mercoledì 12 dicembre 2018



Le vecchie osterie della Brianza lecchese e comasca: un patrimonio irrimediabilmente scomparso

“A me piacciono gli anfratti bui delle osterie dormienti, dove la gente culmina nell’eccesso del canto, a me piacciono le cose bestemmiate e leggere, e i calici di vino profondi, dove la mente esulta, livello di magico pensiero.”
       Alda Merini
Ancora nei primi anni Ottanta, prima che l’edonismo imperante e la massiccia urbanizzazione contribuissero a smantellare importanti testimonianze della nostra storia, tra muri stretti e antichi, anguste piazzette e vicoli campestri poteva capitare di imbattersi in qualche vecchia osteria. Una delle ultime rimaste. Certo, il contesto storico e sociale, rispetto alla prima metà del Novecento, non era già più lo stesso. La scomparsa della civiltà contadina aveva travolto tutto, dai tradizionali e affezionati avventori ai sapori ed ai profumi che emanavano le vecchie osterie.
I sapori e gli odori sono sensazioni e percezioni che non si dimenticano mai, come non si possono scordare, per chi le ha vissute, le atmosfere piene di vita popolare e di calore umano, gli sguardi dei contadini nelle penombre dei locali, l’odore acre del “Toscano” e delle sigarette senza filtro, le discussioni urlate e “bestemmiose”, il gioco delle carte e della morra.
Il primo e grande protagonista delle osterie era il vino. Già, il vino. Come non parlarne, visto che è proprio intorno a Bacco che si è sviluppata tutta la cultura delle osterie. Sulla qualità, difficile pronunciarsi. Nelle osterie brianzole i “rossi” erano normalmente vini forti e sostanziosi, di provenienza piemontese e meridionale, soprattutto pugliese: il Barbera, lo Squinzano e il Manduria. La forza di questi vini scuri spesso veniva “stemperata” dall’aggiunta di acqua, che, se fatta in dosi eccessive, generava furibonde liti tra clienti e oste. Oltre al vino, gli avventori si concedevano anche bianchini, spesso spuzzati con vermouth rosso, grappini, grigioverdi, sambuca, marsala.
Scrive Ottorina Perna Bozzi, nel suo libro Vecchia Brianza In Cucina: “Prima dell’ultima fillossera che dal 1860 al 1870 distrusse tutti i vigneti, il vino era una delle più grandi ricchezze della Brianza. Famose erano le sue enormi botti, e famosi i grandissimi torchi, di cui il più grande pare fosse quello dei Crivelli ad Inverigo. Ce ne era infatti una tale abbondanza che nelle annate più ricche si vendeva il vino un tant al fiaa, ossia per quanto ce ne stava in una sola sorsata per quanto lunga essa fosse. E i contadini si sfogavano a berlo appena spremuto nei tini, prima di consegnarlo alle cantine del padrone.
 
 
 
