Sacerdoti della Brianza deportati
nei lager nazistiLa storia di don Riccardo Corti
Negli anni della Resistenza al
nazi-fascismo furono una cinquantina i sacerdoti italiani che vennero
deportati nei lager nazisti. Erano stati accusati di aver avuto contatti o aver
aiutato partigiani, ebrei, militari sbandati, renitenti alla leva, prigionieri
alleati evasi, oppure di aver condannato in pubblico le violenze tedesche o
impartito l’estrema unzione a partigiani in fin di vita. Essi furono destinati
per lo più a Dachau, principalmente nei Blocchi 26 e 28, sulla base di accordi e mediazioni intercorsi con la
Santa Sede. La loro opera nei campi fu di conforto ai prigionieri deportati.
Alcuni di essi furono destinati ai lavori pesanti nelle fabbriche tedesche o
nelle cave e gallerie di Mauthausen, Melk o Ebensee. Quattordici persero la
vita.
(Vedasi, tra gli altri, il libro di Guillaume Zeller, La Baraque des prêtres, Dachau, 1938-1945) .
(Vedasi, tra gli altri, il libro di Guillaume Zeller, La Baraque des prêtres, Dachau, 1938-1945) .
Don
Riccardo Corti nacque a Rancio di Lecco nel 1876 e fece il suo ingresso nella
parrocchia di San Donnino, frazione del Comune di Colle Brianza, nel 1909.
Giovane sacerdote poco più che trentenne, non si risparmiò per i suoi
parrocchiani sia sul piano spirituale sia sociale, facendosi promotore in
parrocchia della nascita dell’Azione Cattolica e di alcune Confraternite.
La vicenda della deportazione di questo
anziano prete è dettagliatamente e con molta cura descritta dallo stesso don
Riccardo che, appena tornato dalla prigionia, completò di sua mano nel Liber chronicon
parrocchiale ciò che suo fratello, il missionario del Pime padre Ferruccio,
aveva già cominciato a fare nel periodo in cui lo sostituì alla guida della
comunità di Giovenzana. Lo scritto è stato recuperato e meritoriamente stampato
e pubblicato nel 1978 e costituisce la fonte principale per esporre quanto
accadde al sacerdote della Brianza lecchese.
A causa dell'armistizio
dell'8 settembre 1943, i militari dei Paesi alleati e molti italiani fatti
prigionieri fuggirono dai campi di prigionia. Nel Nord Italia molti di essi cercarono
di dirigersi verso la Svizzera neutrale, altri si unirono alle formazioni
partigiane, altri ancora vennero nascosti e ospiati dalla popolazione civile. Contravvenendo
alle dure disposizioni emanate dalle nuove autorità fasciste e soprattutto
dall'occupante tedesco, buona parte della popolazione che s'imbattè in questi
fuggiaschi, offrì loro rifugio e protezione. Alcuni entrarono a far parte delle
prime formazioni partigiane che andavano formandosi sulle montagne lecchesi.
Don Riccardo Corti
Don Riccardo
Corti, più che altro per carità sacerdotale ed umana, accolse parecchi
ex-prigionieri sistemandoli in parte in due piccole baite a Pessina e altri
otto nella casa del sacrestano. Un altro gruppo si nascose nei boschi più a
monte. Verso la metà del mese di settembre due forestieri
avvicinarono don Riccardo chiedendogli di nascondere delle armi: richiesta che il
religioso respinse. Allora lo
supplicarono di condurli a visitare i fuggiaschi. Il parroco commise
l’imprudenza di accompagnarli prima nella località di Pessina, dove si
trovavano 18 rifugiati, quindi a Cagliano, dove erano presenti in quattro a
servizio delle famiglie locali. In occasione della festa patronale che si
celebrò il 9 ottobre 1943, lo accostarono di nuovo altri due sconosciuti, i
quali formularono le stesse richieste. Due giorni dopo, l’11 ottobre, alle
cinque del mattino fu tratto in arresto e condotto con la domestica nella
piazzetta, posta al centro di Giovenzana, dove erano già presenti gli otto prigionieri
stranieri alloggiati dal parroco. Nel frattempo i soldati tedeschi procedevano
al rastrellamento, che portò alla cattura di 14 fuggiaschi, mentre due spagnoli volontari nell'esercito inglese, Josè Martinez e Andrea Sanchez, furono uccisi. Alla fine dell'operazione, ventisei prigionieri furono caricati su due
camion delle SS, mentre su due auto distinte, fra due poliziotti italiani,
sedettero don Riccardo Corti e il fratello padre Ferruccio, presente a
Giovenzana per aiutare la parrocchia e che in questo frangente fu duramente
percosso. Fra la paura e lo sgomento della popolazione locale, la colonna si
mosse scendendo a Galbiate per passare poi da Lecco e da lì raggiungere
Bergamo.
