti l’esistenza di Francesco Gnecchi e di suo figlio Vittorio. Se da una parte la famiglia donò a Verderio Superiore una nuova chiesa parrocchiale, il municipio, il cimitero, l’asilo infantile, la fonte Regina e altre strutture socialmente utili, dall’altra Vittorio si distinse per gli interessi musicali che ne fecero un compositore di buon livello.
 
Mi sono volutamente dilungato nel contesto storico e culturale del tempo, ritenendolo utile e doveroso. Ritorno all’accaduto, per concludere.
Non è dato sapere chi abbia mai potuto dare l’ordine di abbattere un così bell’esemplare di platano. In quegli anni, siamo verso la fine degli anni Trenta del secolo scorso, nulla poteva essere modificato e trasformato nelle proprietà della famiglia Gnecchi Ruscone senza che il sig. Giulio Beretta, detto sciur Giüli, potente agente e fattore del casato, fosse informato e desse il suo consenso. Per quale motivo ci fu qualcuno che volle tagliare i due platani? Chi ordinò l’abbattimento? Non si sa. Poco importa saperlo oggi. Ciò di cui siamo assolutamente certi, invece, è il fatto che senza il repentino e autorevole intervento della signora Aida Chiesa, anche il secondo platano sarebbe stato abbattuto.
Il maestro Vittorio Gnecchi Ruscone uscì silenziosamente dalla scena del mondo il 5 febbraio 1954, chiudendo anche nel dolore degli affetti familiari un’esistenza che, iniziata sotto i migliori auspici, era poi stata artisticamente così travagliata. All’improvvisa e prematura scomparsa dell’amatissimo figlio Alberto, morto il 7 agosto 1952, la sorte si accanì ancora sulla famiglia: la figlia Isabella morì un mese dopo suo padre, il 14 marzo 1954, mentre la moglie Aida, colta da una lunga e tristissima malattia, gli sopravvisse per soli otto mesi. Aida Chiesa morì infatti a Milano il 13 ottobre 1954.

Beniamino Colnaghi

Ringraziamenti
Le tracce su cui ho “costruito” l’articolo sull’abbattimento del platano e sull’intervento della signora Aida mi sono state fornite dal signor Felice Colnaghi, che ringrazio di cuore.
Sono grato alla signora Cristina Carlotti, pronipote di Vittorio e Aida, per le due bellissime fotografie riguardanti i suoi bisnonni, delle quali mi ha gentilmente concesso la pubblicazione.

Bibliografia
Ottavio de Carli, Vittorio Gnecchi Ruscone: un caso ancora aperto. Fortuna e oblio di un compositore gentiluomo, Erbusco, 1998, p.4.
Marco Iannelli, Il caso Cassandra. Vittorio Gnecchi, una storia del Novecento, Milano, Bietti, 2004, pp. 25-26, p.49.
Giulio Oggioni “Quand sérum bagaj”. Marna, 2004, pp. 222-225.
Sito web dell’Associazione Musicale Vittorio Gnecchi Ruscone www.associazionegnecchi.org

sabato 9 febbraio 2013

Città di Sesto San Giovanni: medaglia d’oro al valor militare per la lotta di Liberazione.

Per tutto l’Ottocento Sesto San Giovanni fu un borgo rurale e un luogo di villeggiatura delle classi abbienti milanesi, che arrivò a contare non più di 5000 abitanti.
Dal 1840 il borgo fu attraversato dalla seconda linea ferroviaria italiana, la Milano-Monza, destinata ad allungarsi sino al confine svizzero e a collegarsi, dal 1882, con il centro Europa attraverso la galleria del San Gottardo. Dai primi anni del Novecento Sesto San Giovanni divenne quindi centro dell’asse Greco-Niguarda-Monza, percorso dalla linea ferrovia internazionale, da una tramvia elettrica interurbana e dal grande stradone napoleonico che univa piazzale Loreto alla Villa Reale di Monza.

