venerdì 10 maggio 2013

Augusto Daolio e i Nomadi a Verderio

"...Beppe è di Novi, un paese vicino a Modena. Fin da bambino nutriva una grande passione per la musica, ma le possibilità economiche erano scarse. A nove anni i genitori gli comperarono una fisarmonica; appena undicenne si esibiva da solo con il suo strumento ai festini organizzati dai giovani della bassa modenese. Poi iniziò ad esibirsi con un suo amico, Leonardo Manfredini, che aveva imparato a suonare la batteria.
Avrebbero voluto iscriversi al conservatorio ma proprio non era possibile; così terminate le scuole dell'obbligo, cominciò a lavorare dapprima presso una fabbrica di portaombrelli, poi in un calzaturificio, infine come addetto alla custodia delle acque minerali. Alla sera, però, continuava a suonare.
Nel 1961 fondò il primo complessino con altri ragazzi del paese. I Monelli, questo era il nome del gruppo, ma nel 1962 si accorsero che il nome stava un pò stretto e decisero di chiamarsi Nomadi, espressione di un desiderio incontenibile di viaggiare, trovare posti e gente, farsi conoscere.
Proprio quell'anno, era il 1962, Beppe conobbe Franco Midili, chitarrista di Novellara, s'incontrarono in una balera, d'estate, a Moglia, in provincia di Mantova. Franco suonava in un altro gruppo, Beppe gli propose di entrare nei Nomadi, che non avevano un assetto ancora definito.
I genitori spesso facevano pressioni perché i giovani desistessero e si dedicassero ad attività più sicure.
Nel 1963 Franco disse a Beppe che conosceva un ragazzo di Novellara di 16 anni, canterino. A Trecenta, durante una serata, Franco chiamò il ragazzo sul palco, cantò quattro pezzi e piacque moltissimo.
Quel ragazzo era Augusto Daolio...era il 1963."1
 
Augusto Daolio al Cantagiro del 1967.
Questa fotografia è nel pubblico dominio poiché il copyright è scaduto.

"Sono nato il diciotto febbraio 1947 a Novellara di Reggio Emilia, nel cuore della notte mentre freddo e brina duellavano con rami secchi di pioppi e tigli. Sono nato al caldo e mi hanno chiamato Augusto, come un nonno che non ho mai conosciuto. Il cognome Daolio mi è stato dato da un uomo semplice e a suo modo dolce e complice. Dall'età di sedici anni canto in un gruppo che si chiama Nomadi, scrivo canzoni e giro il mondo. C'è un altro mondo dentro di me che racconto con il disegno e la pittura, lo faccio da parecchi anni e alberi, rocce, cieli, lune, ombre e altro popolano questi miei racconti. Ho esposto in giro per l'Italia, ho illustrato dischi, libri, cartoline, manifesti. Non disegno per riempire un vuoto ma per vuotare un pieno che è dentro di me e preme. Una specie di confessione, prima ad uno spazio bianco, poi ad occhi che guarderanno. Ho lo studio a Novellara in via de Amicis, il numero credo sia il quarantaquattro, non ho il telefono ma montagne di libri e di oggetti. Le notti invernali nella bassa hanno ancora il profumo delle mele sull'armadio."2
 
I nomadi nel 1972.
Fotografia nel pubblico dominio.
 
Augusto Daolio nasce dunque il 18 febbraio, lo stesso giorno in cui è nato Fabrizio De Andrè.
Inizia a sedici anni la sua avventura musicale con il complesso dei Nomadi, attività che fu per lui, fino agli ultimi momenti della sua vita, essenziale e per la quale il suo impegno fu totale. L'attività musicale di Augusto, leader carismatico del complesso, ha segnato un'epoca e per tanti giovani degli anni Sessanta e Settanta le canzoni dei Nomadi furono una bandiera. Non solo perché denunciavano il grande disagio di una gioventù che si sentiva testimone occulta dell'olocausto e che viveva il malessere di una società in crisi di identità, ma anche perché contestavano l'impostazione di un costume che si reggeva sull'ipocrisia e il perbenismo. Anche se quei giovani ormai sono diventati padri, e alcuni nonni, quelle canzoni continuano a vivere nei loro cuori e l'amore per queste è stato trasmesso ai loro figli e nipoti. Le canzoni dei Nomadi coinvolgono almeno tre generazioni di persone. Questo a dimostrare che, quando le grandi tematiche della vita diventano un "sentire comune", non esiste un salto generazionale.
Le attività che ha intrapreso lo hanno portato a girare il mondo e, nonostante il profondo legame con la sua terra d'origine, era un cosmopolita o, meglio, "un uomo del mondo, un uomo del mio tempo, ma anche un uomo antico". Era autodidatta, pieno di curiosità e di una carica vitale che gli permisero di vivere un'intensa seppur breve carriera artistica.
 
