Il 5 marzo 1922 nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini. Sono
trascorsi 90 anni da quel giorno ed oltre 36 dalla tragica notte fra il 1 e il 2
novembre 1975 quando, sul litorale di Ostia, il poeta fu massacrato da alcune
persone non ancora identificate. Le indagini sono state riaperte da un paio
d’anni, ma ciò che appare ormai certo è che nel “caso Pasolini” siano in campo
diverse ipotesi sulla dinamica dell’assassinio, sugli autori materiali e sugli
eventuali mandanti.
Alcune circostanze della morte di Pasolini, quindi,
non sono ad oggi ancora state chiarite. Contraddizioni nelle deposizioni rese
dall'omicida, un "chiacchierato" intervento dei servizi segreti durante le indagini e alcuni passaggi a vuoto
o poco coerenti riscontrati negli atti processuali, sono fattori che lasciano
aperte le porte a più di un dubbio.
Pier Paolo Pasolini con Anna Magnani
Non è mia intenzione, tuttavia, ripercorrere e richiamare qui la
bontà o meno degli aspetti investigativi e giudiziari seguiti alla morte di
Pasolini. Con questo breve pensiero vorrei, prendendo spunto dall’anniversario
della sua nascita, invitare i lettori a scoprire, per chi non l’avesse mai
letta, l’opera pasoliniana oppure a
potenziare il profilo di Pasolini per coloro che già conoscono il suo enorme
lavoro artistico, complesso e articolato, che spazia dalla poesia alla
narrativa, dal teatro al cinema, dal giornalismo alla critica letteraria, fino
al suo straordinario ruolo di intellettuale scomodo e controcorrente, perfino
per la stessa sinistra.
Chi, prima e più di lui, fu profetico e lungimirante al punto di scrivere, oltre quarant’anni fa, sulla “mutazione antropologica” cui andava incontro la società italiana oppure chiedendo un “processo” per la classe dirigente del Paese, che lui chiamava “il Palazzo”, ovvero denunciando la perdita della passione civile e intellettuale degli italiani, i quali “applaudono soltanto i luoghi comuni, mentre sarebbe il caso di coltivare l’atrocità del dubbio”.
Più di quanto possa valere un articolo di ricorrenza, ritengo
sia più utile e illuminante riproporre una
delle sue tante testimonianze. Siamo a Milano nel 1974. Pasolini era
presente ad un dibattito avente titolo “Ideologia e politica nell’Italia che
cambia” al quale partecipavano anche il pittore Renato Guttuso e Giorgio
Napolitano, l’attuale presidente della Repubblica.
A me pare che diversi
concetti da lui espressi ed alcune denunce contenute nel suo discorso siano di
estrema attualità (modelli culturali, corruzione, ruolo della televisione,
sviluppo e progresso…) e siano diventati dei nodi mai sciolti nella nostra
società, anzi, oserei dire che la loro degenerazione e la distorsione dei loro
processi evolutivi ci hanno condotti alla grave crisi economica, sociale ed
etica di oggi, alla “mutazione antropologica” degli italiani.
Alberto Moravia, Pasolini e
Laura Betti
Che cosa dobbiamo oggi a Pasolini? Soprattutto riconoscenza per il suo lascito culturale e artistico e gratitudine perchè ci ha insegnato a non accettare compromessi di alcun tipo, a non discriminare alcuno, a non dare troppo peso al potere e al denaro, a stare alla larga dalla televisione, a provare vera gioia ammirando un dipinto o a leggere un buon libro, a non cambiare le idee (politiche, sociali, esistenziali) ad ogni stormir di fronde, ad apprezzare la lealtà, l’amicizia, la generosità che era un tratto tanto caratteristico della personalità pasoliniana, a non assumere un determinato comportamento perché “è di moda”, ad essere laici nel pensiero e nei comportamenti, a stigmatizzare le gerarchie ecclesiastiche quando ingeriscono ed eccedono nella vita delle persone. In una parola: a non conformarsi per ignoranza o per pigrizia mentale a ciò che viene definito comunemente “la normalità”.
Beniamino Colnaghi
Pier Paolo Pasolini - Milano, 7 settembre 1974
Premesse…
Dirò subito che la mia tesi è molto più pessimistica, più
acremente dolorosamente critica di quella di Napolitano. Essa ha come tema
conduttore il genocidio: ritengo cioè che la distruzione e sostituzione
di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e
fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa. Non
è del resto un’affermazione totalmente eretica e eterodossa. C’è già nel Manifesto di Marx un passo che descrive con chiarezza e precisione il genocidio ad opera della borghesia verso determinati strati delle classi dominate, soprattutto non operai, ma sottoproletari o certe popolazioni coloniali. Oggi l’Italia sta vivendo in maniera drammatica per la prima volta questo fenomeno: larghi strati che erano rimasti fuori della storia, la storia del dominio borghese e della rivoluzione borghese, hanno subìto questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia. Come avviene questa sostituzione di valori? Io sostengo che oggi essa avviene clandestinamente, attraverso una sorta di persuasione occulta. Mentre ai tempi di Marx era ancora la violenza esplicita, la conquista coloniale, l’imposizione violenta, oggi i modi sono molto più sottili, abili e complessi, il processo è molto più tecnicamente maturo.