Tracciato della ferrovia Milano - Monza (1840)

Le vaste aree rurali liberate dalla crisi dell’agricoltura di fine Ottocento furono oggetto dei piani di sviluppo delle società immobiliari che facevano capo agli imprenditori Breda, Marelli, Falck e Pirelli i quali contribuirono a far nascere l’area industriale di Sesto San Giovanni. Fra il 1903 e il 1913 Sesto divenne la città delle fabbriche. Qui si trasferirono nei nuovi stabilimenti costruiti in pochi mesi, aziende grandi e medie dei settori siderurgico e meccanico, chimico e alimentare.
Breda, Pirelli, Falck ed Ercole Marelli si ampliarono rapidamente, raggiungendo rinomanza europea. Secondo il censimento del 1911 gli addetti alle 36 industrie di Sesto San Giovanni erano 6.971, dei quali 6.386 erano operai. Gli abitanti divennero ben presto circa 14.000. Negli anni successivi alla prima guerra mondiale, grazie alla produzione bellica, si costituirono quattro gruppi industriali integrati, Falck, Breda, Marelli, Pirelli, ciascuno dei quali era articolato in più stabilimenti. L’area industriale sestese si dilatò al punto di investire il comune di Milano negli ex comuni di Greco e Niguarda e nei comuni di Cinisello Balsamo e Bresso.
 
Largo La Marmora negli anni Venti

La grande crisi del 1929 interruppe una fase di sviluppo e comportò pesanti licenziamenti. La crisi venne superata grazie alle commesse pubbliche che dal 1933-1934 assunsero un marcato carattere bellico, in preparazione della conquista dell’impero. In quel periodo la popolazione residente era di 35.000 unità. Con il sopraggiungere della guerra le maestranze furono impegnate in uno sforzo massiccio. Nel 1942 le grandi aziende ebbero un notevole incremento di occupati, in gran parte donne e ragazzi a bassa qualificazione professionale. Con i bombardamenti ad opera degli Alleati su Milano, le sconfitte militari, le difficoltà negli approvvigionamenti alimentari e la borsa nera, la fabbrica divenne il centro della sopravvivenza quotidiana, con le mense e gli spacci aziendali. In quel periodo i lavoratori delle fabbriche dell’area industriale di Sesto San Giovanni erano oltre 50.000.
Con lo sviluppo dell’industria Sesto fu investita da una forte ondata migratoria e divenne un grande e ribollente crogiolo. Professionalità, saperi tecnici, culture e concezioni ideologiche e politiche fra loro diverse, ma tutte convergenti sui temi del lavoro, si confrontavano e si arricchivano reciprocamente. Permanevano fra i lavoratori legami professionali e regionali che erano quasi sempre anche politici. L’articolazione sociale della popolazione residente rimase molto semplice. A parte una piccolissima élite di tecnici di fabbrica e di intellettuali dediti alle professioni liberali e un piccolo strato di commercianti, Sesto San Giovanni sarà fino agli anni Sessanta una città operaia, la cui vita sociale e politica si svolgerà essenzialmente intorno alla fabbrica.
 
Cooperativa lavoratori sestesi (1950)
 
A partire dai primi anni Venti del secolo scorso, vi fu un diffuso senso comune antifascista animato dalla forte tradizione socialista e cattolica. Il movimento clandestino organizzava, dalla metà degli anni Trenta, l’infiltrazione nel Sindacato fascista e nei Dopolavoro aziendali, promuovendo vertenze e creando, specie dall’entrata in guerra dell’Italia, una diffusa conflittualità sociale. L’organizzazione clandestina, che aveva contatti anche a Milano, nell’hinterland e in Brianza, operava con una certa continuità, pur fra enormi difficoltà, in città e nelle principali fabbriche, svolgendo un’intensa attività di propaganda. Durante il ventennio numerosissimi militanti vennero arrestati e condannati al confino o deferiti al Tribunale Speciale. Nel frattempo l’organizzazione, composta dai militanti più anziani, alcuni "già passati per le galere fasciste", era rimasta in piedi e continuava il suo lavoro clandestino, che sfociò, il 23 marzo 1943 alle ore 10, nello sciopero partito dal Reparto Bulloneria della Falck Concordia e diffusosi nelle fabbriche sestesi e milanesi.

Sesto San Giovanni, proprio per i grandi scioperi operai e per il forte radicamento dei partiti di sinistra, verrà definita Stalingrado d’Italia. In questo blocco d’acciaio al quale "guardano tutti i lavoratori milanesi quando bisogna scendere in lotta", fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943 vi furono manifestazioni, scioperi a scacchiera per la pace, per la liberazione dei detenuti politici, per il ristabilimento delle principali libertà soppresse dal fascismo e per il miglioramento di mense e salari. Nelle grandi e medie aziende vennero elette le Commissioni Interne partendo dalle assemblee di reparto.


