In Italia, per molti secoli
la legge santificò lo sfruttamento da parte di una casta di privilegiati di una
folla sterminata di “sudditi” che mai avevano potuto sperimentare le basi seppur minime della cittadinanza
e della democrazia, che erano stati educati a considerare legge di natura, o
legge divina, la divisione del mondo tra potenti e impotenti. Per un popolo
composto in massima misura da contadini, che nel 1861 (Unità d’Italia) raggiungeva
circa l’80% di analfabeti, l’unica alternativa possibile appariva quella tra il
padrone cattivo e quello buono, immaginato di volta in volta nelle vesti ora
del principe illuminato, ora del papa re, ora dell’uomo della provvidenza, ora
del duce. La legge restava comunque la
voce del vincitore di turno in un’ininterrotta lotta per il potere che si
giocava sempre sopra la testa e spesso sulla pelle del popolo, mandato al
massacro come carne da cannone in battaglia e strumentalizzato dalle varie fazioni
di potenti. Considerato che in quel periodo storico i
contadini erano condannati all’ignoranza, alla superstizione ed alla fame, e
che in Italia meno del 10% della popolazione concentrava nelle proprie mani
circa il 90% della ricchezza nazionale, la legge era, come scriveva Gaetano
Salvemini, “la voce del padrone”.
I territori che formavano la Brianza(1)
nell’Ottocento, e fin oltre la prima guerra mondiale, erano tra i più poveri della
Lombardia. Terre non sempre fertili, pellagra endemica e sfruttamento dei grandi
proprietari terrieri erano i tre cardini attorno ai quali si snodava la
quotidianità dei contadini e delle loro numerose famiglie. Dal punto di vista
della proprietà e del potere di disporre la lavorazione dei terreni troviamo
due attori principali: la Chiesa e le famiglie dell’aristocrazia lombarda che,
residenti a Milano gran parte dell’anno, delegavano la gestione ed il controllo
dei possedimenti a uomini di fiducia. I contadini, abitanti delle numerose
cascine di proprietà dell’aristocratico, regolavano i loro rapporti con i
proprietari terrieri con i contratti di mezzadria, trasformatisi poi nei cosiddetti “rapporti parziari”(2).
Brianza, carta topografica dello Stato di Milano (1777)
La famiglia mezzadrile era patriarcale e organizzata
attorno all’uomo più anziano detto reggitore o, dialettalmente, regiù.
Poteva essere composta da più coppie e anche da membri affini, essendo la sua
estensione direttamente collegata all’ampiezza del terreno per il quale si
poteva essere chiamati a lavorare con un contratto di mezzadria firmato tra il capo-famiglia e il padrone, o fattore (suo delegato). I
contadini offrivano la forza lavoro e una parte dei mezzi di produzione, il
padrone rendeva disponibile il proprio appezzamento di terra. In cambio, la
famiglia mezzadrile riceveva i prodotti sufficienti per la sussistenza, mentre
tutto il rimanente, il plus-valore, era dato al proprietario terriero che lo
immetteva nei mercati e lo trasformava in moneta.
