sabato 4 aprile 2020

Gian Giacomo Mora, Guglielmo Piazza, la colonna infame e, sullo sfondo, la peste di Milano del 1630

La Storia della colonna infame” è un saggio storico pubblicato nel 1840 in appendice a I promessi sposi”. Nel saggio Alessandro Manzoni ricostruisce il processo contro Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, che  accusati di essere untori, vennero torturati e condannati a morte nel 1630. Nel luogo della casa distrutta del Mora venne eretta una colonna detta infame, per ricordare ai posteri il misfatto compiuto e la pena subita dallo scellerato, insieme al complice Guglielmo Piazza. Nell’introduzione al saggio, Manzoni espone il motivo per cui ha ritenuto opportuno occuparsi della vicenda. Pietro Verri, in un suo saggio del 1777, “Osservazioni sulla tortura” si servì di quel processo come di un argomento a sostegno dell’inutilità e barbarie della tortura.
Manzoni, invece, critico col Verri, intende dimostrare che l’ingiustizia compiuta contro due innocenti in quel processo sia da attribuirsi non all’uso della tortura o all’ignoranza del tempo sui modi di trasmissione della peste, ma
“da atti iniqui prodotti da (…) passioni perverse”
Ossia, quei giudici, pur avendo a propria disposizione lo strumento della tortura e pur non sapendo che non era possibile diffondere la peste tramite le unzioni malefiche, avrebbero potuto evitare l’ingiusta condanna, se avessero fatto uso della ragione, della loro capacità di giudicare, di distinguere il bene dal male. E non lo fecero, non perché non potevano farlo, ma perché non vollero farlo, perché
“si può bensì essere forzatamente vittime, ma non autori” di ingiustizie. Manzoni afferma che il male si compie sempre sapendo di compierlo e che è dovere degli uomini interrogarsi sulle proprie azioni e riconoscere sempre le proprie responsabilità.

