martedì 15 novembre 2016


Sacerdoti della Brianza deportati nei lager nazisti
La storia di don Riccardo Corti

Negli anni della Resistenza al nazi-fascismo furono una cinquantina i sacerdoti italiani che vennero deportati nei lager nazisti. Erano stati accusati di aver avuto contatti o aver aiutato partigiani, ebrei, militari sbandati, renitenti alla leva, prigionieri alleati evasi, oppure di aver condannato in pubblico le violenze tedesche o impartito l’estrema unzione a partigiani in fin di vita. Essi furono destinati per lo più a Dachau, principalmente nei Blocchi 26 e 28, sulla base di accordi e mediazioni intercorsi con la Santa Sede. La loro opera nei campi fu di conforto ai prigionieri deportati. Alcuni di essi furono destinati ai lavori pesanti nelle fabbriche tedesche o nelle cave e gallerie di Mauthausen, Melk o Ebensee. Quattordici persero la vita.
(Vedasi, tra gli altri, il libro di Guillaume Zeller, La Baraque des prêtres, Dachau, 1938-1945.

Don Riccardo Corti nacque a Rancio di Lecco nel 1876 e fece il suo ingresso nella parrocchia di San Donnino, frazione del Comune di Colle Brianza, nel 1909. Giovane sacerdote poco più che trentenne, non si risparmiò per i suoi parrocchiani sia sul piano spirituale sia sociale, facendosi promotore in parrocchia della nascita dell’Azione Cattolica e di alcune Confraternite.
La vicenda della deportazione di questo anziano prete è dettagliatamente e con molta cura descritta dallo stesso don Riccardo che, appena tornato dalla prigionia, completò di sua mano nel Liber chronicon parrocchiale ciò che suo fratello, il missionario del Pime padre Ferruccio, aveva già cominciato a fare nel periodo in cui lo sostituì alla guida della comunità di Giovenzana. Lo scritto è stato recuperato e meritoriamente stampato e pubblicato nel 1978 e costituisce la fonte principale per esporre quanto accadde al sacerdote della Brianza lecchese.
A causa dell'armistizio dell'8 settembre 1943, i militari dei Paesi alleati e molti italiani fatti prigionieri fuggirono dai campi di prigionia. Nel Nord Italia molti di essi cercarono di dirigersi verso la Svizzera neutrale, altri si unirono alle formazioni partigiane, altri ancora vennero nascosti e ospiati dalla popolazione civile. Contravvenendo alle dure disposizioni emanate dalle nuove autorità fasciste e soprattutto dall'occupante tedesco, buona parte della popolazione che s'imbattè in questi fuggiaschi, offrì loro rifugio e protezione. Alcuni entrarono a far parte delle prime formazioni partigiane che andavano formandosi sulle montagne lecchesi.