La mezzadria in Brianza fu dunque un sistema
strutturato, fondato su un potere molto ingiusto in cui gli obblighi economici
e sociali e al senso di lealtà della famiglia contadina si contrapponeva
l’impegno di protezione e di aiuto nelle situazioni di emergenza da parte del
proprietario. L’autorità di stampo paternalistico che emanava dal suo ruolo
sociale, coadiuvata dal prestigio e della propria reputazione, costituivano le
basi su cui si fondava il rapporto tra proprietario e famiglie mezzadrili. Le
successive modificazioni dei contratti di mezzadria verso i contratti colonici
parziari e la frammentazione delle proprietà terriere non hanno comunque
cambiato la questione di fondo: l’estrema povertà e subalternità dei contadini
lombardi pur essendo l’attiva forza lavoro al centro di un mercato ricco
completamente regolato dai proprietari terrieri. Le famiglie contadine, infatti,
seppur in possesso di forza lavoro e mezzi di produzione, non riuscivano mai a
farsi attori centrali del loro lavoro, essendo i patti agrari stipulati sempre
a favore del proprietario terriero. L’impossibilità di uscire dalla loro
condizione subalterna aveva due possibili soluzioni: l’emigrazione, poco
praticata nella zona, oppure l’esercizio di un secondo lavoro che garantisse
una ulteriore fonte di reddito. Numerose famiglie affiancarono all’agricoltura
un’attività nel settore della manifattura della seta. All’incirca dalla fine di
aprile ai primi di giugno i contadini dovevano anche seguire l’allevamento del
baco da seta, molto sviluppato nella zona brianzola e in quella comasca. Questa
in realtà si dimostrò in parte una soluzione, perché incapparono nuovamente in
rapporti di produzione subalterni e di pesante sfruttamento.
Intere famiglie coloniche intente a lavorare il baco da seta
Come già accennato in precedenza, l’affiancare
attività lavorativa nella manifattura a quella agricola era una soluzione
praticata da molte famiglie di mezzadri per limitare l’impatto della povertà. La disoccupazione stagionale del mezzadro è la chiave
di volta per lo sviluppo industriale, perché prestando la propria opera a tempo
parziale presso le manifatture contribuiva ad alzare il proprio livello di reddito
e poi anche a dare la spinta iniziale per la nascita di un sistema industriale
che lentamente soppianterà l’agricoltura così come era conosciuta. Nacque
quindi la cosiddetta famiglia
contadino-artigiana, anche se il passaggio non fu facile. Non fu facile né
immediato perché in Brianza i patti mezzadrili sancivano il divieto per tutti i
componenti della famiglia di svolgere un altro lavoro, pensa la disdetta del
contratto. Anche i contratti di affitto dei coloni, prima della seconda guerra
mondiale, impedivano quasi ogni forma di libertà. Nessun membro della famiglia
dei coloni poteva scegliere di fare un lavoro diverso dal contadino, pena il
licenziamento di tutta la famiglia.
Oltre alle spese di affitto
per il fondo, il colono doveva prestare la sua opera alle dipendenze del
proprietario terriero in alcune giornate dell’anno, come riportato nel
“Libretto Colonico” che ogni famiglia contadina possedeva (art. 1662 e 1663 del
Codice Civile del Regno d’Italia, anno 1886).
Alcuni storici hanno sostenuto che questi seppur lenti
mutamenti hanno portato alla progressiva riduzione delle forme di patriarcato,
così come conosciute storicamente. Il fatto che donne e giovani avessero
accesso ad un lavoro, in filande e opifici, e quindi producessero reddito, ha
di fatto sgretolato le basi del potere sia carismatico sia economico del
patriarca, dando vita alla cosiddetta “famiglia moderna” basata su relazioni
umane e rapporti di potere completamente diversi da quelli precedentemente
vigenti. Certo, questo cambiamento, seppur corretto dal punto di vista storico,
va contestualizzato temporalmente soprattutto in riferimento alla variabile
demografica e a quella del mutamento dei rapporti di produzione. In
particolare, si sosterrà che la modificazione del patriarcato non ha portato ad
un assetto familiare più egualitario, bensì ad una divisione del lavoro basato
sul genere. In realtà, stando ad alcune ricerche di studiosi non sembra che
l’evoluzione da famiglia patriarcale allargata a quella nucleare fondata sul
potere del marito sia stata precoce e veloce. Nelle ricerche di archivio, e
nelle interviste agli anziani, emerge il dato che ancora negli anni Venti e
Trenta del Novecento il regiù era un
individuo temuto e rispettato che vedeva in gran parte riconosciuto il capitale
di autorità che veniva concesso ai suoi pari di status nel secolo precedente.