Il cosiddetto progresso ha travolto tutto. Alcuni osti, svelti a fiutare l’aria, hanno trasformato le loro osterie in bar, con tanto di biliardo e juke-box, altri hanno aperto trattorie con cucina casalinga, ma la maggior parte delle vecchie osterie è stata frettolosamente smantellata. E i tavoli di noce o di rovere, le sedie impagliate, i banconi di legno sono finiti su un camino o nel commercio degli antiquari.
Ma, tornando indietro un passo, cosa era e come veniva vissuta questa cultura dell’osteria qui nelle terre pedemontane e collinari brianzole? Un territorio indubbiamente bello dal punto di vista ambientale e naturale, ricco di piccoli borghi, gelsi e cascine sparse, ma clivi, cigli, terrazzamenti, pendii lo rendevano faticoso e impervio da lavorare. In questo mondo rurale, legato alla terra e alla collina, con i suoi sistemi di lavoro, i suoi tempi, i suoi ritmi, le sue dinamiche familiari e sociali, il rapporto con il caldo e con il freddo, con la fatica e con la fame, con la religiosità e con le superstizioni, i contadini sudavano fatiche tremende, traendo redditi modestissimi, al limite della sopravvivenza.
Accadeva così che il colono avesse un solo modo per potersi “distrarre”, per tirà ul fiaa, e staccarsi dai lavori dei campi: l’osteria. Andare in osteria era come evadere dalla dura realtà, dalla conduzione rigorosa delle bestie in stalla, dai tempi delle semine e dei raccolti ed anche, ma non per ultimo, dalle “grinfie” della moglie berciante o della figlia zitella. Quando i lavori dei campi e la ferrea osservanza dei precetti della Chiesa cattolica lo consentivano, il colono si rifugiava volentieri in questo “luogo di perdizione”, soprattutto il sabato sera e la domenica pomeriggio. Con il sostegno del vino, della chiacchiera e delle imprecazioni forti, il contadino si dedicava al gioco delle carte e della morra e utilizzava quel tempo per parlare di politica o delle ultime battute di caccia.
Le persone sedute ai tavoli si scambiavano le ultime notizie; chi se n’era andato all’altro mondo, dov’è finito questo, dov’è andato quello. Si veniva a sapere di chi è nato e di chi è morto, di chi è partito e di chi è tornato, di chi si sposa e delle liti nelle famiglie.
In molti paesi brianzoli l’osteria era sorta nelle vicinanze della chiesa, la gésa. In alcuni casi erano una di fronte all’altra. Questa vicinanza facilitava il curato nello svolgimento delle visite pastorali e nella redenzione dei suoi fedeli, perché gli consentiva di tenere d’occhio “le anime più turbolente del suo gregge”.
In alcune osterie, normalmente la domenica pomeriggio, l’oste pagava un suonatore di fisarmonica o di organino che aveva il compito di accendere l’allegria e far cantare ai poveri contadini canzoni della loro gioventù. Verso l’imbrunire cominciavano a spuntare personaggi che attiravano l’attenzione del locale; erano quelli battezzati grass de rost o piontagron, i piantagrane di turno per intenderci, divenuti tali per aver alzato un po’ troppo il gomito.
Nelle vecchie osterie non si cucinava. Non si preparavano i piatti per i clienti, come in trattoria. Poteva capitare che l’oste accompagnasse le mescite di vino con qualche fetta di salame oppure con saporiti formaggini stagionati sott’olio. Si diceva che ciò serviva “per tenere su lo stomaco”, tra un bicchiere di vino e l’altro.
Numerose osterie, ma anche trattorie, erano registrate con il nome del proprietario, o con il suo soprannome, e solo verso il 1920 si è incominciato ad assegnare loro un nome ufficiale. La denominazione era normalmente scelta dai proprietari, ma alcune volte erano gli stessi clienti ad attribuire il nome, la maggior parte delle volte in dialetto. Molto tipici erano spesso i nomi che le distinguevano, e presi per lo più a prestito dal regno animale. Il regno dei volatili e pennuti era abbondantemente usato. Fra i santi, primeggiava San Giuseppe.
Moltissimi altri nominativi erano dati un po' a caso e un po' con un significato di colore locale. Molte avevano la bella insegna parlante, cioè all'esterno della bottega si profilava al di sopra di essa l'immagine dell'animale o comunque della persona od oggetto che dava il nome all'osteria.
Molto rare, invece, erano le trattorie o le osterie abbinate all'ufficio postale del paese o allo stallazzo. Nei piccoli paesi ad inizio secolo il locale tipico spesso fungeva anche da punto di raccolta e smistamento della posta. Numerose erano le persone analfabete che in cambio di un buon bicchier di vino dettavano o una lettera o il testo di una cartolina, da inviare immediatamente al fronte o alla propria amata. La scrittura avveniva sui tavolati d'osteria provocando una grafia incerta, lasciando spesso dei residui d'unto o macchie di vino. Lo stallazzo, invece, era annesso all'osteria in un locale adiacente per ritemprare e sfamare i cavalli delle carrozze, delle diligenze e dei cavallanti dopo un lungo viaggio. Se ne trovavano anche in Brianza, lungo le sponde del Lario e nel circondario di Varese e davano ristoro a chi da Milano partiva verso la Svizzera e la Germania attraversando i passi Spluga, Stelvio, San Bernardino e Sempione.
Compiuta una sommaria analisi sui riti e sulla cultura che permeavano le vecchie osterie ormai scomparse, priva di ogni pretesa di poter essere considerata esaustiva, mi inoltro in una sorta di piccolo catalogo, di un’elencazione di vecchie osterie di cui ho memoria, diretta o tramandata, ovvero delle quali ho avuto conoscenza per mezzo di libri e riviste. Tutte le osterie e trattorie che verranno citate, erano comprese nei territori delle province di Como e Lecco. 
Partirei dal Comune di Verderio ex Superiore, il mio paese natio. Sull’asse stradale che “taglia” letteralmente in due parti il territorio comunale, ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso esistevano una decina di osterie. Quella più ad est, verso Cornate d’Adda, era denominata Betulén, piccola bettola; quella più ad ovest, a due passi dalla cascina La Salette, veniva detta La Baita. Marco Gariboldi, Marcu de l’Irolda, il proprietario, era un apprezzato cuoco ed i suoi migliori piatti, cucinati con passione e maestria erano il risotto alla milanese, il pollame e la selvaggina, i bolliti, il brasato con la polenta e la casoeula.   
 
Verderio Superiore in una foto del 1907. Sulla destra si notano quattro osterie

La Baita. Marco Gariboldi è il primo a sinistra

Poi c’era l’osteria di Carlo Motta, detto Carlon, per via della sua statura; il Circolo Acli, aperto nel 1956, di proprietà della parrocchia di Verderio Superiore; l’osteria del Fiuranell, che prese il nome da un antenato che si chiamava Fiorano; del Muleta, che vendeva anche le sigarette sfuse ed i sigari Toscani; del Prestinée dei Riva, perché aveva annesso il forno per la cottura del pane e il negozio di generi alimentari; l’Osteria Nuova, della famiglia Sala, detta Lona, con annessa drogheria; la Cooperativa San Giuseppe (vedere nelle note). 

