mercoledì 25 gennaio 2017

27 gennaio, “Giorno della Memoria”
Irena Sendler, la donna polacca che salvò 2.500 bambini del ghetto di Varsavia
«Avrei potuto fare di più.
Questo rimpianto non mi lascia mai».
Irena
 
Irena Sendler, da nubile faceva Krzyżanowska, nacque nel 1910 nella periferia operaia di Varsavia, in una famiglia cattolica polacca di orientamento socialista. Il padre, Stanisław Krzyżanowsky, era un medico che purtroppo morì abbastanza giovane di tifo, contratto dai suoi stessi pazienti.
 
 
I genitori di Irena
 
Irena iniziò la sua attività di opposizione alle persecuzioni antisemite già dall’università dalla quale, per questo motivo, venne espulsa per tre anni. Quando la Germania nazista invase la Polonia nel settembre del 1939 Irena svolgeva la professione di infermiera presso il Dipartimento del benessere sociale di Varsavia, che gestiva le mense comunitarie della città. Lì lavorò instancabilmente per alleviare le sofferenze di migliaia di persone, sia ebree che cattoliche. Grazie a lei, le mense non solo fornivano cibo a orfani, anziani e poveri, ma consegnavano anche vestiario, medicine e denaro.

Irena Sendler

Nel 1940 i nazisti crearono il ghetto a Varsavia, che divenne il più grande ghetto in Europa, una zona chiusa dove rinchiudere gli ebrei, affinché gli stessi fossero maggiormente controllati e all’occorrenza prelevati senza troppe difficoltà.
Irena, donna forte e coraggiosa, libera e emancipata, nome in codice Jolanta, si unì al Consiglio per l'Aiuto degli Ebrei, Zegota, organizzato dalla resistenza polacca. Riuscì a ottenere un pass del Dipartimento del controllo epidemiologico di Varsavia per poter entrare legalmente nel ghetto. Per Irena, l’operazione più difficile per cercare di salvare i bambini ebrei rinchiusi nel ghetto era quella di persuadere i genitori affinché si separassero da loro. L’unico motivo che spingeva i genitori a separarsi dai propri figli era dato dalla certezza che sarebbero sicuramente morti se fossero rimasti nel ghetto.
“Nella mia mente posso ancora vederli piangere quando lasciavano i genitori”, disse in seguito.
Non era nemmeno facile trovare famiglie che volessero accogliere bambini ebrei.
Diversi furono i sistemi adottati per la fuga; i bambini venivano sedati e rinchiusi in un sacco per farli sembrare morti di tifo; nascosti tra stracci sporchi di sangue all’interno di ambulanze o, ancora, nascosti dentro casse di attrezzi trasportate nel furgone di un tecnico del comune che teneva sul sedile anteriore il suo cane addestrato ad abbaiare in presenza di soldati nazisti, così da coprire il pianto dei piccoli.
Il riscatto di un bambino richiedeva l'aiuto di più persone. Fuori dal ghetto i bambini erano prima trasportati presso una struttura di servizio umanitario e poi si cercava loro un alloggio in case, orfanotrofi e conventi. Fuori dal ghetto la Sendler forniva ai bambini dei falsi documenti con nomi cristiani, li portava nella campagna polacca, dove li affidava a famiglie cattoliche, a preti e suore.  “Ho mandato la maggior parte dei bambini in strutture religiose, sapendo di poter contare sulle suore”.
 

