venerdì 14 settembre 2012

La legge e i potenti nella storia d’Italia

La rivista MicroMega ha pubblicato un saggio di Roberto Scarpinato, procuratore generale preso la Corte di Appello di Caltanissetta, dal titolo “Don Rodrigo e la Costituzione”. Scarpinato ha lavorato con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino presso la Procura di Palermo ed è autore di numerosi saggi e pubblicazioni sia in Italia sia all’estero.

Quella che viene di seguito proposta è un'ampia sintesi del saggio di Scarpinato.

 
Per molti secoli gli italiani non hanno avuto molto rispetto per la legge e lo Stato. Anche perché, né la legge né lo Stato apparivano rispettabili in una società che sino alle soglie del XX secolo era sempre rimasta fondata sulla pietra angolare del rapporto servo-padrone, secondo assetti di potere di tipo tardo feudale.

La legge santificava lo sfruttamento da parte di una casta di privilegiati di una folla sterminata di  "nessuno mischiato con niente”, 
sudditi che mai avevano potuto sperimentare uno statuto della cittadinanza, che ignoravano la stessa base grammaticale della democrazia, che erano stati educati a considerare legge di natura, o legge divina, la divisione del mondo tra potenti e impotenti. Per un popolo composto in massima misura da contadini, che nel 1861 raggiungeva circa l’80% di analfabeti (il 90% nelle isole), l’unica alternativa possibile appariva quella tra il padrone cattivo e quello buono, immaginato di volta in volta nelle vesti ora del principe illuminato, ora del papa re, ora dell’uomo della provvidenza, ora del duce. La legge restava comunque la voce del vincitore di turno in un’ininterrotta lotta per il potere che si giocava sempre sopra la testa e spesso sulla pelle del popolo, mandato al massacro come carne da cannone in battaglia e strumentalizzato dalle varie fazioni di potenti.
In un paese siffatto anche la giustizia era forte con i deboli e debole con i forti. Era la giustizia dei fori speciali dove gli appartenenti alle caste dei privilegiati (aristocratici, ecclesiastici, notabili, ricchi e borghesi) erano giudicati dai loro pari secondo regole separate, diverse da quelle riservate ai poveracci, per i quali valeva il foro comune. Generazioni di italiani hanno dovuto sperimentare per secoli che la legge a nulla valeva contro i soprusi e le ruberie dei potenti.
 

Don Abbondio e i "bravi"

Nel romanzo “I promessi sposi”, ambientato nell’Italia del Seicento, Alessandro Manzoni ha messo in scena la secolare impotenza della legge dinanzi ai potenti. Il povero don Abbondio cade in uno stato di rassegnata prostrazione quando si rende conto che gli uomini armati che lo avevano circondato imponendogli di non celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia, non erano banditi, bensì “bravi”. La differenza era sostanziale: i banditi erano criminali che operavano in proprio e contro i quali vi era possibilità di difesa denunciandoli al potestà del luogo; i “bravi” erano invece criminali al servizio di un potente, in questo caso don Rodrigo, il quale era al di sopra delle leggi perché appartenente al mondo superiore che la legge la imponeva, ma non la subiva.

L’ingenuo Renzo Tramaglino illudendosi di trovare rimedio nella legge contro la prepotenza di don Rodrigo, si rivolge ad un avvocato, ma quando questi si rende conto che avrebbe dovuto agire secondo legge nei confronti del potente signore al di sopra delle leggi, declina l’incarico. In un’Italia dove la legge non contava nulla dinanzi al potere, Manzoni è costretto a fare entrare in gioco la Provvidenza: l’Innominato libera Lucia perché colto da un’improvvisa crisi mistica e solo la morte per peste riesce a fermare la prepotenza di don Rodrigo. Don Rodrigo non è solo il parto della fantasia letteraria di Manzoni, ma il prototipo del potente e del prepotente italiano che cavalcando i secoli e riproducendosi di generazione in generazione è giunto sino ai nostri giorni.


Don Rodrigo

Anche la giustizia messa in scena dal Manzoni ha attraversato i secoli ed è stata una costante italiana. E’ sperimentata nei secoli la sfiducia popolare nella giustizia. Se si analizza la composizione sociale della popolazione carceraria dall’Unità d’Italia sino ai nostri giorni, nonostante il mutare delle forme dello Stato, risulta che in carcere a scontare la pena finiscono quasi esclusivamente gli ultimi della piramide sociale. La quota di colletti bianchi in espiazione definitiva è sempre rimasta statisticamente irrilevante, anche dopo Tangentopoli e Mafiopoli. In un modo o nell’altro, i ceti superiori sono sempre riusciti ad evitare il carcere ai propri esponenti incappati nelle maglie della giustizia, e a riservarlo solo agli stessi ai quali nei secoli passati era riservato il foro comune: “I nessuno mischiati con niente”.