Il 6 settembre 1990, due anni prima della sua morte, Augusto Daolio è a Verderio. I Nomadi tengono un memorabile ed entusiasmante concerto alla Festa de l’Unità. La serata musicale è stata vissuta dai tantissimi partecipanti con senso di partecipazione e appartenenza verso quel gruppo storico della canzone popolare italiana. Augusto ed i Nomadi sono stati straordinari e coinvolgenti, tanto che ancora oggi molti verderiesi ricordano quel concerto con commozione e affetto.
Le tre foto che seguono riguardano alcuni momenti del concerto tenuto a Verderio nel 1990.

 
 
 
 
 
 
Augusto muore a Novellara il 7 ottobre 1992, a soli 45 anni, per un cancro ai polmoni.
Il vuoto che ha lasciato è incolmabile, e lo testimoniano le migliaia di persone che ancor oggi si recano al cimitero di quel paese solo per un saluto o per respirare le atmosfere a lui care.
Per rendersi conto che Daolio e i Nomadi non erano solo musica e canzoni, bisogna fare un salto a Novellara, nella bassa reggiana. Tra odori di salumifici e silenzi di campagna, un culto molto particolare si è venuto consolidando, a partire dalla prematura scomparsa di Augusto. Lo hanno sistemato in un angolo di terra, fra ciò che resta di bambini morti subito dopo il parto. E già questa scelta ha in sé un significato simbolico: come se Daolio, con la sua voce generosa e con quella barbona lunga che quasi gli conferiva un'aria ieratica da santone, continuasse ad esprimere i valori semplici dei favolosi anni Sessanta, gli anni della contestazione anche ingenua ma generosa. Contro tutti i luoghi comuni, contro tutte le forme di ingiustizia.
Così, l'ultima dimora di Augusto è ancora uno spettacolo, ammesso che possa essere definita tale la sede dell'estremo riposo. Il sasso umido è stato circondato da piccoli alberelli. Sulla pietra tombale c'è di tutto: pupazzetti, cartine, accendini, anelli, cuori e altri souvenir da sembrare un albero di Natale. Qualche anima buona ha piazzato un piccolo scaffale in legno per sistemare centinaia di oggettini, cerchietti per capelli, anellini, bracciali, perfino una tessera da alpino. Ci sono due aironi in metallo per ricordare l'impegno di Augusto in favore degli uccelli che lì vicino avevano deciso di stabilirsi, un pallone, disegni, fotografie. Ma soprattutto colpiscono i messaggi. Su un pezzo di legno "scolpito dalle acque del Po" il fan club di Carmagnola ha inciso la frase "Il fiume riporta quello che trova". Sotto un dipinto su vetro c'è scritto "Muore l'uomo, ma immortale è il poeta le cui canzoni sono il palpito del cuore del suo popolo". E ancora :"Sono qui ad applaudire il tuo silenzio", "Salutami le stelle", e lattine di birra, crocefissi, accendini con l'effige di Che Guevara e rosari, foto di concerti e santini di Padre Pio. Il sacro e il profano si toccano e si mischiano in una contaminazione fantastica che forse non è casuale. Se qualcuno pensava che queste cose accadessero solo al cimitero Père-Lachaise di Parigi, dove c'e' la tomba di Jim Morrison, o sui sepolcri di Elvis Presley e Jimi Hendrix, dovrà ricredersi. Qui nel cuore dell'Emilia operosa e rocchettara vive un culto che non ha nulla a che invidiare ai miti stranieri. A Novellara la gente va e viene, assiste quieta e complice a questa celebrazione infinita.

Augusto Daolio.
Fotografia nel pubblico dominio poiché il copyright è scaduto.

Ha detto recentemente Beppe Carletti: “Non abbiamo mai litigato, non ce n’era bisogno, ognuno sapeva cosa doveva fare e lo faceva, con lui ho vissuto, suonato, pianto, mi sono cambiato nei camper…”. Ma forse la loro è una di quelle amicizie che per raccontarle, basta partire dalla fine. “Stava morendo, lottava col suo male, e un giorno mi fa Oh Beppe, quando starò bene prendiamo le nostre donne e andiamo a fare il giro del mondo?”.
 

