Reinhard Heydrich era l’esempio dell’ariano nazista perfetto. Alto, biondo, dal fisico prestante, sportivo, freddo e spietato. Una “bestia bionda”, anche se, pare avesse una presenza ebraica all’interno della sua famiglia. Con una passione assoluta per Adolf Hitler e per la soluzione finale della questione ebraica. Braccio destro di Himmler, nel 1941 venne mandato a Praga e nominato governatore del Protettorato di Boemia e Moravia. Per le sue continue repressioni e persecuzioni a cui sottopose i nemici, e a causa del suo atteggiamento e delle sue maniere truci e assassine, fu soprannominato “il macellaio di Praga” e “der Henker”, il boia.
Da Londra, la città nella quale aveva sede il governo ceco in esilio, partì contro di lui l'offensiva della Resistenza, concordata con il governo inglese, che tentò di attuare una risposta militare mirata e di sicuro effetto. I protagonisti indiscussi diventano allora alcuni paracadutisti cecoslovacchi, ai quali venne affidato l’incarico dell’esecuzione del tiranno.
L'attentato ad Heydrich venne eseguito il 27 maggio 1942, nella curva della via Holesovickach, nella zona di Praga Liben. Heydrich non morì sul colpo, ma si spense, a causa delle gravi ferite causate dalla bomba a mano scoppiata nella sua auto, alcuni giorni dopo all’ospedale.
Prima di raccontare cosa avvenne dopo l’attentato e della terribile risposta dei nazisti, vorrei fare un salto in avanti di 70 anni e parlare brevemente di Michal, un ragazzino disabile di quattordici anni di Praga che ha partecipato ad un concorso su Lidice.
La chiesa di Lidice in una vecchia foto |
Bambini di Lidice in una foto dei primi del Novecento |
Michal Horáček sta aspettando davanti al monumento dei caduti. Suo padre lo ha accompagnato in macchina dalla scuola Buďánka, nel distretto 5 di Praga, e ora sta parcheggiando. Persone eleganti gli sfilano accanto. Portano mazzi di fiori e scarpe lucide. Michal suda. Non capisce perché ci metta tanto: sono le dieci e quaranta e deve ancora registrarsi e poi prendere posto. Fa un cenno a suo padre che da lontano accelera il passo, ripone in tasca le chiavi della macchina e allunga le mani sulla carrozzina di Michal, che però si è già spinto da solo. Anche Michal si sente elegante. Indossa una maglietta arancione, un cappellino nuovo di tela bianco e, per l’occasione, ha decorato le ruote della sua carrozzina con degli adesivi viola e gialli. Padre e figlio attraversano l’enorme piazzale antistante alla gloriette ed entrano nel museo dei caduti, una costruzione bassa dove li aspettano gli organizzatori.
Michal si è iscritto al concorso “Lidice pro 21, Stoletì”, quasi per scherzo. Lo ha trovato su internet. Ha letto cos’era. “Una competizione, destinata a ragazzi di tutto il mondo, tra gli undici e i quattordici anni, che premia il migliore elaborato a tema.” Quando Michal ha deciso di partecipare, le tracce erano “Il ritorno a casa” e “Al male non si può reagire solo con le parole”. La seconda lo ha lasciato perplesso. Cosa significa, ha pensato, che le parole non sono tutto? Ha scelto il primo. Ha scritto tre paginette su un’anziana che è riuscita a sopravvivere al campo di prigionia ed è tornata nel proprio paese il giorno del suo compleanno, in tempo per morire nel proprio letto.
“Michal?”. Il padre gli fa cenno di seguire il corteo dei finalisti. Ci sarà una visita guidata lungo il perimetro del monumento ai caduti, prima della premiazione. A Lidice il sole di giugno non scotta. Dal museo la folla si sposta alla gloriette, un tempio a pianta ottagonale, con una robusta croce sul tetto, quindi visitano l’Archivio e un’altra costruzione in pietra che pare una cisterna, piena di foto. Passeggiano sul prato fino alle fondamenta della vecchia chiesa e del liceo di Lidice, girano a destra intorno alla Tomba dell’Uomo e si fermano di fronte alla scultura di Marie Uchytilová: ottantadue bambini di bronzo. Gli ottantadue bambini che furono gassati dalle SS. È lì che si procede con la fase finale della premiazione. Parla il vice-ministro dell’Istruzione, si avvicinano gli undici giurati e gli organizzatori. Il pubblico aspetta. Alla fine, una signora prende il microfono e, dopo una pausa più lunga del solito, fa un nome. Esplode un applauso, la signora cerca tra la folla il vincitore.