  Osteria Carlon
 
Osteria Fiuranell

Osteria Prestinée

Anche Verderio ex Inferiore ebbe le sue belle osterie. Una delle più apprezzate dalla popolazione era la trattoria-osteria San Giuseppe, meglio conosciuta come Cantinón. Ne era proprietaria la famiglia Consonni, originaria di Lentate sul Seveso. Chiuse i battenti nel 1985.
Nel febbraio del 1947 venne fondata la Cooperativa Familiare, la quale, dopo una breve permanenza in via Tre Re, nel 1951 costruì la propria sede in via Roma, alla quale, nel corso degli anni, affiancò una struttura commerciale, ora affiliata alla Coop.

Osteria Cantinón

Circolo Cooperativa Familiare
 
Osteria Barelli
 
Trattoria Ricci
 
In pieno centro storico, su via Tre Re, erano attive due osterie: quella della famiglia Barelli, che divenne anche trattoria e ampliò le attività nel settore dell’autonoleggio da rimessa e della vendita di abbonamenti ferroviari e l’osteria-trattoria Tre Re, che ogni venerdì invernale preparava dell’ottima trippa e nei suoi locali trovarono posto le sedi degli alpini e dell’associazione ciclistica.
Affacciata sulla piccola piazza del paese, piazza Annoni, dalla quale necessariamente si transitava per recarsi in chiesa, si trovava l’osteria della famiglia Ricci, con tanto di rivendita tabacchi.     

Imbersago
 
Bosisio Parini
 
Cucciago
 
Ponte Lambro
 
Urago (Montorfano)
 
Delle tante osterie sparse nelle più recondite contrade di quel che era rimasto del mondo contadino, vorrei citare il Circolo Familiare Libertà di Imbersago, l’osteria Carlambroeus, Carlambrogio Brivio, di Montevecchia, Meco, tra le colline di Olgiate Molgora e Santa Maria Hoè. Salendo verso Lecco c’era l’osteria Buzzi di Bosisio Parini, a due passi dalla casa dove nacque il poeta, mentre, dalle parti di Erba Incino, le osterie Cavenaghi, Ness e Porcu Düü, il giovedì distribuivano la büseca, la trippa, a mezzo paese. Ad Alserio, vicino all’omonimo lago, sorgeva l’osteria-trattoria Falcone, dove cucinare la cacciagione era un’arte, come pure i fegatini di pollo serviti dalla padrona dell’osteria San Rocco di Lurago d’Erba. E gli ossibuchi con il risotto del Giusepen Rigamonti dell’Alpina di Erba? Unici! A Cucciago, in piazza Garibaldi, sorgeva l'osteria che serviva vini meridionali e piemontesi. A Ponte Lambro, ai piedi del Triangolo lariano, a metà strada tra Como e Lecco, c’era l’Osteria San Giuseppe. Nella piccola e incantevole Urago, appena sopra il laghetto di Montorfano, c'era il Crotto dei Francés. A Longone al Segrino, ancora nei primi anni Settanta era aperta l'Osteria del Cuor Contento, citata da Carlo Emilio Gadda, di cui oggi restano solo la volta d' ingresso e l'androne. Sulle colline verso Erba c’erano la Suspirada e l’Osteria del pan de mei.
Un mondo scomparso, soppiantato e sostituito da decadenti e impersonali bar e locali senza anima e privi di socialità.    
 
Beniamino Colnaghi

Bibliografia
Giulio Oggioni, Quand sérum bagaj, Barzago, Marna, 2004.
Giulio Oggioni, Verderio. La vita contadina, le corti e le cascine, Cornate d’Adda, A. Scotti Editore, 2013.
Ottorina Perna Bozzi, Vecchia Brianza in Cucina, Ibis Edizioni, 2013.

Note
Sull’argomento osterie/Brianza/vita contadina, nel blog sono presenti anche i seguenti post:
1)      La “Cooperativa di consumo San Giuseppe” di Verderio Superiore:
http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2014/02/la-cooperativa-di-consumo-san-giuseppe.html
2)      La domenica andando alla messa…
http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2013/06/la-domenica-andando-alla-messa.html
3)      Il paesaggio rurale della vecchia Brianza. Verderio tra luci ed ombre
http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2014/06/il-paesaggio-rurale-della-vecchia.html
4)   Il piacere di raccontarla dei brianzoli
https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2017/12/ulpiase-de-cuntala-su-dei-brianzoli-il.html
5)   Le trasformazioni sociali e culturali in Brianza
https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2016/01/le-trasformazionisociali-e-culturali.html
6)   I carrettieri e cavallanti in Brianza
https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2015/06/carrettieri-e-cavallanti-brianza.html

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