domenica 1 ottobre 2017

Le case di ringhiera, edifici tipici del Nord Italia, e la storia di un ombrello nero

Il ricordo più nitido che ho riguardo le case di ringhiera nasce e si sviluppa nel palazzo dove abitava la sorella di mio nonno, a Cinisello Balsamo.  Del ricordo sono parte integrante un ombrello nero, di tela, come usavano una volta, e lo sguardo di rimprovero di mio padre.
Prima di arrivare all’ombrello nero, però, devo fare un salto indietro di oltre mezzo secolo e spiegare brevemente gli antefatti.
I miei bisnonni materni, Natale Scotti (1864) e Teresa Airoldi (1868), nacquero entrambi a Porto d’Adda, allora provincia di Milano, e lì risiedettero fino alla loro morte. Ebbero quattro figli: mio nonno Giuseppe nel 1899 e tre femmine, Rosa, Giovanna e Angelina. Rosa rimase “zitella” e ben presto lasciò il paese per andare a servizio presso una famiglia della borghesia milanese. Giovanna morì abbastanza giovane mentre Angelina, l’ultimogenita, prese marito a Cinisello Balsamo, da poco unificato a causa della politica del regime fascista in tema di accorpamento forzato dei comuni.
La nuova famiglia si stabilì in un quartiere costruito nei primi anni del secolo scorso da una cooperativa edilizia locale. Gran parte del quartiere era formato pressoché da palazzi di tre-quattro piani dotati del cortile interno condominiale, sul quale si affacciavano tutte le unità immobiliari, che condividevano la stessa ringhiera, o ballatoio. In buona sostanza la porta di ingresso di ogni unità abitativa si trovava su un unico e lungo ballatoio comune che correva lungo tutto il piano, interrotto solamente dall’accesso alla rampa delle scale. Spesso le case avevano nel cortile un altarino, una piccola edicola votiva o un affresco dedicati alla Madonna o a qualche santo prediletto. Durante la festa patronale i segni della religiosità popolare e della fede erano più illuminati del solito e lungo le ringhiere si stendevano le sandaline e le ghirlande di fiori di carta.



Le case a ringhiera rappresentavano un vero e proprio modello abitativo, non solo architettonico, ma anche un modello sociale di relazioni, perché lì i numerosi bambini si ritrovavano a giocare tutti insieme, i giovani s’innamoravano lungo i ballatoi, gli uomini si scambiavano le vicissitudini della vita e le esperienze della fabbrica, le donne “esportavano” il lavoro della casa, tra rammendi, mastelli e secchi per il bucato. Si condivideva tutto in quegli edifici, dalle chiacchiere delle donne anziane alle liti tra coniugi ai rumori dei primi elettrodomestici che facevano capolino nella società italiana che stava pian piano rialzando la testa dopo oltre un ventennio di dittatura fascista e di guerra. 
Le case di ringhiera erano presenti un po’ in tutte le città del Nord Italia. Milano e il suo hinterland ne erano pieni. Non riguardavano solamente le case popolari, ma a Milano anche alcuni palazzi della piccola e media borghesia ne erano adorni.
V’erano infatti ringhiere e ringhiere.  
V’erano quelle dei fatiscenti palazzi di Porta Ticinese, di piazza Vetra, di alcune vie che si affacciavano sui navigli che si aprivano su abitazioni di un solo locale, dove spesso si annidavano personaggi furtivi o sbandati. V’erano le ringhiere popolose e chiassose delle case di Porta Comasina, di Porta Vittoria, di Corso Garibaldi e di altri rioni milanesi dove viveva un popolo laborioso, composto, per la maggior parte, da operai delle officine e delle grandi fabbriche di Milano e del suo hinterland. V’erano poi le ringhiere delle case del centro, normalmente più ordinate, più pulite, spesso trasformate in piccoli giardini, con i gerani e altri fiori riposti nelle fioriere e i rampicanti che formavano deliziosi pergolati. Su queste ringhiere di case borghesi si aprivano non più di tre o quattro appartamenti per ogni piano, senza che ciò, tuttavia, togliesse socialità e vicinanza tra le famiglie residenti.  
La ringhiera, nella maggior parte dei casi, avvicinava, affratellava più d’ogni altro mezzo moderno di convivenza sociale. Sui ballatoi si organizzavano gite e scampagnate, gare di bocce e tornei di carte, feste e matrimoni. In quei tempi, la ringhiera era uno dei luoghi, parimenti al circolo, all’oratorio, all’osteria dove si “produceva” socialità. Certo, i pettegolezzi erano all’ordine del giorno, qualche vecchia ruggine o beghe di cortile potevano creare piccole tensioni e malumori ma la “filosofia” di quelle case tendeva poi a riappacificare, unire, creare le condizioni per sanare i contrasti.