Tra le numerose epidemie di peste che flagellarono Milano lungo i suoi secoli di vita, quella del 1630 è da considerare senz'altro la più conosciuta e ricordata, per merito indiscusso del Manzoni, che la scelse quale cupo sfondo alle vicende narrate nei Promessi sposi. Anche questa epidemia, come le precedenti (l'ultima aveva devastato la città nel 1576), non arrivò improvvisamente nell'arco di pochi giorni, bensì si sviluppò lentamente ma inesorabilmente dando le prime avvisaglie molti mesi prima, e prova ne è che già nel 1628 la Sanità milanese (l’organo preposto alla tutela della salute dei cittadini), considerate le poco rassicuranti notizie riguardanti i contagi che dilagavano in Europa, aveva emanato una grida per porre Milano al riparo da ogni sorta di rischio. Successivamente, sull'onda dei racconti provenienti soprattutto dalla Svizzera, vennero pubblicati alcuni bandi per vietare il commercio con alcune città di quel Paese. In marzo, ad aggravare la carestia che da qualche tempo si era abbattuta sul Milanese, ci si mise la guerra per la successione nel Monferrato tra la Francia e gli Asburgo. L’esercito spagnolo pose l’assedio a Casale, il che comporterà per i mesi seguenti, come vedremo, pericolosi movimenti di truppe attraverso i territori di Milano. Tra proclami e bandi inascoltati, arrivò l'ottobre del 1629 senza che importanti e mirati provvedimenti fossero ancora stati presi, e ciò a causa, prevalentemente, dello scetticismo che le autorità mostravano circa la possibilità che la peste varcasse le porte cittadine. Del resto, in questo periodo, il registro del lazzaretto di Porta Orientale, regolarmente in funzione dall'inizio del 1500 e adibito a ricovero di malati contagiosi, riporta soltanto tre ricoverati sospetti, prelevati dalle rispettive abitazioni dietro segnalazione dell’Anziano di S. Babila.
La paura cominciò a diffondersi veramente solo il 12 ottobre, con la notizia che a Malgrate, vicino a Lecco, il giorno prima erano morte dodici persone sane e robuste.
Il 22 ottobre 1629, proveniente probabilmente da Chiavenna, già infettata dalla peste, tornò in città Pietro Paolo Locato, abitante in Porta Orientale, nella parrocchia di S. Babila, portando con sé molti abiti barattati o acquistati dai fanti alemanni. Dopo tre giorni trascorsi nella propria casa assieme ai familiari, fu ricoverato all'Ospedale Maggiore, dove tuttavia morì nell'arco di due soli giorni. Sul suo corpo, il  capoinfermiere rinvenne "un flegnione nel brazzo sinistro, et principio di infiammatione sotto all'assela, pure sinistra" (Cronaca del Settala). Pertanto si bruciarono al più presto il letto e le sue povere cose, dopodiché i familiari dell'uomo furono trasportati al lazzaretto per la quarantena.
Dopo questo caso di peste conclamata, furono pubblicate numerose grida che proibivano baratti coi soldati tedeschi di passaggio, mentre la Sanità milanese pensò bene di introdurre l'utilizzo obbligatorio delle “bollette personali di sanità”, una sorta di passaporto medico che accertasse la provenienza da territori sani di ogni persona che volesse entrare in Milano.
Il carnevale portò un periodo di spensieratezza e festeggiamenti, durante i quali nessuno parve preoccuparsi delle persone che, sebbene in non larga misura, morivano di peste entro tre giorni dai primi sintomi. Ai festeggiamenti carnevaleschi si aggiunsero quelli, ancora più sfarzosi, in onore della nascita, avvenuta nel novembre dell’anno precedente, dell’infante di Spagna. Dal clima euforico non si salvava neppure il lazzaretto, dove si organizzavano feste e balli, e si commerciava impunemente con l’esterno. Questi eccessi, ed altri ben più gravi, spinsero alla pubblicazione dei severi "Ordini dell'hospitale di S. Gregorio detto lazzaretto, fatti e instituiti dai fisici collegiati Alessandro Tadino et Senatore Settala". In ogni caso, poco dopo, per risolvere definitivamente i problemi connessi alla disciplina, i conservatori della città ne affidarono la gestione e l'organizzazione al padre cappuccino Felice Casati.
A marzo si ebbero grandi spostamenti di truppe, da Gera d'Adda dirette verso il Monferrato, truppe che, nonostante gli evidenti rischi di diffusione incontrollata del contagio, transitavano in città, bivaccando per giorni nelle campagne circostanti. Dai Grigioni, attraverso la Valtellina, inoltre, scesero alcune migliaia di lanzichenecchi, lasciando ovunque devastazioni e rovine. Con la primavera i morti presero sensibilmente ad aumentare, tanto che a maggio, col primo vero caldo, il lazzaretto si mostrò incapace di accogliere altri appestati. Si ipotizzarono dunque varie soluzioni, tra le quali requisire il borgo della Trinità, fuori Porta Ticinese, per adibirlo a ricovero dei sospetti, lasciando il lazzaretto solo per i malati accertati. Inoltre, si ventilò l'ipotesi, poi non attuata, di sigillare l’intero borgo di Porta Orientale, la zona di Milano col più alto numero di malati e di decessi.