Operai si recano al lavoro negli anni Sessanta

Dall’1 all’8 marzo 1944 i Comitati segreti di agitazione del triangolo industriale organizzarono lo sciopero generale. Il sostegno di tutti i partiti del C.L.N. fu unanime e il Partito comunista clandestino vi profuse uno straordinario impegno organizzativo. Le fabbriche furono bloccate, tecnici e impiegati scesero in sciopero al fianco degli operai. Le rivendicazioni erano di natura politica e la svolta nella conduzione delle lotte fu evidente. La repressione nazifascista fu durissima e fu attuata sulla base di precisi elenchi fatti compilare dalle direzioni aziendali, dove figuravano, accanto a noti sovversivi, già confinati o passati per il Tribunale Speciale, lavoratori antifascisti e operai specializzati; 215 lavoratori vennero catturati in fabbrica e a casa, 211 vennero deportati nei Lager nazisti, 163 vi morirono, 2 vennero fucilati al Poligono di Cibeno (Carpi), 5 morirono dopo il loro rientro per le conseguenze della deportazione.

Dopo questa repressione la lotta di massa riprese con grande difficoltà in forme diverse e originali. Si diede vita a un movimento armato che sostituì le preesistenti Squadre di Difesa di Fabbrica con le Squadre di Azione Patriottica (S.A.P.). Esse avevano sempre come base la fabbrica, però con compiti offensivi. I lavoratori pendolari operavano quotidianamente con azioni di sabotaggio e propaganda in fabbrica e collaboravano alla costituzione e all’attività delle S.A.P. nei paesi della provincia.
Favoriti dall’avanzata alleata e dallo sbarco in Normandia si rafforzarono i legami delle grandi fabbriche con le brigate partigiane della montagna lariana e della Valtellina, verso le quali, attraverso canali clandestini, affluivano viveri, finanziamenti, armi catturate ai nazifascisti, combattenti e quadri di comando. Si attivavano patrocini con i distaccamenti delle Brigate partigiane: la Ercole Marelli, la Magneti Marelli e la Breda con la 55^ Brigata Garibaldi d’assalto Rosselli; la Pirelli con la 52^ Brigata Garibaldi Clerici e la Brigata Valgrande nel Verbano.
Quella di Sesto San Giovanni, grazie alla preponderante presenza di operai e tecnici delle grandi e medie fabbriche, fu una resistenza corale, dalle molte sfaccettature, che faceva riferimento sia ai partiti politici clandestini organizzati in fabbrica e in città, sia al tessuto associativo cattolico.
Il comandante della Brigata Nera, Aldo Resega, in una Relazione riservata del 28 dicembre 1944, scriverà: "altro da far saltare sarebbe il prevosto di Sesto San Giovanni, certo don Mapelli, che tanti danni ha arrecato al governo della Repubblica Sociale Italiana [...]. La parrocchia di Sesto San Giovanni è un formicaio di antifascisti, di ribelli di sabotatori".


Operai di Sesto durante uno sciopero

Oltre allo sciopero generale del marzo 1944, particolarmente significativi furono lo sciopero generale del 21 settembre 1944 che coinvolse Breda, Pirelli ed Ercole Marelli e quello del 23 novembre alla Pirelli Bicocca, dove i nazisti, capeggiati dal capitano delle SS Theo Saevecke, effettuarono 183 arresti. L’intervento della Direzione, peraltro minacciata di deportazione in blocco, valse a far rilasciare 27 operai. 156 lavoratori furono comunque avviati alla deportazione nei lager nazisti.

Su Sesto San Giovanni il comandante della G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana) della zona scriveva al Comando provinciale: "[...] è una vera maledizione questo centro industriale totalmente sovversivo. Lì sta veramente il cancro della Lombardia. Questa città rossa dovrebbe essere completamente distrutta al di fuori delle industrie con il sistema germanico. La popolazione maschile deportata in Germania".

Il 25 aprile 1945 venne dichiarato lo sciopero generale insurrezionale, le fabbriche vennero occupate dai lavoratori in armi. Entrava in funzione una rete difensiva attentamente organizzata e sufficientemente forte. I partigiani e i patrioti inquadrati nelle diverse brigate furono oltre tremila.
I caduti sui vari fronti della lotta di Liberazione sono stati 325 (in carcere, fucilati, caduti in combattimento e nei Lager nazisti).

Il 17 settembre 1972 il gonfalone della Città di Sesto San Giovanni veniva insignito della medaglia d’oro al valor militare per la lotta di Liberazione.

Beniamino Colnaghi

Fonti sitografiche e fotografiche
Sito web del comune di Sesto San Giovanni, La storia di Sesto - www.sestosg.net - febbraio 2013
Sito web del comune di Cinisello Balsamo, Le pietre raccontano -

 
 

martedì 5 febbraio 2013

Effetti
 
Verderio Superiore: "il nuovo camino" della cascina Isabella