Il
ricordo più nitido che ho riguardo le case di ringhiera nasce e si sviluppa nel palazzo dove abitava la sorella di mio nonno, a Cinisello Balsamo. Del ricordo sono parte integrante un ombrello nero, di tela,
come usavano una volta, e lo sguardo di rimprovero di mio padre.
Prima
di arrivare all’ombrello nero, però, devo fare un salto indietro di oltre mezzo
secolo e spiegare brevemente gli antefatti.
I
miei bisnonni materni, Natale Scotti (1864) e Teresa Airoldi (1868), nacquero
entrambi a Porto d’Adda, allora provincia di Milano, e lì risiedettero fino
alla loro morte. Ebbero quattro figli: mio nonno Giuseppe nel 1899 e tre
femmine, Rosa, Giovanna e Angelina. Rosa rimase “zitella” e ben presto lasciò
il paese per andare a servizio presso una famiglia della borghesia milanese.
Giovanna morì abbastanza giovane mentre Angelina, l’ultimogenita, prese marito
a Cinisello Balsamo, da poco unificato a causa della politica del regime
fascista in tema di accorpamento forzato dei comuni.
La
nuova famiglia si stabilì in un quartiere costruito nei primi anni del secolo
scorso da una cooperativa edilizia locale. Gran parte del quartiere era formato
pressoché da palazzi di tre-quattro piani dotati del cortile interno condominiale,
sul quale si affacciavano tutte le unità immobiliari, che condividevano la
stessa ringhiera, o ballatoio. In buona sostanza la porta di ingresso di ogni
unità abitativa si trovava su un unico e lungo ballatoio comune che correva
lungo tutto il piano, interrotto solamente dall’accesso alla rampa delle scale.
Spesso le case avevano nel cortile un altarino, una piccola edicola votiva o un
affresco dedicati alla Madonna o a qualche santo prediletto. Durante la festa
patronale i segni della religiosità popolare e della fede erano più illuminati del
solito e lungo le ringhiere si stendevano le sandaline e le ghirlande di fiori
di carta.
Le
case a ringhiera rappresentavano un vero e proprio modello abitativo, non solo
architettonico, ma anche un modello sociale di relazioni, perché lì i numerosi
bambini si ritrovavano a giocare tutti insieme, i giovani s’innamoravano lungo
i ballatoi, gli uomini si scambiavano le vicissitudini della vita e le
esperienze della fabbrica, le donne “esportavano” il lavoro della casa, tra
rammendi, mastelli e secchi per il bucato. Si condivideva tutto in quegli
edifici, dalle chiacchiere delle donne anziane alle liti tra coniugi ai rumori
dei primi elettrodomestici che facevano capolino nella società italiana che
stava pian piano rialzando la testa dopo oltre un ventennio di dittatura
fascista e di guerra.
Le
case di ringhiera erano presenti un po’ in tutte le città del Nord
Italia. Milano e il suo hinterland ne erano pieni. Non riguardavano solamente
le case popolari, ma a Milano anche alcuni palazzi della piccola e media
borghesia ne erano adorni.
V’erano
infatti ringhiere e ringhiere.
V’erano
quelle dei fatiscenti palazzi di Porta Ticinese, di piazza Vetra, di alcune vie
che si affacciavano sui navigli che si aprivano su abitazioni di un solo
locale, dove spesso si annidavano personaggi furtivi o sbandati. V’erano le
ringhiere popolose e chiassose delle case di Porta Comasina, di Porta Vittoria,
di Corso Garibaldi e di altri rioni milanesi dove viveva un popolo laborioso,
composto, per la maggior parte, da operai delle officine e delle grandi
fabbriche di Milano e del suo hinterland. V’erano poi le ringhiere delle case
del centro, normalmente più ordinate, più pulite, spesso trasformate in piccoli
giardini, con i gerani e altri fiori riposti nelle fioriere e i rampicanti che
formavano deliziosi pergolati. Su queste ringhiere di case borghesi si aprivano
non più di tre o quattro appartamenti per ogni piano, senza che ciò, tuttavia,
togliesse socialità e vicinanza tra le famiglie residenti.
La
ringhiera, nella maggior parte dei casi, avvicinava, affratellava più d’ogni
altro mezzo moderno di convivenza sociale. Sui ballatoi si organizzavano gite e
scampagnate, gare di bocce e tornei di carte, feste e matrimoni. In quei tempi,
la ringhiera era uno dei luoghi, parimenti al circolo, all’oratorio,
all’osteria dove si “produceva” socialità. Certo, i pettegolezzi erano
all’ordine del giorno, qualche vecchia ruggine o beghe di cortile potevano
creare piccole tensioni e malumori ma la “filosofia” di quelle case tendeva poi
a riappacificare, unire, creare le condizioni per sanare i contrasti.
Dopo
aver cercato di spiegare come erano strutturate le case di ringhiera e quale
fosse il modello sociale che in esse regnava, vorrei ritornare alle ringhiere
del palazzo di Cinisello Balsamo, ove viveva la sorella di mio nonno. E
all’ombrello nero.