Proprio quando il cardinale Federico Borromeo iniziava ad organizzare processioni cittadine per invocare l’aiuto divino contro il flagello, tra il popolo iniziò a diffondersi la voce circa la presenza un po' ovunque di loschi personaggi che, muniti di veleni e intrugli vari, andavano ungendo mortalmente le zone di maggior passaggio. Il 17 maggio, durante la consueta processione serale all’interno del Duomo, alcuni fedeli videro distintamente alcune persone nell'atto di ungere la balaustra che all’epoca divideva la zona riservata agli uomini da quella delle donne. Dato prontamente l’allarme, accorse per un sopralluogo lo stesso presidente della sanità Monti, individuando in più punti, ma soprattutto sulle panche, macchie di materiale untuoso e sconosciuto. Dopo questo caso clamoroso, si misero a verbale molte denunce di cittadini, terrorizzati dalle continue unzioni che nottetempo venivano compiute a danno di portoni, maniglie e catenacci.
Lo storico Ripamonti riferisce due casi che riassumono bene il clima di sospetto che aleggiava in quei tempi.
Uno riguarda tre viaggiatori francesi, i quali visitando la nostra città, giunti davanti allo splendido marmo del Duomo, vi passarono le mani per saggiarne la levigatura. Furono subito percossi da alcuni popolani, e poi trascinati in carcere con l'accusa di essere untori.
L'altro, di un vecchio che prima di sedersi su di una panca in S. Antonio, ebbe la malaugurata idea di spolverarla col proprio mantello. I fedeli presenti lo aggredirono a calci e pugni, abbandonandolo morto.
La situazione si era fatta a questo punto ingestibile: il numero dei decessi aumentava ogni giorno di più, così come le tracce di sostanze appiccicose, rinvenute ormai dappertutto, nonostante il Monti avesse dato alle stampe una grida “contro coloro che sono andato ungendo le porte, catenacci, e muri di questa città”. Di tutto ciò il Governatore dello Stato accusava apertamente le potenze straniere nemiche della Spagna, colpevoli, a suo dire, di aver prezzolato individui senza scrupoli per diffondere la peste in tutta la città, col chiaro intento di ridurre il ducato milanese in ginocchio. Alla fine di maggio, con quaranta decessi al giorno e centinaia di malati, venne allestito un secondo lazzaretto, al Gentilino, affidato ai carmelitani, che vi entrarono il giorno 8 giugno.
E mentre anche le cause civili erano ormai sospese per precauzione, martedì 11 giugno, a mezzogiorno, si mosse la grande processione col corpo di Carlo Borromeo, voluta dal cardinale Federico, ultima speranza di un evolversi positivo del contagio. La processione si snodò lungo le vie, toccando tutte le Porte della città, e di volta in volta fermandosi ai piedi delle numerose croci stazionali innalzate in occasione della pestilenza del 1576. Purtroppo, la grandissima affluenza di popolo portò, come prevedibile, ad un incremento della virulenza del male,  che nelle settimane successive falciò inesorabilmente migliaia di persone, con una media di centocinquanta morti al giorno, numero che toccò con l'estate i duecento e più. Ormai la situazione appariva drammatica: migliaia di case chiuse o abbandonate ai saccheggi, infermi lasciati senza conforto e senza alcun tipo di aiuto medico, un macabro andirivieni, di notte e di giorno, di carri colmi di cadaveri.
I nobili, frattanto, davanti allo spettacolo di una città ridotta a bolgia di dannati, si erano dati  precipitosamente alla fuga, sfollati nelle più sicure e lussuose dimore sulle colline della Brianza, nonostante le grida delle autorità proibissero di lasciare Milano, pena la confisca dei palazzi e di tutti gli averi. 

