mercoledì 3 ottobre 2012

Il secolo di Eric Hobsbawm

di Angelo d’Orsi (tratto da "Il Fatto quotidiano" del 02.10.2012)

Storico di mestiere (e con quale mestiere!), ma militante per passione, Eric J. Hobsbawm, morto il 1 ottobre 2012 a 95 anni, che aveva festeggiato il 9 giugno scorso, era nato nel cruciale 1917, ad Alessandria d’Egitto. Di famiglia ebrea, per un errore di trascrizione il suo cognome originario Obstbaum, divenne Hobsbawm. Vissuto tra Vienna, Berlino, Londra, Cambridge, fu un autentico cosmopolita, in grado di frequentare sette lingue, tra cui l’italiano. Il cosmopolitismo, connesso all’ebraismo di nascita (sempre laico e poi critico di Israele), corroborato dal marxismo scelto nella prima gioventù e mai abbandonato, si rifletté nella vastità degli interessi culturali, e nella capacità di praticare la world history, che portò a un livello alto, quanto di grande godibilità narrativa in opere di sintesi eccelsa, fino al fortunatissimo The age of extremies, uscito in italiano con il titolo ancora più efficace Il secolo breve: un’opera mastodontica per la mole, per la densità anche concettuale, e per la capacità di tenere sotto controllo l’intera dinamica mondiale, non solo sul piano della politica – interna ai singoli Stati e quella internazionale – ma su quello dell’economia, della società, delle forme culturali.




Ebbe una lunga esperienza accademica: la sua sede fu essenzialmente il londinese Birbeck College, ma ebbe le sue difficoltà, bollato come marxista e comunista, negli anni Cinquanta (e oltre), quando anche nel Regno Unito giunse il maccartismo, sia pure in quella che Hobsbawm chiamò forma “debole”: per esempio gli furono chiuse le porte di Cambridge. Del resto la politica, sia pure sullo sfondo, fu sempre presente nella biografia di Hobsbawm.

Fu un iscritto, fino al 1989, del Partito comunista britannico dopo essere stato in gioventù adepto del partito omologo germanico, ma al di là della militanza, seguì sempre con forte attenzione le vicende interne al Paese che era diventato il suo d’adozione, l’Inghilterra, e con attenzione maggiore quelle internazionali, non smentendo la sua capacità di guardare oltre il giardino. Fu tra le colonne del giornale Marxism Today e quando chiuse divenne una delle firme più prestigiose del Guardian, sempre con uno sguardo critico, non allineato, sempre originale, talora irriverente, come quando definì Tony Blair “una Thatcher in pantaloni”, suscitando allora un certo scalpore, che la storia successiva si sarebbe incaricata di mostrare invece quanto fosse vicino al vero in quella etichetta.

Furono frequenti le sue intrusioni negli scenari politico-intellettuali di altre nazioni, a cominciare dall’Italia, a cui fu legatissimo non solo per collaborazioni editoriali e scientifiche (fu tra i promotori della Storia d’Italia Einaudi, nonché nel comitato della grande Storia del marxismo, dello stesso editore), ma anche per interessi di ricerca, che non furono mai asettici, bensì sempre so-stanziati di passione politica, sempre dalla parte dei deboli, degli schiacciati, dei subalterni. Un’autentica storia dal basso. Significativa la sua attenzione in chiave storica al banditismo e al brigantaggio post unitario, alla ricerca dei contenuti politici e della base sociale propria di quelle forme primitiva di protesta, come egli le interpretò. Fu tra i primi a studiare un personaggio come Davide Lazzaretti, riconoscendo nella sua lotta religiosa autentiche potenzialità rivoluzionarie.

Ma l'Italia per Hobsbawm fu innanzitutto, e sino alla fine, Antonio Gramsci, che fu per Hobsbawm molto più di un autore da studiare: Gramsci fu davvero per lui un Virgilio, una guida spirituale, oltre che storiografica e genericamente intellettuale, grazie al quale poté accostarsi alla vicenda politica e culturale del nostro paese, suscitando domande nuove, scovando filoni inesplorati, avanzando tesi interpretative per nulla scontate.

Non a caso egli intitolò Past and Present la rivista da lui fondata nel ’52: testata che riprendeva, traducendolo, il titolo del sesto dei volumi in cui furono raccolti i Quaderni gramsciani. Presidente onorario della International Gramsci Society, fu anche membro autorevole della Commissione per l’Edizione nazionale degli scritti di Gramsci, alla quale non fece mancare, nelle complesse fasi dell’esordio, consiglio e sostegno. A Gramsci, anzi a “Nino”, egli indirizzò una struggente lettera, registrata in video dal compianto Giorgio Baratta (studioso gramsciano tra i più originali), in occasione del 70° della morte del grande pensatore e rivoluzionario sardo, al quale, come Hobsbawm stesso confessava nel videomessaggio, lo univa, idealmente, ancor prima che un sodalizio intellettuale, la condivisione di un progetto, di una speranza, di una volontà: l’emancipazione degli sfruttati. A Gramsci – scrisse in uno dei suoi ultimi saggi – occorre esser grati “per averci insegnato che lo sforzo per trasformare il mondo non solo è compatibile con una riflessione storiografica originale... ma è impossibile senza di essa”.

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