La famiglia allargata, nonostante portasse al proprio interno delle contraddizioni
e delle tensioni dovute al mutamento economico in atto, rimaneva sempre una
soluzione sociale adatta per diffondere aiuto in caso di bisogno e unire le
forze qualora fosse stato necessario.
Vale la pena a questo punto citare integralmente
quanto dice il n. 1922 della rivista Antropologia,
riguardo alla famiglia durante le prime fasi della
proto-industrializzazione: “In cascina c’erano tre o quattro generazioni.
Quando un nipote si sposava, lì in casa gli trovavano un posto, magari nelle
camere insieme alla mamma e al papà. […] C’era magari chi lavorava alla
Sorrenti [antica fabbrica della zona], invece, e faceva la squadra, chi
lavorava fino alle 2 del pomeriggio, poi dopo venivano a casa e andavano in
campagna a lavorare la terra. E c’erano quelli che andavano a Milano, ed erano
a casa il sabato o la domenica, e anche loro dovevano andare ad aiutare il regiù.
[…] Era il capofamiglia che li teneva sotto tutti. Il regiù allora era
il duce della casa. Guai a mancargli di rispetto. Quello che diceva lui era
vangelo” (p. 74).
Ne segue che un giovane operaio contadino, almeno fino
agli anni Trenta, aveva poca libertà di movimento proprio, mentre i due vincoli
fondamentali della sua esperienza erano la necessità di essere solidale con la
famiglia e di rispettare il capofamiglia.
Brianza, spannocchiatura del granoturco
Furono diversi i motivi storici e sociali che
portarono agricoltura e industria a contaminarsi, come le fluttuazioni dei
prezzi, l’indebitamento crescente dei contadini nei confronti dei proprietari
terrieri, l’aumento continuo degli affitti e l’incertezza climatica che
minacciava i raccolti. Poi ci furono anche i fattori favorenti questo incontro,
come la stagionalità dell’agricoltura, che permetteva la liberazione di forza
lavoro da collocare negli opifici in particolari periodi dell’anno. Altra
variabile, quella di genere e età, che vedeva donne e bambini, meno produttivi
in agricoltura, rivelarsi forza lavoro eccellente in fabbrica. Ciò portò quindi
ad una massiccia divisione del lavoro, collocando il lavoro in fabbrica come
inferiore e sminuente, adatto appunto a donne e bambini, portando gli uomini a
ritenerlo come ultima possibilità per loro stessi.
Nonostante la frammentarietà delle informazioni sui
mestieri di ciascun familiare del gruppo domestico, i dati raccolti dalla
rivista Antropologia consentono
comunque di affermare che praticamente quasi ogni famiglia era coinvolta in
molteplici attività lavorative, in campo agricolo, artigianale e industriale,
per ridurre la vulnerabilità economica.
Gli imprenditori e i proprietari terrieri traevano
enorme vantaggio da questa ibridizzazione, perché questa alleanza permetteva di
avere forza lavoro senza entrare in competizione e garantendo comunque un
livello minimo di sussistenza. In pratica, i contadini-operai erano sfruttati
due volte: i contratti agricoli erano completamente vantaggiosi per il
proprietario terriero, la produzione in fabbrica era delegata a donne e bambini
sottopagati, remissivi e facilmente licenziabili senza provocare grandi
tensioni sociali, avendo questi sempre potuto contare sui magri proventi
agricoli della famiglia.