Quando ormai le cifre ufficiali parlavano apertamente di 14.000 decessi per peste dall’inizio dell’epidemia e la città si presentava, come scriveva il Monti, “miserabilissima”, i milanesi di Porta Ticinese e del Carrobbio ebbero un terribile risveglio, la piovosa mattina di venerdì 21 giugno 1630. Nella zona, infatti, tutti i muri, le porte, gli angoli, e i catenacci delle case apparivano imbrattati con una sostanza appiccicosa di colore giallo. Nazario Castiglioni, sagrestano di S. Alessandro, è il primo ad informare dell'accaduto il capitano di giustizia, Gianbattista Visconti, che si recò immediatamente in Porta Ticinese per far luce sull’accaduto.
Le informazioni che sono pervenute a noi, e che ci permettono di ricostruire tutti i drammatici risvolti della vicenda, sono contenute in alcune copie del verbale originale degli atti processuali. Delle copie esistenti, una, considerata la più attendibile, pubblicata nel 1633 e l'altra, manoscritta, entrambe custodite alla Braidense in due volumi, furono studiate dal Manzoni.
Da quanto si apprende dalle copie degli interrogatori, il Capitano di giustizia, dopo aver ascoltato decine di popolani, scovò finalmente due donnicciole che testimoniarono di aver visto dalle finestre delle loro misere case, affacciate sulla Vetra e sul corso di Porta Ticinese, un uomo alquanto sospetto, avvolto in una mantella nera e con un grosso cappello, il quale camminava in modo a loro dire sospetto, rasente ai muri, e "che si fermò qui in fine della muraglia del giardino della casa delli Crivelli e che aveva una carta piegata al longo in mano, sopra la quale metteua su le mani, che pareua che volesse scriuere (…) che leuata la mano dalla carta, la fregò sopra la muraglia del detto giardino, doue era un poco di bianco” (Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame, in Opere, p. 968).
Una delle donnette popolane, poi, sempre affacciata al davanzale, disse di aver visto l'uomo misterioso allontanarsi, non senza aver prima salutato un passante, ch'ella, per combinazione, conosceva. Da questo seppe dunque il nome del presunto untore.
Nasce così il ballo macabro della “Colonna Infame”.
Il 22 giugno 1630 fu immediatamente tratto in carcere "un uomo di statura grande, magro, con barba rossa assai longa, capelli castani scuri, in camisa dal mezzo in su, con calzoni di mezzalana mischia stracciati, calcette di stamo nero, et ligazzi di cendal nero" (Giuseppe Ripamonti, La peste di Milano del 1630, Muggini, p.57). Il suo nome era Guglielmo Piazza, di professione Commissario di sanità. La sua abitazione in Porta Ticinese, per l'esattezza nella parrocchia di S. Pietro in Camminadella, fu perquisita, ma nonostante lo zelo non si trovò alcunché di sospetto. Il poveretto subì numerose sedute di tortura, durante le quali ribadì sempre la medesima versione, e che cioè quella mattina stava solo compiendo il suo lavoro, percorrendo la zona della Vetra dei Cittadini, delle Colonne di S. Lorenzo, di S. Michele alla chiusa e di S. Pietro in campo lodigiano, per segnarsi sul foglio di servizio le case rimaste abbandonate, e prendendo appunti sui decessi avvenuti nel quartiere. Sul perché poi camminasse rasente ai muri, si giustificò dicendo che voleva ripararsi dalla pioggia, cosa che se a noi potrebbe apparire più che verosimile, all’epoca fu ritenuta una menzogna bella e buona.
Tuttavia, non potendo resistere a lungo ai tormenti cui veniva quotidianamente sottoposto, il 26 giugno confessò di aver ricevuto del veleno da un barbiere anche lui del Ticinese, di cui conosceva solo il nome di battesimo: Giovanni Giacomo. Il Piazza si era inventato dunque una storia credibile, narrando che il barbiere lo aveva avvicinato qualche tempo prima, offrendogli una buona ricompensa se in cambio si fosse prestato ad ungere le case della zona con una sostanza di tipo "giallo, duro, come l’oglio gelato nel tempo dell’inverno", che lo stesso barbiere fabbricava di nascosto nella sua bottega, e con la quale poi riempiva certe ampolline di vetro. Forti di quanto estorto con la tortura, il presidente della sanità, col notaio ed una opportuna scorta, si presentarono nella bottega del barbiere Gian Giacomo Mora.
Per sua somma disgrazia, il Mora, che come tutti i barbieri dell'epoca si occupava anche di bassa chirurgia, da quando era scoppiata la peste arrotondava i magri guadagni vendendo un prodotto da lui stesso inventato, un rimedio contro il contagio, che era alquanto richiesto dal popolo, privo, del resto, di altri e più efficaci ritrovati scientifici. Il barbiere, pertanto, viste le guardie e spaventato dal fatto che queste iniziavano una minuziosa perquisizione della bottega, pensò di confessare la colpa che, a suo ingenuo avviso, aveva spinto qualcuno a denunciarlo: ammise così di aver più volte preparato un unguento senza averne l'autorizzazione, ma di averlo fatto solo a fin di bene, per amore del prossimo. Non poteva neppure immaginare, in realtà, quale accusa terribile gli sarebbe stata mossa di lì a poco.
Durante la perquisizione della casa, fu sequestrata una gran quantità di sostanze e pozioni, il cui elenco venne steso dal notaio presente. La scoperta più interessante la si fece però nel cortile interno del caseggiato, dove in un angolo un poco nascosto si rinvenne un grosso pentolone dimenticato al sole, dentro al quale era contenuta la “lisciva e cenere”, una sostanza che, ricorda anche il Manzoni, veniva comunemente adoperata, col nome popolare di "ranno" o "smoglio" per fare il bucato. Trascinato in carcere, alla domanda se conoscesse il Piazza e se mai gli avesse consegnato un vasetto di vetro ricolmo di un certo preparato, il Mora, sempre all'oscuro del reato per il quale era stato messo agli arresti, ammise di conoscerlo e di avergli venduto tal unguento salvavita, dato il mestiere pericoloso che il Piazza svolgeva, sempre a contatto con cadaveri e ammalati. Quell'intruglio, secondo la sua confessione riportata nel verbale dell’interrogatorio, era composto di “8 onze d’oglio di oliva, 4 di aglio laurino, 4 d’oglio di sasso detto filosophorum, 4 di cera nova, 4 di rosmarino, 4 di ballette di ginepro, e 4 onze di polvere di salvia”. La pozione andava sfregata sui polsi, e conservava la salute da ogni contagio di peste. Inutile dire che la sanità milanese volle vedere in quella storia ben altri risvolti. In un processo indiziario e inquisitorio, quello che appariva certo era una sola cosa: il Mora produceva del veleno, tracce del quale erano state rinvenute nella bottega, e ne aveva fornito il Piazza, col fine criminoso di diffondere il contagio a Milano.
Il Senato, tratte le sue conclusioni, volle solo ottenere le confessioni necessarie per emettere la condanna. Nel mese di luglio si ebbero numerosi arresti, sulla base di testimonianze popolari o dietro confessioni estorte torturando al limite della sopravvivenza il Piazza e il Mora. Nelle calde giornate comprese tra il 27 e il 30 giugno si organizzò il confronto tra il Piazza e il Mora, ai quali si concedettero infine sei giorni di tempo per definire le loro difese, termine che comunque venne più volte procrastinato, secondo le esigenze degli inquisitori.
Stremato da più di un mese di torture, domenica 30 giugno il Mora iniziò a rendere piena confessione, sperando di porre fine a quell'incubo e di avere salva la vita. Raccontò dunque di aver più volte preparato un unguento pestifero, che ricavava utilizzando la "bava raccolta dai morti di peste", materia che lo stesso Piazza gli forniva, essendo per lavoro sempre a contatto coi monatti e i carri stracolmi di appestati. La sostanza veniva poi fatta bollire in quel pentolone rinvenuto in cortile. Successivamente, sottoposto ad altri tratti di corda, il Mora aggiunse di aver organizzato il tutto dietro compenso versatogli da un personaggio di spicco, appunto Gaetano de Padilla, il cui nome evidentemente venne messo in bocca al Mora dai giudici.
Con la confessione, il barbiere aveva firmato la sua condanna a morte.
In uno degli ultimi giorni di quel maledetto luglio del 1630 il Senato milanese emanò, dopo quasi un mese e mezzo di indagini, interrogatori, torture, arresti, la più terribile delle condanne, a danno di Guglielmo Piazza e di Gian Giacomo Mora, che troveranno così la morte pochi giorni dopo, il 1° agosto.
 