Beniamino Colnaghi
 
Note e riferimenti bibliografici
1 Davide Carletti, “I Nomadi. Il suono delle idee: 1963 – 1993”, Arcana, 1993, sintesi della prefazione.
2 Dichiarazione di Augusto Daolio tratta dal sito www.augustoperlavita.it/: i pensieri.
3 Intervista di Beppe Carletti a il Fatto Quotidiano del 29.03.2013

venerdì 3 maggio 2013

Il baco da seta


Questo è il racconto di un periodo della mia vita, legato a un indimenticabile e vivo ricordo che considero come una pagina di storia del nostro paese.
 
Nel secolo scorso si allevavano i bachi da seta, chiamati in dialetto “cavalée”.
I contadini possedevano diversi appezzamenti di terreno, in cui erano disposti in fila rigogliosi alberi di gelso, in dialetto “muròn”. Le foglie di questi alberi servivano per nutrire i bachi.

Verderio Superiore, 1940. Ampia distesa di gelsi. Sullo sfondo la Grigna ed il Resegone.
 
L’allevamento dei bachi iniziava nel mese di maggio e terminava in quello di giugno, era affidato principalmente alle donne di casa che provvedevano a comprare dei grandi fogli di carta e i bachi stessi, che acquistavano in once. I bachi erano animaletti piccolissimi che sembravano tante formichine fuoriuscite da uova, venivano subito nutriti in modo che di giorno in giorno crescessero velocemente e si moltiplicassero.

Verderio Superiore. La rotonda del gelso, in prossimità del cimitero del paese.

In attesa della riproduzione dei bachi gli uomini dovevano preparare delle tavolozze di canne di bambù, disposte a strati su una o più strutture verticali, calcolando con precisione la distanza fra una tavolozza e l’altra. Queste strutture venivano sistemate in cucina e a volte persino nelle camere da letto, quando i contadini non avevano a disposizione altri locali liberi ed era prevista una maggiore produzione. In questo caso alcune persone della famiglia di notte dovevano dormire nel fienile.
Visto che la cucina era occupata, per cucinare si usava il portico che solitamente rappresentava il deposito del carretto del contadino.

Friuli, 1929. L'allevamento dei bachi da seta (fonte: storiastoriepn.it)

Una volta preparata la struttura, il lavoro passava alle donne che prendevano i fogli con i bachi e li stendevano sulle tavolozze. Quindi accendevano il camino, perché i bachi richiedevano un ambiente sano e asciutto e una temperatura di circa 19 - 20 gradi ed era necessario inoltre che restassero al buio per tutto il tempo dell’allevamento. La luce a petrolio veniva usata solamente quando le donne dovevano pulire le tavolozze e dare ai bachi le foglie di gelso.
 
I bachi venivano nutriti due volte al giorno, tranne un giorno alla settimana in cui venivano lasciati dormire. Al loro risveglio riprendevano a mangiare voracemente e così crescevano preparandosi a tessere i bozzoli.

Un altro compito degli uomini era quello d’infilare dei ramoscelli secchi fra le tavolozze su cui i bachi maturi si arrampicavano per tessere i bozzoli, chiamati in dialetto “galet”.
Questi bozzoli erano di tre colori: gialli, rosa e bianchi.
Nel periodo della maturazione i bachi producevano un filo di seta con cui costruivano una specie di ragnatela, in mezzo alla quale producevano i bozzoli.
Il particolare, questa operazione consisteva che i bachi costruivano le ragnatele intorno a sé stessi e così facendo si chiudevano all’interno dei bozzoli.

Lombardia, 1941. Raccolta dei bozzoli (fonte: lombardiabeniculturali.it)

Una volta terminato il lavoro dei bachi, le donne prendevano tutti i ramoscelli pieni di bozzoli e li adagiavano su un panno pulito steso per terra. Quindi preparavano dei cestini in cui mettevano i bozzoli, una volta tolta la ragnatela di seta che li avvolgeva. Prima di depositare i bozzoli nel cestino le donne li selezionavano, agitandoli uno ad uno per capire dal rumore se fossero sani o guasti. Se il baco era morto non si sentiva nessun rumore e in breve tempo il bozzolo era destinato a marcire, per cui doveva essere scartato.

La falena sul bozzolo (fonte wikipedia.it)

Terminato il lavoro i bozzoli venivano consegnati a chi si occupava della raccolta, detta in dialetto “all’ammasso”.
La loro vendita alle filande portava discreti benefici economici a tutta la famiglia, anche se la produzione costava sacrifici e non sempre si rivelava proficua.

La provincia di Como era considerata la patria della seta, grazie soprattutto al lavoro umile e appassionato dei suoi contadini.

Livia Colnaghi

mercoledì 1 maggio 2013

Liberi


Vietnam, 30 aprile 1975. Giovani vietnamiti con la bandiera
del Fronte di Liberazione Nazionale entrano a Saigon liberata.