Il sistema ibrido mostrò ben presto i propri limiti,
soprattutto in termini di efficienza. Dopo l’unificazione d’Italia e il
conseguente allargamento dei mercati, la domanda di manufatti crebbe
enormemente, come crebbero le tipologie di articoli prodotti e la qualità
richiesta dalla clientela. Occorreva riorganizzare la produzione in fabbrica,
meccanizzarla e standardizzarla: turni stagionali composti di donne e bambini
non potevano più essere la base produttiva. Le assenze sul lavoro per motivi
agricoli, prima consentite attraverso uno speciale permesso, divennero vietate
e punite con ammende. I tempi di produzione dovevano essere ridotti, il lavoro
a domicilio entrò in crisi a causa della bassa standardizzazione e molti operai
furono costretti a pagare di tasca propria delle multe per la bassa qualità dei
prodotti che avevano realizzato. Le condizioni di lavoro in ambienti malsani, i
ritmi sempre più accelerati e la paura delle sanzioni su errori e rallentamenti
produttivi spinsero gli operai e le operaie alle prime sommosse e ai primi
scioperi, che tra il 1898 e il 1900 fecero perdere un totale di 20 giornate
lavorative. Le proteste dei lavoratori fecero organizzare gli imprenditori, che
nel 1901 si riunirono nella Federazione fra gli industriali Monzesi, la prima
del genere in Italia.
L’esito dell’ibridazione non produsse i risultati
sperati per le famiglie contadine e operaie.
Per i contadini della Brianza, la prospettiva di
trascorrere una vita intera in fabbrica era chiaramente una scelta di ripiego
necessaria per far fronte all’indigenza. Tuttavia, il denaro guadagnato da
donne e bambini non sempre portò grandi benefici e la combinazione di lavoro
agricolo e industriale divenne massacrante per i membri delle famiglie
brianzole. L’ibridazione tra lavoro agricolo e di fabbrica portò
a ripensare il concetto di “famiglia contadina”. La transizione tra “famiglia
contadina” e “famiglia proletaria” non fu veloce né netta, ma trovò molteplici
articolazioni in funzione sia del tipo di lavoro svolto e del numero e del
genere dei suoi componenti, sia delle fasi di superamento dei rapporti di
mezzadria, che videro i contadini affrancarsi gradualmente dai proprietari e
diventare sempre più dipendenti da relazioni di mercato, da prezzi e da salari,
pur rimanendo nel mondo “agricolo”.
Brianza, fiera del bestiame nei primi anni Sessanta
Dopo alcuni anni di crisi, alla fine degli anni Trenta
si registrò una notevole crescita della attività manifatturiere, stimolate sia
dallo sviluppo di grandi fabbriche sia dalla politica industriale del fascismo
in ambito militare. Fu in questo periodo che si strutturarono le reti di
imprese, di subfornitura, e si concretizzò una prospettiva imperniata attorno
al lavoro autonomo artigianale. Emersero le prime personalità imprenditoriali
capaci, a partire da posizioni di operaio e da corsi di studio serali, di
costruire imprese produttive e innovative, organizzando capitali e risorse
umane in imprese metalmeccaniche, in un ambiente che fino a pochi decenni prima
era stato quasi completamente agricolo. Divenne quindi di primaria importanza “imparare
un mestiere”, categoria complessa fatti di apprendimenti impliciti ed
espliciti, concreto saper fare, esperienza sviluppata al contatto con artigiani
durante l’apprendistato e capacità di arrangiarsi a creare ciò di cui si aveva
bisogno qualora non lo si trovasse già realizzato.
Il passaggio ad imprenditori segna una svolta, perché
l’imprenditore non ha come confini quelli aziendali, ma lavora interagendo con
una moltitudine di attori: ecco allora che l’abilità tecnica, il saper fare
bene, la voglia di fare costituiscono un capitale per costruirsi una reputazione, capitale simbolico per persuadere
soci sull’opportunità di iniziare una nuova impresa, per convincere i clienti a
dare la loro fiducia con le prime commesse, per creare insomma quell’ecosistema
dell’impresa che ha la fiducia professionale e interpersonale alla propria
base.