Come previsto dalla sentenza capitale, i due untori rei confessi, legati schiena a schiena, furono caricati su di un carro trainato da buoi, attorniato da una folla inferocita. Il corteo partì dal palazzo del Capitano di giustizia e, passando prima accanto al Duomo e snodandosi poi attraverso le varie tortuose contrade dei Mercanti d'oro, dei Pennacchiari, della Lupa, della Palla, di S. Giorgio al palazzo, che ora, rettificate, formano via Torino, raggiunse il Carrobbio. Poi imboccò la strada di S. Bernardino alle monache, dove i due vennero tormentati con tenaglie arroventate, successivamente proseguì per S. Pietro in camminadella, e, sostando davanti alla bottega del Mora, ai condannati si amputò la mano destra. Infine, il macabro corteo si arrestò nell'attuale piazza della Vetra, sul cui tristemente famoso prato era abitualmente allestito il patibolo.
Fatti scendere sullo sterrato gremito di popolo, i condannati furono legati alla “ruota” e colpiti duramente con bastoni fino alla rottura di tutte le ossa. Seppure in agonia, i due poveretti rimasero per sei ore esposti alla pubblica vista, affinché tutti potessero meditare sulla terribile sorte riservata agli untori. Al termine del rituale, si pose fine alle loro sofferenze scannandoli, bruciandoli, e gettando le loro ceneri nella Vetra, che scorreva lì accanto. 


