Come si possono definire i proverbi? Aforismi popolari? Sentire diffuso in forma ermetica? Modi di dire e pensare tramandati oralmente di generazione in generazione? Pillole di saggezza basate sull’esperienza e sulla perspicacia umana? Certamente, per capire il senso e la morale dei proverbi bisognerebbe conoscere e capire la cultura da cui provengono. Un dizionario definisce il proverbio “breve detto, di origine popolare, che esprime una norma, un pensiero, una ammonizione desunta dall’esperienza” (De Mauro). Lo scrittore e filologo Niccolò Tommaseo disse che “se tutti si potessero raccogliere e sotto certi capi ordinare i Proverbi italiani e i Praverbi d'ogni popolo, d'ogni età, colle varianti d' immaginazioni e di concetti, questo, dopo la Bibbia, sarebbe il libro più gravido di pensieri.”
Seppur oggi si è
pienamente immersi nella società della comunicazione di massa, non sempre l’individuo
sente il bisogno di ascoltare lunghi discorsi o noiosi consigli per convincersi
della cosa giusta da fare. Un proverbio appropriato induce a pensare, aiuta a
capire e può spingere a fare ciò che è giusto. Nei tempi andati, alcune
categorie di persone erano ritenute sagge e colte perché avevano buona
dialettica e conoscenza di fatti della vita o citavano proverbi che aiutassero
la gente comune a disbrigarsi in faccende piuttosto complicate. E poi: come
e quando va usato un proverbio? Dipende sia dall’argomento che dall’uditorio.
Un argomento può perdere di efficacia se si fa un uso sbagliato dei proverbi. E
dato che in alcune culture l’uso dei proverbi è una parte importante della
conversazione, chi li usa a sproposito può dare agli altri una cattiva
impressione di sé. Nella Bibbia si legge che il re Salomone, famoso per la sua
saggezza, il suo sapere e la sua diplomazia, conosceva 3.000 proverbi.
Naturalmente i proverbi biblici erano “divinamente ispirati” e ritenuti sempre
veritieri.
Ognuno
di noi, nella propria vita, si è imbattuto in qualche proverbio, citato
soprattutto da persone anziane. In alcuni casi ci siamo immedesimati e
riconosciuti nel senso stesso del proverbio, apprezzandone l’acuta
corrispondenza. Altre volte ne abbiamo rifiutato l’accostamento.
I proverbi sono una miniera di norme e valori sociali.
Per esempio, il potere della parola è messo ben in risalto dal proverbio Uno
scivolone con la lingua è peggio di
uno scivolone con il piede. La lingua, se
usata in modo sbagliato, può effettivamente causare gravi danni. Lo notiamo
soprattutto in questi tempi, a causa dell’uso sconsiderato e volgare che spesso
si fa dei social media. Invece, se è tenuta sotto controllo, la lingua può
davvero contribuire alla pace, come è attestato dal detto In presenza
della lingua, i denti non litigano.
Vale a dire che le questioni si possono risolvere amichevolmente fra i
contendenti, parlandone. E anche se questo non funziona, l’abile uso della
lingua nel cercare una soluzione può placare un’accesa disputa.
Nel campo della salute, la cura degli
acciacchi e delle malattie era compito incontrastato della anziane di casa,
depositarie di una tradizione secolare, esperte conoscitrici delle virtù
terapeutiche delle piante, abili manipolatrici di articolazioni e muscoli, giustaoss. Era il campo d’azione di una medicina del popolo che per secoli era
stato l’unico modo di cura delle malattie. Da sempre tra i ceti più umili delle
società rurali, che costituivano la gran parte della popolazione del contado e
dei centri rurali a nord di Milano, la ricerca di aiuto e di assistenza in caso
di malattia s’indirizzava alle tradizioni tramandate di generazione in
generazione e ai rimedi conosciuti e usati dalle donne. Questa “medicina del
popolo” era una medicina semplice, che rispecchiava le virtù medicinali delle
erbe che i contadini trovavano nei campi o coltivavano negli orti; era una
medicina povera, come le risorse impiegate e le pratiche utilizzate da
un’utenza non dissimile; era una medicina umile.