Il passaggio da lavoratore salariato ad imprenditore è
quindi un processo complesso che si snoda tra passato e futuro, tra conoscenze
acquisite e necessità di fare spazio a nuove competenze e atteggiamenti per
realizzare quella sintesi vincente che porta ad iniziare una attività
artigianale autonoma che funzioni. Tra gli anni ’50 e ’60, quelli del miracolo
italiano, vedono il distretto della Brianza animato da una generazione di ex
dipendenti di aziende spesso malconce e disorganizzate dare una svolta alle
loro carriere diventando una generazione di imprenditori capaci di imparare un
mestiere tra mille difficoltà e di fare i necessari sacrifici propri di chi
voleva avviare una attività ex novo. Questa nuova categoria di persone metteva
grande enfasi sulla capacità di aver “rubato” le abilità del mestiere all’artigiano
che li aveva assunti, la “voglia di lavorare”, la destrezza manuale acquisita,
il senso di concretezza e di saper arrangiarsi, di essere produttivi senza
dover aspettare niente e nessuno. La “capacità pratica” è il fulcro della loro
epopea professionale.
Questi nuovi imprenditori, per usare termini marxiani,
posseggono capitale fisso (mezzi di produzione), capitale variabile
(manodopera) e plusvalore (controllo su processo di valorizzazione e
accumulazione), pur continuando ad essere, rispetto ad altri imprenditori
industriali, anti-intellettuali. L’imprenditore operaio/artigiano è, a vari
livelli, coinvolto personalmente nel processo di lavoro (e così anche i membri
della propria famiglia, coinvolti nelle attività dell’impresa attraverso una
combinazione di lavoro salariato e non retribuito) e continua a riprodurre in
reparto quel senso della praticità sviluppato negli anni di lavoro operaio.
Questo potrebbe spiegare l’atteggiamento “anti-intellettualista” che ancora
domina il proprio senso degli affari e che acuisce l’avversione culturale verso
i capitalisti industriali…
Comizio della Democrazia Cristiana in un comune della Brianza
Nei distretti della Brianza, fino a qualche anno fa,
quasi tutti gli imprenditori iniziarono la loro carriera lavorativa come
operai, e ne mantennero in gran parte gli atteggiamenti, la mentalità, i valori
di riferimento e le esperienze vissute al tempo del loro apprendistato. Le
carte vincenti in mano a questi imprenditori sono state sicuramente la
proprietà fondiaria, un capitale culturale di studi tecnici e esperienza
concreta “sul campo”, un capitale finanziario iniziale necessario per avviare
l’attività e un sistema sociale, parentale ed economico che ha aiutato la transizione
da operai a imprenditori. In Brianza, terra di forti tradizioni cattoliche, in
quegli anni hanno contato anche altri fattori simbolici su chi, ad esempio, assumere
in fabbrica o quale imprenditore privilegiare al credito: il buon nome e la
solidità della famiglia e la solidarietà di matrice cristiana.
Le variabili familiari sono importanti e centrali: il
sostegno della famiglia è fondamentale per compiere il periodo di apprendistato
quando si è giovani, è un fattore di mediazione per l’inserimento lavorativo da
operai grazie alla rete parentale e amicale, è cruciale nel garantire
collaborazione produttiva quando si costituisce una impresa familiare, è il
futuro dell’attività che si rispecchia nei figli, è la compagine societaria che
annovera soci tra fratelli, cognati e generi. In realtà lo sguardo antropologico sull’impresa
familiare in Brianza mostra non solo che il familismo imprenditoriale ha creato
le condizioni per una capitalismo industriale altamente competitivo, ma appare
anche essere un prodotto storico longevo. Le piccole imprese potevano anche non
sembrare belle, ma dovevano necessariamente rimanere piccole e familistiche
nella loro struttura per poter continuare ad essere competitive. Dicevano, in
un’intervista, due artigiani brianzoli: “Gliel’ho sempre detto anche prima di sposarla, io
voglio la mia libertà. Non la libertà di andare al bar o di andare a donne. No,
è la libertà di lavorare tutte le ore che voglio e che la mia attività mi
richiede. Se ci sono dei giorni che sono qui a lavorare fino a mezzanotte, lei
non mi deve rompere i c…”.