Don Riccardo Corti
 
Don Riccardo Corti, più che altro per carità sacerdotale ed umana, accolse parecchi ex-prigionieri sistemandoli in parte in due piccole baite a Pessina e altri otto nella casa del sacrestano. Un altro gruppo si nascose nei boschi più a monte. Verso la metà del mese di settembre due forestieri avvicinarono don Riccardo chiedendogli di nascondere delle armi: richiesta che il religioso respinse. Allora lo supplicarono di condurli a visitare i fuggiaschi. Il parroco commise l’imprudenza di accompagnarli prima nella località di Pessina, dove si trovavano 18 rifugiati, quindi a Cagliano, dove erano presenti in quattro a servizio delle famiglie locali. In occasione della festa patronale che si celebrò il 9 ottobre 1943, lo accostarono di nuovo altri due sconosciuti, i quali formularono le stesse richieste. Due giorni dopo, l’11 ottobre, alle cinque del mattino fu tratto in arresto e condotto con la domestica nella piazzetta, posta al centro di Giovenzana, dove erano già presenti gli otto prigionieri stranieri alloggiati dal parroco. Nel frattempo i soldati tedeschi procedevano al rastrellamento, che portò alla cattura di 14 fuggiaschi, mentre due spagnoli volontari nell'esercito inglese, Josè Martinez e Andrea Sanchez, furono uccisi. Alla fine dell'operazione, ventisei prigionieri furono caricati su due camion delle SS, mentre su due auto distinte, fra due poliziotti italiani, sedettero don Riccardo Corti e il fratello padre Ferruccio, presente a Giovenzana per aiutare la parrocchia e che in questo frangente fu duramente percosso. Fra la paura e lo sgomento della popolazione locale, la colonna si mosse scendendo a Galbiate per passare poi da Lecco e da lì raggiungere Bergamo.
Nel presidio tedesco della città orobica don Corti subì il primo interrogatorio da parte dello stesso maresciallo che lo aveva arrestato. Le autorità nazi-fasciste lo condannarono per motivi politici per “avere contraddetto agli ordini del comando tedesco, alloggiando i fuggitivi dal campo di concentramento e dando loro da mangiare” e di “non avere compiuto il dovere di denunciare al comando tedesco i ribelli che si trovavano nella sua parrocchia”. Fu giudicato colpevole di un “aperto favoreggiamento delle forze nemiche”, secondo il console tedesco in Milano, e di “essersi associato come membro attivo a coloro che annientano in Russia la civiltà europea e con essa la Chiesa cristiana, e in America e Inghilterra, sulle tracce di coloro che hanno inchiodato il Redentore sulla croce, hanno aizzato i popoli alla guerra per l’annientamento di tutta la civiltà europea” come affermò il generale plenipotenziario delle forze armate tedesche in Italia. Per questi motivi venne condannato a 18 mesi di lavori forzati.