“Michal?”. Il padre gli fa cenno di seguire il corteo dei finalisti. Ci sarà una visita guidata lungo il perimetro del monumento ai caduti, prima della premiazione. A Lidice il sole di giugno non scotta. Dal museo la folla si sposta alla gloriette, un tempio a pianta ottagonale, con una robusta croce sul tetto, quindi visitano l’Archivio e un’altra costruzione in pietra che pare una cisterna, piena di foto. Passeggiano sul prato fino alle fondamenta della vecchia chiesa e del liceo di Lidice, girano a destra intorno alla Tomba dell’Uomo e si fermano di fronte alla scultura di Marie Uchytilová: ottantadue bambini di bronzo. Gli ottantadue bambini che furono gassati dalle SS. È lì che si procede con la fase finale della premiazione. Parla il vice-ministro dell’Istruzione, si avvicinano gli undici giurati e gli organizzatori. Il pubblico aspetta. Alla fine, una signora prende il microfono e, dopo una pausa più lunga del solito, fa un nome. Esplode un applauso, la signora cerca tra la folla il vincitore.
“Michal Horáček. Dove sei Michal?”
Michal è accanto a suo padre, e quando capisce cosa è successo, non vuole andare lì, davanti a tutti. Si calza il cappellino bianco sugli occhi. “Vai”, gli dice suo padre, “mica ti mordono”, e Michal si avvicina per ritirare una scultura e un attestato. Facce che non conosce lo salutano, si chinano a congratularsi, gli dicono che il suo non sembra il tema di un ragazzino di quattordici anni, e che a lui deve piacergli parecchio la scuola, per essere già così sveglio e informato. Michal preferisce non dire che lui a scuola ci va solo per far contenta sua madre.
L’organizzatrice riprende la parola e invita i partecipanti a non andarsene perché tra poco si terrà l’incontro con i veterani e la visita al roseto. Ma Michal non sente, le sue mani sudano, la testa gli gira. Si guarda intorno, alla ricerca del premio. Quello vero. Quando vede il piccolo aereo, parcheggiato sulla collina, bianco, due strisce azzurre sulle carene laterali, si gira verso suo padre e sorride. “Io sto davanti”, dice sorridendo.
Michal è accanto a suo padre, e quando capisce cosa è successo, non vuole andare lì, davanti a tutti. Si calza il cappellino bianco sugli occhi. “Vai”, gli dice suo padre, “mica ti mordono”, e Michal si avvicina per ritirare una scultura e un attestato. Facce che non conosce lo salutano, si chinano a congratularsi, gli dicono che il suo non sembra il tema di un ragazzino di quattordici anni, e che a lui deve piacergli parecchio la scuola, per essere già così sveglio e informato. Michal preferisce non dire che lui a scuola ci va solo per far contenta sua madre.
L’organizzatrice riprende la parola e invita i partecipanti a non andarsene perché tra poco si terrà l’incontro con i veterani e la visita al roseto. Ma Michal non sente, le sue mani sudano, la testa gli gira. Si guarda intorno, alla ricerca del premio. Quello vero. Quando vede il piccolo aereo, parcheggiato sulla collina, bianco, due strisce azzurre sulle carene laterali, si gira verso suo padre e sorride. “Io sto davanti”, dice sorridendo.
Una classe della scuola elementare di Lidice nel 1942 |
Dunque, Heydrich è morto. Riprendo il racconto.
È la sera del 10 giugno 1942. In una piccola cittadina della Boemia centrale, a ventitré chilometri da Praga, i cinquecento abitanti sono già a letto. La maggior parte di loro sono minatori, operai metallurgici, contadini, e la mattina si alzano all’alba. Dai boschi una brezza soffia in direzione del paese e fischia quando imbocca i porticati e le stradine del centro. Nessuno sente il convoglio di camion che arriva e si ferma alle prime case. Nessuno sente i passi di corsa sui selciati. Poi, un grido, in tedesco. Il segnale. E il terrore dilaga.
