sabato 11 marzo 2017

Gli scioperi del marzo 1944 nel Nord Italia ed i deportati brianzoli

Lo sciopero generale attuato nel Nord Italia dall'1 all'8 marzo 1944 costituì l'atto conclusivo di una serie di agitazioni cominciate, in forme e modalità diverse, già nel settembre 1943, all'indomani della costituzione della Repubblica Sociale Italiana e dell'occupazione tedesca. Gli scioperi del marzo 1944 sono passati alla storia come la più grande protesta pacifica organizzata in un territorio militarizzato, occupato dai fascisti e dai tedeschi. Esso fu infatti caratterizzato da una precisa matrice di natura politica: l’animatore dello sciopero fu il Partito comunista italiano e il suo strumento principale furono i “Comitati d’agitazione”. Il Clnai, Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, formazione interpartitica formata da movimenti di diversa estrazione culturale e ideologica, approvò il progetto di sommossa pacifica e si pose alla testa degli operai.
Lo sciopero iniziò il primo marzo nelle fabbriche del "triangolo industriale". In Lombardia furono Milano e Sesto San Giovanni le città trainanti. La Breda, la Falck la Magneti Marelli, la Pirelli furono il centro motore dello sciopero, che si diffuse rapidamente in altre città lombarde, quali Monza, Desio, Meda, Cantù, Lecco e la Brianza. Lo sciopero andò avanti per più di una settimana, fino a quando non venne represso dai tedeschi e dalla polizia di Salò, attraverso una massiccia azione di rappresaglia e di deportazione dei lavoratori.  

Gli operai e le maestranze della Breda di Sesto San Giovanni in sciopero
Secondo fonti repubblichine allo sciopero parteciparono complessivamente 208.549 operai. A Milano gli scioperanti erano stati 119.000 nell'arco di cinque giorni e a Torino 32.600 per tre giorni. Addirittura maggiore risultava per i tedeschi il numero di coloro che si erano astenuti dal lavoro. Poiché Hitler aveva ordinato di deportare in Germania il 20 per cento degli scioperanti, l'ambasciatore tedesco presso la Repubblica Sociale, Rudolph Rahn, calcolò che tale percentuale corrispondeva a 70.000 persone. Ciò significava valutare gli astenuti dal lavoro in 350.000, cifra veramente imponente. Proprio il consistente numero di coloro che avrebbero dovuto essere deportati, che avrebbe potuto rivelarsi controproducente sul piano politico e avere conseguenze di rilievo sullo sviluppo della Resistenza, indusse poi i tedeschi a ridurre le deportazioni. Anche se «la cifra esatta» dei deportati «non si è potuta avere», non è tuttavia «improbabile che ammontasse a 1200». Occorre inoltre sottolineare che i lavoratori tennero, nella maggior parte dei casi, un atteggiamento fermo di fronte ai tentativi dei dirigenti politici e sindacali di matrice fascista di indurli a riprendere il lavoro, cedendo alla fine solo alla durissima repressione tedesca.(1)

Come fatto cenno poco innanzi, anche nel lecchese gli operai incrociarono le braccia. Nelle grandi fabbriche di Lecco, la Badoni, l’Arlenico-Caleotto, la File, la Bonaiti, i lavoratori iniziarono lo sciopero il 7 marzo, alle ore 10, al suono della sirena antiaerea. Alla Bonaiti, verso le 14.30, arrivarono milizie fasciste e agenti della questura che fecero radunare tutti i dipendenti nel cortile dello stabilimento. Non avendo ottenuto risposta circa la richiesta di conoscere i nomi degli organizzatori dello sciopero…“arrestano 24 uomini e 5 donne, e forniti dalla direzione aziendale di una corda, legano gli operai facendoli sfilare per le vie di Lecco, portandoli oltre il ponte vecchio sull’Adda”.(2)
 
Il parco materiali del laminatoio Arlenico Caleotto e, sotto, una foto della trafileria F.lli Bonaiti 


All’inizio della strada per Como era in attesa un automezzo con rimorchio sul quale vennero caricati gli arrestati e portati nel capoluogo lariano. Furono quindi ammassati nella palestra Leopoldo Mariani, in via Preti, dove gli operai della Bonaiti trovarono anche i colleghi di altre fabbriche lecchesi. Ci rimasero fino al 14 marzo, quando venne decisa la loro deportazione.
Nella prima mattinata del 14 vennero dapprima riportati a Lecco e quindi caricati su un treno con destinazione Bergamo. Il gruppo lecchese, dal quale vennero rilasciati otto prigionieri, aggregato ad altri lavoratori arrestati in altre città del Nord Italia, partì in treno dal capoluogo bergamasco il 17 marzo per Mauthausen, nei pressi di Linz, Austria del nord. Furono tutti schedati e le donne vennero divise dagli uomini. Dopo una settimana di permanenza a Mauthausen furono trasferiti al campo di Gusen I e sistemati nella baracca 16. Terminato il periodo della quarantena avvenne una nuova suddivisione. Di tutti i lavoratori arrestati a Lecco il 7 marzo, tranne quelli rilasciati durante le varie fasi dei trasferimenti, diciannove non fecero più ritorno.(3)