Morti i due, si diede seguito alle disposizioni della sentenza del Senato, demolendo dalle fondamenta la casa del barbiere, e sullo slargo così creatosi si innalzò una colonna di granito, con in cima una sfera di pietra, la "Colonna Infame”, a perenne ricordo della malvagità degli artefici dell'epidemia. Sul muro della casa di fronte venne affissa una grossa lapide, la quale ricordasse quali furono le colpe dei due criminali, quale la pena loro riservata, e il monito affinché nessuno mai osasse riedificare sui resti della bottega del barbiere Mora.
 
 
La morte dei due innocenti non placò ovviamente la furia del contagio, che in agosto, anche a causa della calura opprimente, toccò il suo picco massimo. I morti giornalieri, anche se le cifre tramandateci dagli storici sono purtroppo sempre alquanto approssimative, ammontavano ormai a 600, e si diceva che almeno 4.000 fossero i cadaveri insepolti che giacevano lungo le vie o abbandonati nelle case. Continuarono anche gli arresti di untori, e qualcuno iniziò ad ipotizzare che in città si aggirasse un vero esercito straniero, col diabolico compito di ungere tutta Milano. Con settembre iniziarono a mancare i generi di prima necessità e, quel che è peggio, iniziarono a scarseggiare i monatti. Una grida del 22 luglio, del resto, già aveva intimato di non "gettare, far gettare, lasciare o far lasciare in strada dalle finestre alcun cadavere, se non nell'atto che i monatti li ricevono". Una missiva del 31 agosto 1630 testualmente dice che "ormai a Milano è rimasta assai poca gente, e vi sono case disabitate, e i morti, dall'inizio del contagio, ammontano a settantaduemila".
A dicembre del 1630, grazie al freddo, il contagio cominciò a perdere vigore, e a partire dai primi mesi del 1631 l'epidemia poteva dirsi in ritirata. Da un primo ed approssimativo conteggio Milano risultava "ridotta però a cinquantamila abitanti solamente, mentre, fattosi melio il conto, centocinquantamila ne ha tolto la contagione di questo infelice anno, mentre nelle ville, et per le terre del paese continuano a dimorare la nobiltà tutta et molti altri, che a tempo sono fuggiti dalla imminenza del pericolo" (Dispaccio 11 dicembre 1630).
Untori batterono la città? Probabilmente sì. Anch’essi brulicarono in quel sottobosco di brutture fisiche e morali che fu Milano al tempo della peste. Ma non furono ovviamente determinanti nella catastrofe che, secondo Giuseppe Ripamonti provocò 140mila vittime, secondo Alessandro Tadino 185mila.

Beniamino Colnaghi

Bibliografia

* Alessandro Manzoni, Storia della Colonna Infame, in Opere.
* Giuseppe Ripamonti, La peste di Milano del 1630, Muggini tipografo-editore, Milano 1945.
* Processo agli untori. Milano 1630: cronaca e atti giudiziari, a cura di Giuseppe Farinelli e Ermanno Paccagnini, Garzanti, Milano 1967.
* Corrado Stajano, La città degli untori, Garzanti, Milano 2009.

Su Milano sono presenti su questo blog altri articoli storici:
 
Le grandi famiglie milanesi: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2016/09/le-radici-delle-grandi-famiglie.html
L'insurrezione di Milano del 1848: https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2019/03/anche-la-lenta-brianza-secondo-il.html
Feltrinelli:  https://colnaghistoriaestorie.blogspot.com/2016/12/lutopia-di-diffondere-la-nuova-sede.html

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.