Nel presidio tedesco della città orobica
don Corti subì il primo interrogatorio da parte dello stesso maresciallo che lo
aveva arrestato. Le autorità nazi-fasciste lo condannarono per motivi
politici per “avere contraddetto agli ordini del comando tedesco, alloggiando i
fuggitivi dal campo di concentramento e dando loro da mangiare” e di “non avere
compiuto il dovere di denunciare al comando tedesco i ribelli che si trovavano
nella sua parrocchia”. Fu giudicato colpevole di un “aperto favoreggiamento
delle forze nemiche”, secondo il console tedesco in Milano, e di “essersi
associato come membro attivo a coloro che annientano in Russia la civiltà
europea e con essa la Chiesa cristiana, e in America e Inghilterra, sulle
tracce di coloro che hanno inchiodato il Redentore sulla croce, hanno aizzato i
popoli alla guerra per l’annientamento di tutta la civiltà europea” come affermò
il generale plenipotenziario delle forze armate tedesche in Italia. Per questi
motivi venne condannato a 18 mesi di lavori forzati.
Conclusa
l'inquisizione fu associato col fratello alle carceri di S. Agata di Bergamo.
Il 14 ottobre i due prelati furono trascinati davanti ad un tribunale tedesco
per un processo che si dimostrò solo una formalità di facciata. Il presidente
non fece altro che leggere un fascicolo accusatorio in tedesco e, senza la
presenza di alcun testimone e di alcun avvocato, provvide a condannare padre
Ferruccio a due mesi di carcere che scontò a Bergamo stessa, e a comminare al
sessantottenne parroco di Giovenzana ben un anno e mezzo di prigione. Ai primi
di dicembre gli fece visita l'arcivescovo di Milano, cardinale Ildefonso
Schuster. Con lui in cella furono in seguito aggregati altri tre sacerdoti
bergamaschi, don Alessandro Ceresoli assistente a Ponte S. Pietro, don
Alessandro Brumana, parroco di Valcava e don Antonio Seghezzi assistente
diocesano dell'Azione Cattolica. Saranno tutti deportati in Germania e Seghezzi
morirà a Dachau poco dopo la liberazione. La vigilia di Natale del 1943, dopo
due mesi e mezzo trascorsi al S. Agata, don Riccardo, insieme agli altri preti
reclusi, fu trasferito al forte S. Mattia di Verona, edificato dagli austriaci
nel 1843.
I sacerdoti vennero rinchiusi in una
grande cella, che già conteneva una quarantina di prigionieri.
Le condizioni di Don Riccardo peggiorarono
considerevolmente e l’artrite gli causò forti dolori. Dichiarato inabile al
lavoro, il 14 gennaio 1944 venne tuttavia incluso in una lista con diciotto
prigionieri politici da deportare in Germania. Alle tre del mattino il
gruppetto fu caricato su un autocarro e condotto alla stazione di Verona, dove
una tradotta li trasferì nel carcere di Monaco di Baviera. Paradossalmente,
l'anziano parroco trovò qui delle condizioni di prigionia, soprattutto in
termini di pulizia, luce e calore, migliori che a Verona; continuavano invece i
maltrattamenti dei guardiani e per la prima volta don Riccardo fu svestito
dell'abito talare per indossare la divisa da galeotto, un'evenienza che a sessantotto
anni doveva ulteriormente pesare sull'animo del deportato. Nel carcere di
Monaco rimase quarantasette giorni, molti dei quali corrisposero con i terribili
bombardamenti ai quali la capitale della Baviera venne sottoposta.