La salute, quindi, prima di tutto. Cap primm ghe vör la salüt (Per prima
cosa ci vuole la salute), dicevano, e aggiungevano La salüt chi ghe l’ha, l’è un tesor che non se sa, oppure anche Un puerett san, l’è sciur a metà (Un
povero sano è un ricco a metà). Poi c’erano i detti per conservare la salute e
vivere bene: Se te voeret diventà vecc,
mongia al colt e dorma al frecc (Se vuoi diventare vecchio, mangia al caldo
e dormi al freddo), ed anche Per stà
begn, ciapa ul munt traqual ‘al vegn (Per stare bene prendi le cose come
vengono). Le donne anziane raccontavano ai giovani nipoti una filastrocca che
trasmetteva loro sani principi di vita: A
lecc prest la sira / sü dal lecc prest la matina / poch emusiun / e tanti
urasiun. / Mai pensach al duman / fa cünt in de la Pruvidensa, / ma pussè de
tutt / stà indrèe in del mangià (A letto presto la sera / alzarsi preso il
mattino / poche emozioni / e tante preghiere / Mai pensare al domani / confida
nella Provvidenza / ma soprattutto / non mangiare troppo).
Nei tempi passati, per la gran parte dei
contadini reperire il cibo o mangiare a sufficienza non erano certo operazioni
così scontate. Tanto è vero che i nostri vecchi lamentavano il fatto che El sacch voj al stà minga in peè (Il
sacco vuoto non sta in piedi) e Dieta e
brod lung ménen l’om a l’alter mund, (Dieta e brodo allungato conducono
l’uomo all’altro mondo).
Impegnata
da sempre nella lotta contro le malattie, la famiglia brianzola era restia a
rivolgersi alla medicina scientifica, preferendo ricorrere invece con grande
fiducia alla medicina popolare, quella empirica del popolo. La scarsa
propensione per la “medicina dei dottori” era dovuta ad alcuni motivi, tra i
quali: quello storico, poiché sino ad oltre la metà dell’Ottocento il medico
era scarsamente presente nei paesi più piccoli e ancor meno nell’ambiente
rurale; quello economico, perché il medico si doveva pagare e ciò era il più
delle volte impossibile all’umile gente dei borghi e delle campagne; il terzo
motivo era culturale, in quanto del medico ci si fidava poco, mentre al
contrario c’era una grande fiducia nei rimedi della tradizione medica popolare,
i medegòss, cioè i rimedi empirici
realizzati utilizzando le proprietà medicamentose di piante o di altri prodotti
la cui efficacia nel determinare la guarigione era indiscussa. La diffidenza
nei medici era ben riassunta da un proverbio molto citato: Préet, dutur e aucàt / mèi pèrdi che truài (Preti, medici e
avvocati / meglio perderli che trovarli)[1].
Ecco allora spiegato l’uso delle polentine bollenti di linosa nelle affezioni
broncopolmonari, gli infusi di camomilla e i fomenti per il raffreddore, le
frizioni con l’aglio o la cipolla nei geloni: rimedi riscaldanti in affezioni
da freddo. O ancora la fredda lama della falce per le punture d’insetto, le
fresche foglie di verza, il miele o l’olio per le scottature e le contusioni,
l’infuso di malva o di tiglio per le detossicazioni interne: rimedi
rinfrescanti per le calde infiammazioni esterne o interne.
Si
era convinti che Con l’acqua e l’erba di
praa, se cura tucc i maa (Con l’acqua e l’erba di prato si curano tutti i
mali) oppure che Ghe minga erba che
guarda in sù, che la gabia no la sua virtù (Non c’è erba che non abbia le
sue proprietà medicinali) e La malva tucc
i maa i a calma (La malva calma tutti i mali) oppure Ch’el rimedi lì l’è sta una scua (Quel rimedio è stato una scopa,
cioè ha spazzato via tutti i mali).