Dopo aver cercato di spiegare come erano strutturate le case di ringhiera e quale fosse il modello sociale che in esse regnava, vorrei ritornare alle ringhiere del palazzo di Cinisello Balsamo, ove viveva la sorella di mio nonno. E all’ombrello nero.
Nei primi anni Sessanta capitava spesso che i miei genitori mi portassero a far visita ai miei nonni materni, nel frattempo trasferitisi da Porto d’Adda a Milano, e alle due zie di mia madre. Allora la famiglia “allargata” era una realtà forte e le relazioni tra i miei parenti erano buone. L’occasione per far visita alla zia Angelina, rimasta vedova da pochi mesi, fu l’avvicinarsi della ricorrenza dei defunti e la doverosa visita al cimitero di Balsamo, ove era stato sepolto il corpo dello zio Luigi, Luisin per i parenti. Era una domenica di fine ottobre. Grigia, triste, piovigginosa. Mio zio parcheggiò la Fiat 600 bianca sulla via e tutti insieme ci dirigemmo verso il portone del palazzo a ringhiera, cominciando a salire le scale che conducevano al terzo piano. Ciò che per anni rimase nella mia mente di bambino nato e vissuto in un piccolo paese brianzolo fu l’impatto con il contesto abitativo e urbano che mi circondava. Palazzi alti, fitti, che si rincorrevano uno dopo l’altro, incroci di strade, gente che sembrava sempre indaffarata. Tutto ciò mi incuriosiva e, nello stesso tempo, mi rendeva abbastanza insofferente. Molto probabilmente fu con questo stato d’animo che mi approcciai a far visita alla zia Angelina. Dalla zia Rosa ricordo che ci andavo più volentieri, per via del fatto che, sopra una credenza del salotto buono, arredato con mobili d’epoca, argenteria e soprammobili di pregio, erano posti dei vasi di vetro finemente decorati, colmi di piccoli confettini bianchi ripieni di rosolio, caramelle alla liquirizia e zuccherini colorati all’anice, che mi venivano regolarmente offerti. La zia Angelina, invece, aveva il braccino più corto e, se andava bene, mi toccavano dei biscottini con il tè.
Dopo i saluti di rito e gli sbaciucchiamenti della zia e delle cugine chiesi a mia madre di poter uscire sul ballatoio. “Sì, ma non sporgerti dalla ringhiera, può essere pericoloso… e rimani qui sul piano”, ammonì mio padre. Appena fuori cominciai a correre lungo gli stretti ballatoi, da un capo all’altro del palazzo. Incrociai il vano scale e subito fui colto dall’istinto di salire le scale fino al quarto piano, l’ultimo, il più alto. Non c’ero mai stato. Con sguardo furtivo diedi un’occhiata alla porta della casa della zia e, sentendo che i miei parenti discutevano amabilmente al suo interno, cominciai a salire le due rampe di scale. Al piano superiore, nella zona centrale della ringhiera, sapevo che abitavano due vecchie signore, anch’esse vedove, amiche della zia Angelina: la Rusèta (Rosa, Rosetta…) e la Teresina.
Causa la giornata di pioggia, la Rosetta aveva lasciato appeso sul corrimano della ringhiera il suo ombrello nero, grande, massiccio, con il manico di legno, come usava in quel tempo.
Erano già ormai diversi minuti che gironzolavo sui ballatori e per timore che mio padre mi stesse cercando feci per allontanarmi dalla casa della Rosetta e scendere al piano di sotto, quando mi venne in mente che avrei potuto fare qualcosa con quell’ombrello. Ritornai sui miei passi, raggiunsi l’ombrello, lo afferrai e, in una frazione di secondo, decisi che lo avrei lanciato giù in cortile. Un volo di quattro piani. Non avevo mai visto cadere un oggetto da un’altezza simile, neanche dal palazzo dove abitavano i miei nonni a Milano, che di piani ne aveva cinque. Detto, fatto. Ovviamente l’ombrello si sfracellò al suolo, il manico di legno si ruppe in alcuni pezzi e la maggior parte delle bacchettine metalliche si piegarono. Il botto richiamò l’attenzione di alcuni residenti del primo piano che, guardando verso l’alto, scorsero un bambinetto di 6 anni dalla testa ricciuta, che, colta al volo la mala parata, cominciò a correre giù dalle scale e dirigersi verso la casa della zia Angelina. Entrai un po’ trafelato e mi misi a sedere vicino a mia madre, temendo le conseguenze del mio gesto. Della Rosetta, ma soprattutto di mio padre. Non erano trascorsi più di un paio di minuti quando dal cortile si levò una voce femminile che invitava la zia Angelina a scendere. Ven giò un moment. Ma il vociare dal cortile e il trambusto che si era nel frattempo levato attirarono i miei parenti sul ballatoio, compresi i miei genitori, che ci misero davvero poco a comprendere la dinamica dell’accaduto e a individuare il responsabile. Che venne “salvato” dalla bontà cristiana della Rusèta, la quale, in buona sostanza, mi definì piccolo pargoletto innocente del Signore e che simili gesti potevano essere perdonati ad un angioletto di sei anni. Mio padre, con la faccia scura e lo sguardo severo, dopo essersi scusato con la Rosetta, si impegnò a comprarle un ombrello nuovo. Però, precisò la vecchietta, al voeri ner col manic de legn.

Beniamino Colnaghi

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