Oppure: “L’artigiano ha due famiglie: la
propria e l’impresa”.
La necessità di dover spesso contare solo sulle forze
familiari al fine di limitare il rischio di esporsi assumendo personale o
acquistando macchinari porta gli artigiani e imprenditori brianzoli a dover
impiegare la forza lavoro disponibile, spesso poco idonea e disorganizzata. Le
attività amministrative erano spesso eseguite da figure femminili della
famiglia, dalla moglie alla figlia diplomata in ragioneria, che cercano di
costruire una gestione aziendale non improvvisata compiendo in ufficio quel
lavoro che l’imprenditore spesso giudica improduttivo, marginale, perché non
direttamente legato alla produttività dei macchinari. La mentalità “cantinara”
spesso sopravvive fino alla costituzione di una spa, e uno degli effetti è sottovalutare
la componente “concettuale” della conduzione di impresa. Gli “intellettuali”,
dicevano, non producono nulla.
All’interno della famiglia si genera la continuità aziendale, nel senso che
idealmente il figlio maschio dovrebbe continuare con la componente tecnica
dell’azienda mentre la figlia femmina con quello amministrativo/gestionale.
Ecco che il passaggio generazionale prevede uno sdoppiamento dell’imprenditore
unico nella duplicità della sua discendenza, con una maggior efficienza
generata dalle specializzazioni dei propri figli ognuno per il proprio ambito.
Il non avverarsi di questi piani ideali provocava spesso profonde tensioni all’interno
delle imprese familiari.
E poi c’è anche quel modo di intendere la proprietà, il
controllo del lavoro, che si
esprime nella frase, frequentissima “qui comando io, a casa mia moglie”, perno
del controllo patriarcale dell’imprenditore presso la sua “famiglia aziendale”.
La retorica del “siamo tutti una famiglia” riferito ai famigliari occupati ma
anche ai dipendenti non parenti era molto diffusa. Nonostante l’imprenditore
riferisca di “non stare addosso ai dipendenti”, di fidarsi ciecamente di loro,
questi riportano un controllo continuo in tutte le attività. L’occhio del
padrone è sempre vigile.
In un’area geografica che, come è stato accennato,
presenta un alto tasso di religiosità e di radicata appartenenza ai valori e
principi cattolici, l’imprenditore poteva decidere di elargire premi o quantità
di denaro a seconda se il lavoratore era sposato e padre di famiglia oppure un
giovane che viveva ancora nella sua famiglia di origine. Questo avveniva soprattutto
nelle piccole imprese e nei confronti dei collaboratori più fidati e di grande
esperienza. Nei momenti di transizione della vita, come il matrimonio, che
conduce allo status di capofamiglia, l’imprenditore poteva corrispondere una
maggiorazione che non aveva un corrispettivo nell’aumento delle capacità
produttive in azienda ma solamente in quello delle responsabilità nei confronti
della propria famiglia.
Beniamino
Colnaghi
Note
[1] http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2014/06/il-paesaggio-rurale-della-vecchia.html
Riferimenti
bibliografici e sitografici
Cinzia Calzoni, Contadini
e artigiani a Triuggio, i Quaderni della Brianza, n. 38/39 gennaio/aprile
1985, pp. 65-100.
Massimo Paci, La
struttura sociale italiana, Bologna, Il Mulino, 1982.
Le trasformazioni del territorio in Brianza: http://www.ildialogo.org/economia/brianzaterritorio09062003.htm
Cavallanti in Brianza: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2015/06/carrettieri-e-cavallanti-brianza.html
Il fiume Adda: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2015/05/il-medio-corso-del-fiume-adda-da-lecco.html
Il baco da seta in Brianza: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2015/03/canti-riti-e-superstizioni-attorno.html
Il Meab di Galbiate: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2013/11/le-tradizioni-popolari-brianzole-nel.html
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