Insieme ad altri reclusi fu portato alla
stazione di polizia di Monaco e trasferito Donauworth, città bavarese sul
Danubio, a 45 chilometri da Augsburg. A piedi, ammanettati per due, con un
freddo terribile e le strade piene di neve, la colonna dei detenuti fu fatta
affluire alla caserma della polizia e poi trasportata al carcere per lavori
forzati del piccolo paese di Kaisheim. Don Corti, con la divisa di galeotto,
per spregio, venne adibito al mestiere di calzolaio. Montagne di scarpe
arrivavano in vagoni merci da varie zone d'occupazione tedesca e i prigionieri
effettuavano la cernita e il recupero del materiale ancora godibile.
Nel frattempo il cardinale Schuster
ripresentò la domanda di grazia per il prelato lecchese. La domanda venne
accolta, ma i tempi della liberazione furono sempre procrastinati. Nemmeno
quando la decisione di liberare il prelato fu ufficializzata, questi riacquistò
la libertà. L'autorità carceraria berlinese, giunta a Kaisheim per altri
motivi, scoprì sei telegrammi e tutta la documentazione di concessione della
grazia giacente nell'ufficio del direttore, che volontariamente l'aveva
ignorata. Il funzionario e i suoi sottoposti pagarono l'insubordinazione ai
superiori con la loro destituzione. Questo fatto ebbe luogo a fine dicembre del
'44 ma neanche in quel momento don Corti fu scarcerato. Con una serie di
giustificazioni fu trattenuto a Kaisheim fino ai primi giorni di febbraio del 1945, in pratica,
malgrado la grazia, gli si fece scontare tutta la pena alla quale era stato
condannato. I guai però non erano finiti, perché l'ormai sessantanovenne
parroco quel giorno venne semplicemente messo alla porta; malfermo di salute,
senza soldi, senza conoscere la lingua e senza aver mai avuto modo in sedici
mesi di comunicare con l'Italia, si trovava in Germania, solo, nel pieno della
guerra.
Riuscì ad arrivare a Monaco, ormai rasa al
suolo, sotto un'intensa nevicata. Raggiunse, aiutato da una donna, il consolato
italiano e fu ricevuto da Vittorio Mussolini in persona. Dopo un'inutile
ramanzina sul fatto che ne aveva determinato l'arresto, gli venne pagato il
viaggio di ritorno. L'anziano deportato, però, poco pratico, sbagliò treno e fu
costretto a scendere in una minuscola stazione, ancora una volta senza denaro. Corse
il rischio di morire assiderato e fu salvato da un operaio italiano che stava
rientrando in Italia attraverso Innsbruck.
Don Riccardo Corti varcò la
frontiera al Brennero e, dopo altre e numerose peripezie, riuscì ad arrivare a
Milano. Fu ricevuto dal cardinale Schuster che lo autorizzò a riprendere possesso
della parrocchia di Giovenzana. Molto belle e commoventi sono le ultime
pagine della sua “memoria”, quando parla del suo ritorno a Giovenzana. Il 14 febbraio 1945 il sacerdote rientrò a
casa, trionfalmente, fra la sua gente incredula ed entusiasta e gli sguardi
malevoli dei militi fascisti. Ricorda il suo arrivo alla stazione di
Olgiate, il suo viaggio a S. Maria e poi a Cologna e finalmente il suo ritorno
su una mula a Giovenzana. “Ed eccomi così ritornato dopo un anno e mezzo di
durissimo carcere a casa mia, tra il mio popolo nella mia chiesina. Ne sia
ringraziato Dio”.
La vicenda di deportazione di questo
anziano prete è dettagliatamente e con molta cura descritta dallo stesso don
Riccardo che, appena tornato dalla prigionia, completò di sua mano nel Liber chronicon
parrocchiale ciò che suo fratello, il missionario del Pime padre Ferruccio,
aveva già cominciato a fare nel periodo in cui lo sostituì alla guida della
comunità di Giovenzana. Lo scritto è stato recuperato e meritoriamente stampato
e pubblicato nel 1978 e costituisce la fonte principale per raccontare quanto
accadde al sacerdote della Brianza lecchese.
Beniamino Colnaghi
Riferimenti bibliografici e sitografici
Pietro Arienti, Dalla
Brianza ai Lager del Terzo Reich, Missaglia, Bellavite srl, 2011, pag. 153-156.Consolata: http://www.consolata.org/new/index.php/mission/nostridicono/item/996-don-riccardo-corti-martire-della-carita
Resegone on line: http://www.resegoneonline.it/articoli/Veglia-dei-martiri-missionari-ricordando-don-Riccardo-Corti-20160314/
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