Sette giorni prima, a Praga, il Reichsprotektor, l’SS-Obergruppenführer Reinhart Heydrich è stato ucciso da due paracadutisti cechi addestrati in Inghilterra e alcune piste della Gestapo confermano che i due attentatori provengono da un piccolo villaggio a ventitré chilometri da Praga.
La traccia porta al direttore di una fabbrica vicino Lidice il quale trovò un bigliettino che diceva: «Cara Ania […] quello che volevo fare l’ho fatto. Il giorno fatale ho dormito a Cabàrna. Sto bene, verrò a trovarti questa settimana, e poi non ci vedremo mai più. Milan». La Gestapo, venutane in possesso, crede che quel biglietto – forse l’ultimo di un marito fedifrago e redento all’amante – sia la prova che da Lidice provengano gli attentatori del viceprotettore di Praga e vi manda una squadra speciale, un plotone addestrato a Halle an der Saale: guarda caso la città natale di Heydrich.
La traccia porta al direttore di una fabbrica vicino Lidice il quale trovò un bigliettino che diceva: «Cara Ania […] quello che volevo fare l’ho fatto. Il giorno fatale ho dormito a Cabàrna. Sto bene, verrò a trovarti questa settimana, e poi non ci vedremo mai più. Milan». La Gestapo, venutane in possesso, crede che quel biglietto – forse l’ultimo di un marito fedifrago e redento all’amante – sia la prova che da Lidice provengano gli attentatori del viceprotettore di Praga e vi manda una squadra speciale, un plotone addestrato a Halle an der Saale: guarda caso la città natale di Heydrich.
Le SS sono millecinquecento. Tirano giù dal letto gli abitanti, ordinano loro di raccogliere i propri averi e li trascinano fuori, in strada. Li spintonano, li colpiscono col calcio del fucile. Uccidono tutti gli animali domestici. Poi ammassano le donne e i bambini nella palestra del liceo, rinchiudono gli uomini nello scantinato di una fattoria e, nonostante la notte calma e piena di stelle, non parlano e non esitano. Saccheggiano ognuna delle novantasei case, fanno irruzione negli edifici pubblici, prendono libri, quadri, radio, macchine da cucire e li gettano in strada. Tornano a occuparsi degli abitanti soltanto alle cinque del mattino. Le centosessanta donne e i circa cento bambini vengono fatti salire su alcuni camion diretti a Kladno e poi al campo di concentramento di Ravensbrück. I bambini considerati non adatti alla germanizzazione verranno gassati. Gli altri, dati in affidamento. Diciassette cresceranno come cittadini tedeschi. Nessuno dei centottantotto uomini, invece, lascerà il paese. Vengono radunati di fronte a un muro rivestito di materassi, perché le pallottole non rimbalzino. Ne fucilano dieci alla volta. Quando è giorno e le SS pensano di aver finito, un gruppo di minatori del turno di notte entra in paese. Tocca rimettersi sotto.
Gli abitanti di Lidice massacrati dalle SS |
Per Himmler, tuttavia, questo non è abbastanza. Non può esserlo. Serve una lezione magistrale, uno sfogo simbolo dell’ira di Hitler e del Reich. E allora dà un ordine mai sentito prima: cancellare il villaggio dalle mappe geografiche.
Tutti gli edifici vengono rasi al suolo, il municipio, il campanile, non si risparmiano neanche il cimitero e la chiesa. Le SS appiccano fuochi dappertutto, fanno brillare muri con la dinamite e le granate. Poi, quando il villaggio è solo un cumulo di macerie, spargono il sale, perché su quel terreno non cresca più niente, fanno arrivare le ruspe con un’infinità di metri cubi di terra e ricoprono tutto. Qualcuno si prende il disturbo di piantare il grano, perché non resti una sola traccia della vecchia cittadina della Boemia a ventitré chilometri da Praga che si chiamava Lidice.