Irena, per far sì che dopo la guerra i bambini potessero essere identificati con le loro vere identità, compilò in maniera molto dettagliata gli elenchi contenenti i nomi e gli indirizzi dei bambini fatti uscire dal ghetto. Conservò i registri con i nomi di 2.500 bambine e bambini ebrei polacchi in fiaschi di vetro sotterrati sotto un albero di mele nel giardino di un vicino, di fronte alle abitazioni dei nazisti.
Il 20 ottobre 1943 venne arrestata dalla Gestapo. Era l'unica a sapere i nomi e gli indirizzi delle famiglie che alloggiavano i bambini ebrei e sopportò la tortura pur di non tradirli. Le vennero fratturate le gambe, tanto che rimase inferma a vita, ma non rivelò il proprio segreto. Condannata a morte, venne salvata dalla rete della resistenza polacca attraverso l'organizzazione clandestina Żegota, che riuscì a corrompere con denaro i soldati tedeschi che avrebbero dovuto condurla all'esecuzione. Il suo nome venne così registrato insieme a quelli delle persone già giustiziate, e per i mesi rimanenti della guerra visse nell'anonimato, continuando però a organizzare i tentativi di salvataggio dei bambini ebrei.
«Dopo la fine del conflitto, scriveva Irena, ho affidato gli elenchi a Adolf Berman, tesoriere di Żegota, che a guerra conclusa divenne presidente del Comitato ebraico di aiuto sociale.
Egli, con l’aiuto degli attivisti a lui subordinati, prelevò i bambini dagli istituti polacchi gestiti da ordini cattolici o dalle famiglie private che li nascondevano. Il mio ruolo si esaurì sostanzialmente qui; non ricordo i loro nomi e loro non seppero mai il mio, dopo tutto, ciò fu indispensabile per la sicurezza di tutti. Per loro io ero solo “Auntic Jolanta”».
I bambini, in effetti, la conoscevano solo con il nome di Jolanta.
Molte famiglie adottive si erano affezionate a quei piccoli bambini ebrei e non vollero restituirli; in molti casi fu necessario l’intervento del giudice. Le istituzioni ebraiche si trovarono a dover gestire l’adattamento dei bambini alle nuove e completamente diverse condizioni. Fu necessario un lungo lavoro per rintracciare i parenti più o meno lontani così da ricreare un legame con le famiglie d’origine, nella maggior parte dei casi sterminate nel ghetto.
Dopo la fine della guerra Irena, ottenuto il divorzio dal suo primo marito Mieczyslaw Sendler, si risposò con Stefan Zgrzembski
ed ebbe tre figli, Janina, Andrzej e Adam. Morto il secondo marito, nel 1961 si unì nuovamente a Mieczyslaw.

Irena Sendler in una foto scattata pochi mesi prima di morire

Ma la restaurata pace mondiale che la restituì al suo lavoro presso i Servizi sociali di Varsavia non significò per lei un reale ritorno alla normalità. Considerata una “sovversiva” dal regime comunista polacco, venne costantemente tenuta sotto osservazione e le sue azioni durante gli anni della guerra costarono ai suoi figli, seppur nati a conflitto concluso, la possibilità di iscriversi e frequentare l’università di Varsavia.
Nel 1965 Irena Sendler venne riconosciuta dallo Yad Vashem di Gerusalemme come una dei “Giusti tra le nazioni” e venne invitata in Israele a ritirare l’alta onorificenza.
Proposta dal governo polacco come premio Nobel per la Pace nel 2007, le venne preferito il politico statunitense Al Gore.
Morì il 12 maggio del 2008 a Varsavia e fu sepolta nel cimitero della capitale.

Beniamino Colnaghi

Su Irena Krzyżanowska Sendlerowa, e sulle sue gesta, sono stati scritti numerosi libri. Ne cito alcuni:
Tilar J. Mazzeo, La ragazza dei fiori di vetro, Piemme, 2017.
Anna Mieszkowska, Nome in codice Jolanta. L’incredibile storia di Irena Sendler, la donna che salvò 2.500 bambini dall’Olocausto, San Paolo Edizioni, 2009.
Sara Cerri, Irena Sendler, la vita dentro un barattolo, David and Matthaus, 2014.
Daniela Palumbo, Il cuore coraggioso di Irena, Mondadori Electa.

La storia della vita della Sendler è stata riscoperta nel 1999 da alcuni studenti di una scuola superiore del Kansas (cfr. [www.irenasendler.org Life in a jar]), che hanno lanciato un progetto per fare conoscere la sua vita e il suo operato a livello internazionale.

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