Come testimoniato dai numeri degli arrestati e dei deportati, la risposta che venne intrapresa dalla polizia nazista e da quella fascista per cercare di individuare, catturare e punire, non solo coloro che organizzarono gli scioperi, ma anche chi ebbe un’influenza determinante, fu durissima. La repressione produsse una delle fasi della deportazione politica più intensa e drammatica. Gestapo e milizie fasciste furono pienamente attive nell’individuare i responsabili, spulciando negli archivi e nelle liste segrete i nomi degli operai che avessero precedenti o fossero iscritti al Casellario centrale. Le direzioni centrali delle grandi fabbriche, attraverso i dirigenti ed i capi-reparto, furono obbligate dai nazisti a stilare gli elenchi di lavoratori da deportare in Germania. Come visto, una minima parte di essi venne catturata in fabbrica mentre il maggior numero fu preso, quasi sempre durante la notte, direttamente a casa, caricato su camionette o su grossi autobus, scortato dalle milizie e dalle forze nazi-fasciste locali e tradotto al carcere di S. Vittore, a Milano. Dal carcere, i lavoratori, senza nessun processo, vennero deportati, normalmente entro pochi giorni, nei campi di sterminio tedeschi e polacchi.

I lavoratori brianzoli coinvolti in queste retate furono soprattutto dipendenti della Breda e della Falck, che raggiungevano quotidianamente spesso in bicicletta dai paesi della Brianza, e di fabbriche milanesi, monzesi e, come abbiamo visto, lecchesi. Il loro numero è molto alto. Furono infatti ben 61 gli scioperanti brianzoli presi durante i giorni di sciopero, o successivamente ad essi. Difatti, le retate proseguirono anche per alcuni giorni dopo che lo sciopero fu terminato: la notte del 12 marzo 1944 ci fu un rastrellamento a Monza mentre in altri comuni brianzoli avvenne una seconda retata, nei giorni dal 14 al 16 marzo. Molti di questi operai arrestati, ben 48, moriranno nei campi di sterminio.
Molto attivo dal punto di vista della caccia all’operaio e, conseguentemente, degli arresti, fu il presidio della Gnr (Guardia nazionale repubblicana) di Bernareggio, tre chilometri da Verderio, oggi in provincia di Monza-Brianza. Le persone fermate erano residenti nei piccoli comuni dei dintorni. Per tutti l’ingresso a S. Vittore fu il giorno 28 a causa di “Motivazioni di pubblica sicurezza”. Trasferiti come tutti gli scioperanti a Bergamo, partirono in treno il 17 marzo per Mauthausen.(4)
 
Lecco: il monumento dedicato agli scioperanti lecchesi deportati nei campi di sterminio nazisti
 
Per quanto riguarda il “peso politico”, lo sciopero generale del marzo 1944 ebbe un grandissimo successo: fu la più grande protesta di massa con la quale dovette confrontarsi la potenza occupante.  Attuato senza aiuti dall'esterno, senza armi ma con grande energia e sacrifici, lo sciopero non fu soltanto la più importante forma di astensione dal lavoro in Italia dopo vent'anni di dominio fascista, ma fu anche il più grande sciopero generale compiuto nell'Europa occupata dai nazisti.  
A ciò si deve aggiungere che nella sottovalutazione del peso politico dello sciopero generale non si è tenuto conto a sufficienza del fatto che esso si svolgeva in un paese sottoposto alle leggi di guerra e dell'occupazione: più di 200.000 operai contemporaneamente in sciopero, dopo un inverno in cui le fabbriche erano state in continua agitazione, era un fatto di eccezionale rilievo e significato. Lo sciopero ebbe risvolti importanti anche nel favorire lo sviluppo della Resistenza. Da qui lo scontro si spostò quindi sulle montagne e apparve chiaro che soltanto la lotta armata delle bande partigiane contro gli occupanti avrebbe potuto avere successo. Non va inoltre dimenticato che le agitazioni diedero il colpo mortale alle speranze dei fascisti di Salò di "agganciare", attraverso la "socializzazione", i lavoratori.

Beniamino Colnaghi

Fonti e riferimenti sitografici e bibliografici


[1]  www.anpi-lissone.over-blog.com: gli scioperi del marzo ’44.
[2]  www.anpilecco.it: marzo 1944, ricostruzione a cura di Giovanni Riva, p.5.
[3]  www.anpilecco.it: op. cit. p.6.
[4]  Pietro Arienti, Dalla Brianza ai Lager del Terzo Reich, Missaglia, Bellavite, 2011, p.184.

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