Sotto la dittatura fascista la condizione ed il rispetto della legge e della giustizia non fecero che peggiorare. Molti prefetti e uomini del regime nelle istituzioni fecero a gara nel chiudere gli occhi di fronte alle violenze e alle aggressioni, salvo poi infierire con particolare severità nei confronti dei cittadini che combattevano il fascismo. Come noto, quest’ultimo fu sostenuto e mantenuto al potere da tutte le principali componenti della classe dirigente nazionale. Può quindi ben dirsi che il fascismo declina sulla scena della modernità del Novecento l’identità culturale ancora tardo-feudale di un ceto padronale che nella sua maggioranza non era riuscito ad evolversi da classe dominante a classe dirigente e che continuava a praticare lo stesso codice della violenza e della sopraffazione da sempre praticato nei secoli precedenti da intere generazioni di piccoli e grandi don Rodrigo. In Italia il sovrano, dunque, è stato l’uomo della provvidenza per alcuni secoli, almeno fino alla metà del Novecento.

Come è possibile che un popolo con tale storia alle spalle abbia potuto esprimere e darsi la Costituzione del 1948 che costituisce uno dei massimi vertici della cultura europea dello Stato democratico di diritto? Una Costituzione che per la prima volta poneva le fondamenta per la costruzione di uno Stato e di una legge finalmente “rispettabili”. Di una legge cioè che non fosse più ad uso e consumo dei potenti, espressione dei poteri forti, ma espressione invece di una repubblica fondata sulla pari dignità sociale di tutti i cittadini. Una Costituzione che finalmente cancellasse una secolare e vergognosa storia di servi e padroni e si facesse garante della nascita di una giustizia sociale ed economica. Scarpinato dà questa risposta: “La Costituzione del 1948 (così come era già avvenuto con lo Stato liberale del 1860), non fu affatto espressione della maggioranza dell’Italia reale nella sua duplice componente padronale e popolare, ma di alcune minoranze”. Dopo la seconda guerra mondiale si apre uno spazio provvisorio che assegna il timone del comando a ristrette élite culturali, quali uomini della Resistenza di diversa espressione politica e esponenti della cultura liberale e del riformismo cattolico costretti all’esilio, che selezionano i membri della Costituente ed i futuri parlamentari della Repubblica. L’alchimia della storia trasforma dunque un’avanguardia culturale in maggioranza politica. La nostra Costituzione superò la nostra storia ed indicò un modello: la costruzione di uno Stato democratico di diritto che superava le possibilità etiche delle culture autoctone delle classi dirigenti e delle masse. Nonostante alcuni limiti, la Costituzione del 1948 non rimase solo un libro dei sogni ma fu un lievito di crescita democratica per l’intero paese.
 

 
 
Oggi, però, sono venuti meno due fattori che avevano messo in sicurezza la Costituzione da tentativi di restaurazione. La fine del bipolarismo internazionale e la scomparsa, o irrilevanza sociale, della classe operaia che operava come virtuale catalizzatore politico generale delle masse e baricentro di tutto il sistema politico. Lo stesso partito popolare di don Sturzo nacque dall’esigenza di costruire un possibile polo politico riformista alternativo alla sinistra. Con il venir meno di questi due fattori, le masse sono tornate ad essere, così come erano sempre state nel tardo feudalesimo, soggetto passivo della storia, manipolabile dall’alto, e la Costituzione è diventata oggetto di tentativi di modifiche e di svuotamento da parte delle maggioranze governative. Le élite o le minoranze illuminate sopravvivono solo grazie ad alcune enclave istituzionali protette (per ora) come quelle della Corte costituzionale e della Magistratura. Vi sono anche le minoranze della società civile che si mobilitano nelle piazze, nei circuiti culturali alternativi, nella rete web.

La strada è in salita e la storia si ripete. La sovranità popolare è stata svuotata, il parlamento è stato ridotto a un’assemblea di nominati dal Principe, la separazione tra potere esecutivo e legislativo è stata fortemente ridimensionata, l’informazione televisiva è stata occupata, il conflitto di interessi è ai massimi livelli. Il neofeudalesimo italiano affollato da tanti vassalli e servitori in cerca del loro principe, da tanti sudditi contenti di esserlo, da tanti intellettuali la cui massima aspirazione è di diventare consiglieri privilegiati del principe, sembra essere una riedizione della storia più vera e autentica del nostro paese.

Che fare? Chi salverà questo paese da se stesso? La lezione della storia dimostra come in alcuni frangenti cruciali l’Italia non sia stata salvata dalle sue maggioranze, ma dalle sue minoranze. Sono state le minoranze che hanno fatto il Risorgimento, sono state le minoranze che hanno fatto la Resistenza e hanno concepito la Costituzione. La difesa della Costituzione resta l’ultima spiaggia. Salvare la Costituzione significa salvare la parte migliore della nostra storia. Gli storici e gli analisti del potere sanno bene che la storia non è fatta dalle maggioranze disorganizzate, né dalle oligarchie paralitiche. Oggi viviamo una fase della storia nella quale le minoranze eredi di quelle che vollero la Costituzione, che vollero il Concilio Vaticano II, che realizzarono lo Statuto dei lavoratori e promossero riforme di libertà, sembrano essere diventate orfane di rappresentanza e guida politica.

Oggi è tempo che ciascuno assuma su di sé l’onere e la responsabilità di aiutare il vecchio a morire per consentire al nuovo di nascere. Giacché il futuro non è il tempo che viene e sopraggiunge, ma il tempo che si costruisce insieme. E, per citare Gaetano Salvemini, ciascuno di noi troverà nell’avvenire quel tanto che vi avrà messo di se stesso. Solo chi si arrenderà ai fatti non vi troverà nulla, perché vi avrà messo nulla.

 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.