Nei
primi anni Sessanta capitava spesso che i miei genitori mi portassero a far
visita ai miei nonni materni, nel frattempo trasferitisi da Porto d’Adda a Milano,
e alle due zie di mia madre. Allora la famiglia “allargata” era una realtà forte
e le relazioni tra i miei parenti erano buone. L’occasione per far visita alla
zia Angelina, rimasta vedova da pochi mesi, fu l’avvicinarsi della ricorrenza
dei defunti e la doverosa visita al cimitero di Balsamo, ove era stato sepolto il
corpo dello zio Luigi, Luisin per i
parenti. Era una domenica di fine ottobre. Grigia, triste, piovigginosa. Mio zio
parcheggiò la Fiat 600 bianca sulla via e tutti insieme ci dirigemmo verso il portone
del palazzo a ringhiera, cominciando a salire le scale che conducevano al terzo
piano. Ciò che per anni rimase nella mia mente di bambino nato e vissuto in un
piccolo paese brianzolo fu l’impatto con il contesto abitativo e urbano che mi
circondava. Palazzi alti, fitti, che si rincorrevano uno dopo l’altro,
incroci di strade, gente che sembrava sempre indaffarata. Tutto ciò mi incuriosiva
e, nello stesso tempo, mi rendeva abbastanza insofferente. Molto probabilmente
fu con questo stato d’animo che mi approcciai a far visita alla zia Angelina. Dalla zia Rosa ricordo che ci andavo più volentieri, per via del fatto che, sopra
una credenza del salotto buono, arredato con mobili d’epoca, argenteria e
soprammobili di pregio, erano posti dei vasi di vetro finemente decorati, colmi
di piccoli confettini bianchi ripieni di rosolio, caramelle alla liquirizia e zuccherini
colorati all’anice, che mi venivano regolarmente offerti. La zia Angelina,
invece, aveva il braccino più corto e, se andava bene, mi toccavano dei
biscottini con il tè.
Dopo
i saluti di rito e gli sbaciucchiamenti della zia e delle cugine chiesi a mia
madre di poter uscire sul ballatoio. “Sì, ma non sporgerti dalla ringhiera, può
essere pericoloso… e rimani qui sul piano”, ammonì mio padre. Appena fuori
cominciai a correre lungo gli stretti ballatoi, da un capo all’altro del
palazzo. Incrociai il vano scale e subito fui colto dall’istinto di salire le
scale fino al quarto piano, l’ultimo, il più alto. Non c’ero mai stato. Con
sguardo furtivo diedi un’occhiata alla porta della casa della zia e, sentendo
che i miei parenti discutevano amabilmente al suo interno, cominciai a salire
le due rampe di scale. Al piano superiore, nella zona centrale della ringhiera,
sapevo che abitavano due vecchie signore, anch’esse vedove, amiche della zia
Angelina: la Rusèta (Rosa, Rosetta…) e
la Teresina.
Causa
la giornata di pioggia, la Rosetta aveva lasciato appeso sul corrimano della
ringhiera il suo ombrello nero, grande, massiccio, con il manico di legno, come
usava in quel tempo.
Erano
già ormai diversi minuti che gironzolavo sui ballatori e per timore che mio
padre mi stesse cercando feci per allontanarmi dalla casa della Rosetta e
scendere al piano di sotto, quando mi venne in mente che avrei potuto fare
qualcosa con quell’ombrello. Ritornai sui miei passi, raggiunsi l’ombrello, lo
afferrai e, in una frazione di secondo, decisi che lo avrei lanciato giù in cortile. Un volo di quattro piani. Non avevo mai visto
cadere un oggetto da un’altezza simile, neanche dal palazzo dove abitavano i
miei nonni a Milano, che di piani ne aveva cinque. Detto, fatto. Ovviamente
l’ombrello si sfracellò al suolo, il manico di legno si ruppe in alcuni pezzi e
la maggior parte delle bacchettine metalliche si piegarono. Il botto richiamò
l’attenzione di alcuni residenti del primo piano che, guardando verso l’alto,
scorsero un bambinetto di 6 anni dalla testa ricciuta, che, colta al volo la mala parata, cominciò a correre giù
dalle scale e dirigersi verso la casa della zia Angelina. Entrai un po’
trafelato e mi misi a sedere vicino a mia madre, temendo le conseguenze del mio
gesto. Della Rosetta, ma soprattutto di mio padre. Non erano trascorsi più di
un paio di minuti quando dal cortile si levò una voce femminile che invitava la
zia Angelina a scendere. Ven giò un
moment. Ma il vociare dal cortile e il trambusto che si era nel frattempo
levato attirarono i miei parenti sul ballatoio, compresi i miei genitori, che
ci misero davvero poco a comprendere la dinamica dell’accaduto e a individuare
il responsabile. Che venne “salvato” dalla bontà cristiana della Rusèta, la quale, in buona sostanza, mi
definì piccolo pargoletto innocente del
Signore e che simili gesti potevano essere perdonati ad un angioletto di sei anni. Mio padre, con la faccia scura e lo sguardo severo, dopo essersi
scusato con la Rosetta, si impegnò a comprarle un ombrello nuovo. Però, precisò la vecchietta, al voeri ner col manic de legn.
Beniamino Colnaghi
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.