Tutti gli edifici vengono rasi al suolo, il municipio, il campanile, non si risparmiano neanche il cimitero e la chiesa. Le SS appiccano fuochi dappertutto, fanno brillare muri con la dinamite e le granate. Poi, quando il villaggio è solo un cumulo di macerie, spargono il sale, perché su quel terreno non cresca più niente, fanno arrivare le ruspe con un’infinità di metri cubi di terra e ricoprono tutto. Qualcuno si prende il disturbo di piantare il grano, perché non resti una sola traccia della vecchia cittadina della Boemia a ventitré chilometri da Praga che si chiamava Lidice.
Lidice, prima e dopo |
Prima di eseguire l'attentato ad Heydrich, la resistenza ceca si pose il problema di dove poter nascondere i paracadutisti. Fu chiesto aiuto a dei religiosi che erano a capo del Consiglio della Chiesa ortodossa di via Resslova, a Praga, i quali conoscevano l’esistenza di una catacomba sotto la chiesa dei santi Cirillo e Metodio.
Tutti si prestarono ad aiutare i paracadutisti: il prete superiore, il sacrestano e il vescovo Gorazd Matej Pavlik. Ma la pressione del terrore a cui fu sottoposta la città fu tale, che qualcuno tradì. I tedeschi risalirono alla chiesa-nascondiglio. Il 18 giugno 1942 due battaglioni di SS circondarono la chiesa ed ebbero subito uno scontro a fuoco contro i sette paracadutisti. Gli ordini erano quelli di catturarli vivi. Tre di loro si difesero dal patio della chiesa fino alle 7 di mattina, per poter salvare gli altri quattro nascosti nella catacomba. Furono uccisi tutti e tre. Ma i tedeschi si accorsero del rifugio e proseguirono l’assalto. I paracadutisti si difesero fino alla penultima pallottola.
Tutti si prestarono ad aiutare i paracadutisti: il prete superiore, il sacrestano e il vescovo Gorazd Matej Pavlik. Ma la pressione del terrore a cui fu sottoposta la città fu tale, che qualcuno tradì. I tedeschi risalirono alla chiesa-nascondiglio. Il 18 giugno 1942 due battaglioni di SS circondarono la chiesa ed ebbero subito uno scontro a fuoco contro i sette paracadutisti. Gli ordini erano quelli di catturarli vivi. Tre di loro si difesero dal patio della chiesa fino alle 7 di mattina, per poter salvare gli altri quattro nascosti nella catacomba. Furono uccisi tutti e tre. Ma i tedeschi si accorsero del rifugio e proseguirono l’assalto. I paracadutisti si difesero fino alla penultima pallottola.
L’ultima venne usata per suicidarsi.
Le famiglie dei preti della chiesa vennero deportate a Mauthausen insieme ad altre 254 persone, ove furono sterminate. Il vescovo Gorazd venne torturato per tre mesi e poi condannato a morte in un processo farsa, insieme ai preti della chiesa. Con questa azione venne azzerato il vertice della Chiesa ortodossa di Boemia.
La strage di Lidice provocò orrore in tutto il mondo. La prima pietra del nuovo villaggio fu posta il 15 giugno 1947 alla presenza dei rappresentanti del governo e di numerosi delegati stranieri.
Cinquecento giovani cecoslovacchi e 80 giovani stranieri lavorarono nel cantiere dall'8 maggio 1947 al 28 ottobre 1948.
Le nuove case furono costruite a circa 300 metri dal vecchio villaggio distrutto: quello spazio volle simboleggiare adeguatamente la separazione tra la vita e la morte. Un’enorme, rozza croce di legno con una corona di filo spinato fu eretta ove si presume riposino i corpi o le ceneri degli uomini fucilati.
Lo spazio fra il vecchio villaggio distrutto e quello nuovo costruito in seguito è diventato un memoriale, ove è stato piantato il “Roseto della Pace”, con piante arrivate da tutto il mondo; su un muro a semicerchio sono stati posti gli stemmi e i nomi delle città martiri che hanno subìto una sorte analoga a quella di Lidice, tra le quali la nostra Marzabotto.
Il monumento dedicato ai bambini di Lidice |
Particolare |
Beniamino Colnaghi
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