I vecchi brianzoli conoscevano bene quali erano i nemici
della salute, da cui stare alla larga. Vino, fumo e donne hanno generato i
seguenti proverbi: Bacch, tabacch e Vener
regunden l’om in scénder (Bacco, tabacco e Venere riducono l’uomo in
cenere) e Per vif son, ghe vör tonta
papa, pöca pipa e mea pepa (Per vivere sani ci vuole tanto cibo, poco fumo
e niente donne) e ancora El vin e i donn
trann allari el coo de l’om (Il vino e le donne fan perdere la testa all’uomo). Anche allora c’era la categoria degli scansafatiche, di
quelli che avevano la Canèta de vèder, ossia
di coloro che non volevano lavorare e piegare la schiena per far fatica perché
avrebbe potuto comportare la rottura della "canèta de vèder",
ossia della colonna vertebrale. Questa categoria di persone prendeva la vita
come veniva, senza patemi d’animo e senza troppi doveri. I loro motti erano: La cüra del Tòt, mangià, bef e fa negòtt (La
cura del Tot, mangiare, bere e non far niente), A taula se ven mai vècc (A tavola non si diventa mai vecchi), Crepa la panza ma minga roba che vanza (Scoppi
la pancia ma non ci sia roba che avanzi), Ne
a l'usteria ne in lecc se diventa vecc (Né in osteria né a letto si diventa
vecchi) e anche Mangia bev e caga e lassa
che la vaga (Mangia bevi e vai di corpo e lascia che vada).
Quando i rimedi domestici utilizzati non ottenevano i
risultati sperati, oppure ci si trovava di fronte a situazioni più gravi, le
cui origini erano attribuite a fattori o entità extra-naturali, il contadino
chiedeva l’intervento di guaritori specialisti, segnòn, in grado di “segnare” con appositi rituali magico-religiosi,
segn, il malato. Dai semplici
orzaioli al mal di fegato, dal catarro intestinale alle vere infestazioni da
parassiti, dalla dolorosa sciatica ai lancinanti parossismi del fuoco di
sant’Antonio, dalle semplici forme di nervosismo alle manifestazioni
psichiatriche più gravi e all’epilessia, il ricorso alle pratiche dei segnòn era indispensabile.
Quando poi né medegòss
né segnòn erano in grado di riportare
la salute perduta non restava che un’ultima possibilità: invocare la Madonna o
i santi perché concedessero una grazia. Fallito il livello naturale e quello
magico, si approdava al divino. Ciò soprattutto se il male era ritenuto
d’origine soprannaturale. Gli ex-voto, offerti da devoti e “graziati” alla
Madonna o ai santi per grazia ricevuta costituiscono una singolare
testimonianza di questo particolare modo di vivere la malattia e la salute. In
particolare gli ex-voto dipinti, le tavolette votive, consentono sovente di
“osservare” le malattie all’origine delle richieste di grazia attraverso la
loro raffigurazione diretta sulla tavoletta.
Beniamino Colnaghi
Note
[1]
Nelle terre lombarde durante il XIX secolo le condizioni di vita e di lavoro
dei contadini e degli operai delle prime fabbriche erano spesso davvero malsane
e l’amministrazione statale, che con i suoi servizi avrebbe dovuto provvedere
alla salute dei cittadini, era troppo spesso latitante. Di fronte ai problemi
di ordine sanitario, per insufficienza di organizzazione e di mezzi, lo Stato
non fu mai all’altezza della situazione: anche agli inizi del secolo, quando
l’Austria, da cui dipendeva il Lombardo-Veneto, aveva creato un ordinamento
sanitario ritenuto il migliore d’Italia, con una rete di ospedali, con
distribuzione gratuita di medicinali ai poveri, con medici, ostetriche,
farmacisti e veterinari, i risultati concreti furono assai modesti. Infatti i
medici furono nel complesso quantitativamente insufficienti e spesso anche non
sufficientemente preparati. Erano malpagati e la loro carica era elettiva: ciò
favoriva imbrogli, prepotenze e clientelismi, a discapito dell’effettiva
capacità. Si capisce perciò il perché di certi detti e la mentalità, del tutto
naturale per le genti di allora, di affidarsi ai medegòss, cioè a quei rimedi che per tradizione erano capaci di
guarire ogni tipo di male.
Bibliografia
F.
Bassani, I medegozz di nost vecc,
Bertoni, Merate, 1981.
A.
Airoldi, A. Banfi, 500 proverbi ascoltati in Brianza, Licinium, Erba, 1975.
Vittorio
Sironi, Medicina popolare in Brianza.
Come si curavano un tempo, quando non c’erano le medicine, i nostri nonni, I
Quaderni della Brianza, numero 30, 1983.
Vittorio
Sironi, Salute e malattia nei proverbi
brianzoli e milanesi, I Quaderni della Brianza, numero 38/39, 1985.
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