Conclusa l'inquisizione fu associato col fratello alle carceri di S. Agata di Bergamo. Il 14 ottobre i due prelati furono trascinati davanti ad un tribunale tedesco per un processo che si dimostrò solo una formalità di facciata. Il presidente non fece altro che leggere un fascicolo accusatorio in tedesco e, senza la presenza di alcun testimone e di alcun avvocato, provvide a condannare padre Ferruccio a due mesi di carcere che scontò a Bergamo stessa, e a comminare al sessantottenne parroco di Giovenzana ben un anno e mezzo di prigione. Ai primi di dicembre gli fece visita l'arcivescovo di Milano, cardinale Ildefonso Schuster. Con lui in cella furono in seguito aggregati altri tre sacerdoti bergamaschi, don Alessandro Ceresoli assistente a Ponte S. Pietro, don Alessandro Brumana, parroco di Valcava e don Antonio Seghezzi assistente diocesano dell'Azione Cattolica. Saranno tutti deportati in Germania e Seghezzi morirà a Dachau poco dopo la liberazione. La vigilia di Natale del 1943, dopo due mesi e mezzo trascorsi al S. Agata, don Riccardo, insieme agli altri preti reclusi, fu trasferito al forte S. Mattia di Verona, edificato dagli austriaci nel 1843.
I sacerdoti vennero rinchiusi in una grande cella, che già conteneva una quarantina di prigionieri.
Le condizioni di Don Riccardo peggiorarono considerevolmente e l’artrite gli causò forti dolori. Dichiarato inabile al lavoro, il 14 gennaio 1944 venne tuttavia incluso in una lista con diciotto prigionieri politici da deportare in Germania. Alle tre del mattino il gruppetto fu caricato su un autocarro e condotto alla stazione di Verona, dove una tradotta li trasferì nel carcere di Monaco di Baviera. Paradossalmente, l'anziano parroco trovò qui delle condizioni di prigionia, soprattutto in termini di pulizia, luce e calore, migliori che a Verona; continuavano invece i maltrattamenti dei guardiani e per la prima volta don Riccardo fu svestito dell'abito talare per indossare la divisa da galeotto, un'evenienza che a sessantotto anni doveva ulteriormente pesare sull'animo del deportato. Nel carcere di Monaco rimase quarantasette giorni, molti dei quali corrisposero con i terribili bombardamenti ai quali la capitale della Baviera venne sottoposta.
Insieme ad altri reclusi fu portato alla stazione di polizia di Monaco e trasferito Donauworth, città bavarese sul Danubio, a 45 chilometri da Augsburg. A piedi, ammanettati per due, con un freddo terribile e le strade piene di neve, la colonna dei detenuti fu fatta affluire alla caserma della polizia e poi trasportata al carcere per lavori forzati del piccolo paese di Kaisheim. Don Corti, con la divisa di galeotto, per spregio, venne adibito al mestiere di calzolaio. Montagne di scarpe arrivavano in vagoni merci da varie zone d'occupazione tedesca e i prigionieri effettuavano la cernita e il recupero del materiale ancora godibile.
Nel frattempo il cardinale Schuster ripresentò la domanda di grazia per il prelato lecchese. La domanda venne accolta, ma i tempi della liberazione furono sempre procrastinati. Nemmeno quando la decisione di liberare il prelato fu ufficializzata, questi riacquistò la libertà. L'autorità carceraria berlinese, giunta a Kaisheim per altri motivi, scoprì sei telegrammi e tutta la documentazione di concessione della grazia giacente nell'ufficio del direttore, che volontariamente l'aveva ignorata. Il funzionario e i suoi sottoposti pagarono l'insubordinazione ai superiori con la loro destituzione. Questo fatto ebbe luogo a fine dicembre del '44 ma neanche in quel momento don Corti fu scarcerato. Con una serie di giustificazioni fu trattenuto a Kaisheim fino ai primi giorni di febbraio del 1945, in pratica, malgrado la grazia, gli si fece scontare tutta la pena alla quale era stato condannato. I guai però non erano finiti, perché l'ormai sessantanovenne parroco quel giorno venne semplicemente messo alla porta; malfermo di salute, senza soldi, senza conoscere la lingua e senza aver mai avuto modo in sedici mesi di comunicare con l'Italia, si trovava in Germania, solo, nel pieno della guerra.
Riuscì ad arrivare a Monaco, ormai rasa al suolo, sotto un'intensa nevicata. Raggiunse, aiutato da una donna, il consolato italiano e fu ricevuto da Vittorio Mussolini in persona. Dopo un'inutile ramanzina sul fatto che ne aveva determinato l'arresto, gli venne pagato il viaggio di ritorno. L'anziano deportato, però, poco pratico, sbagliò treno e fu costretto a scendere in una minuscola stazione, ancora una volta senza denaro. Corse il rischio di morire assiderato e fu salvato da un operaio italiano che stava rientrando in Italia attraverso Innsbruck.
Don Riccardo Corti varcò la frontiera al Brennero e, dopo altre e numerose peripezie, riuscì ad arrivare a Milano. Fu ricevuto dal cardinale Schuster che lo autorizzò a riprendere possesso della parrocchia di Giovenzana. Molto belle e commoventi sono le ultime pagine della sua “memoria”, quando parla del suo ritorno a Giovenzana. Il 14 febbraio 1945 il sacerdote rientrò a casa, trionfalmente, fra la sua gente incredula ed entusiasta e gli sguardi malevoli dei militi fascisti. Ricorda il suo arrivo alla stazione di Olgiate, il suo viaggio a S. Maria e poi a Cologna e finalmente il suo ritorno su una mula a Giovenzana. “Ed eccomi così ritornato dopo un anno e mezzo di durissimo carcere a casa mia, tra il mio popolo nella mia chiesina. Ne sia ringraziato Dio”.

La vicenda di deportazione di questo anziano prete è dettagliatamente e con molta cura descritta dallo stesso don Riccardo che, appena tornato dalla prigionia, completò di sua mano nel Liber chronicon parrocchiale ciò che suo fratello, il missionario del Pime padre Ferruccio, aveva già cominciato a fare nel periodo in cui lo sostituì alla guida della comunità di Giovenzana. Lo scritto è stato recuperato e meritoriamente stampato e pubblicato nel 1978 e costituisce la fonte principale per raccontare quanto accadde al sacerdote della Brianza lecchese.

Beniamino Colnaghi

Riferimenti bibliografici e sitografici
Pietro Arienti, Dalla Brianza ai Lager del Terzo Reich, Missaglia, Bellavite srl, 2011, pag. 153-156.
Consolata: http://www.consolata.org/new/index.php/mission/nostridicono/item/996-don-riccardo-corti-martire-della-carita
Resegone on line: http://www.resegoneonline.it/articoli/Veglia-dei-martiri-missionari-ricordando-don-Riccardo-Corti-20160314/

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