Mi spiegherò meglio tornando al mio solito modo di parlare, da
letterato. In questi giorni sto scrivendo il passo di una mia opera in cui
affronto il tema in modo appunto
metaforico: immagino una specie di discesa agli inferi, dove il protagonista,
per fare esperienza del genocidio, percorre la strada principale di una borgata,
della periferia di una grande città meridionale e gli appare una serie di
visioni. Ognuna di esse è una specie di bolgia, di girone infernale della
Divina Commedia: all’imbocco c’è
un determinato modello di vita messo lì di soppiatto dal potere, al quale
soprattutto i giovani ed i ragazzi, che vivono nella strada, si adeguano
rapidamente. Essi hanno perduto il loro antico modello di vita, quello che
realizzano vivendo e di cui in qualche modo erano contenti e persino fieri,
anche se implicava tutte le miserie e i lati negativi. E adesso cercano di
imitare il modello nuovo messo lì dalla classe dominante di nascosto.
Quali sono questi modelli?
C’è il modello che presiede a un certo edonismo interclassista, il quale impone ai giovani che inconsciamente lo imitano di adeguarsi nel comportamento, nel vestire, nelle scarpe, nel modo di pettinarsi o di sorridere, nell’agire come ciò che vedono nella pubblicità…..
I risultati sono evidentemente penosi perché un giovane povero non è ancora in grado di realizzare questi modelli, e ciò crea in lui ansie e frustrazioni che lo portano alle soglie della nevrosi.
Oppure c’è il modello della falsa tolleranza, della permissività. Nelle grandi città e nelle campagne del centro-sud vige ancora un certo tipo di morale popolare, piuttosto libero, certo, ma con tabù che erano suoi e non della borghesia, non l’ipocrisia, ad esempio, ma semplicemente una sorta di codice a cui tutto il popolo si atteneva; a un certo punto il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore, e non era un consumatore perfetto se non gli si concedeva una certa permissività nel campo sessuale….
O un terzo modello che io chiamo dell’afasia, della perdita di
capacità linguistica. Tutta l’Italia aveva proprie tradizioni regionali, o
cittadine, di una lingua viva, di un dialetto che era una lingua vivente,
rinsanguata da continue invenzioni nella quale nascevano battute nuove,
spiritosaggini e parole impreviste. C’era una meravigliosa vitalità linguistica.
Il modello messo lì dalla classe dominante li ha ora bloccati linguisticamente,
si è caduti in una specie di nevrosi afasica….
Perché è successa questa tragedia, questo genocidio dovuto all’acculturazione imposta subdolamente?
Ma perché la classe dominante ha scisso nettamente “progresso” e “sviluppo”. Ad essa interessa solo lo sviluppo, perché solo da lì trae i suoi profitti. Bisogna farla una buona volta una distinzione drastica tra i due termini “progresso” e “sviluppo”. Si può concepire uno sviluppo senza progresso, cosa mostruosa che è quella che viviamo in circa due terzi d’Italia: ma in fondo si può concepire anche un progresso senza sviluppo, come accadrebbe se in certe zone contadine si applicassero nuovi modi di vita culturale e civile anche senza o con un minimo di sviluppo materiale.
Quello che occorre è prendere coscienza di questa dissociazione
atroce e rendere partecipi le masse popolari perché essa scompaia, e sviluppo e
progresso coincidano….
Lo sviluppo
che questo nuovo potere vuole dà un colpo di spugna al fascismo tradizionale,
che si fondava sul nazionalismo o sul clericalismo, su vecchi ideali, e instaura
una forma di fascismo nuovo e ancora più pericolosa. E’ in corso nel nostro
paese questa sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno avuto grande
peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione. Con
questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi: sono anzi
d’accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso culturale,
ma finora sono stati un mezzo di spaventoso regresso, di genocidio
culturale…..La distruzione di valori in corso non implica una immediata sostituzione di altri valori, col loro bene e il loro male, col necessario miglioramento del tenore di vita e insieme un reale progresso culturale.
C’è nel mezzo un momento di imponderabilità e qui e ora sta il
grande pericolo. Pensate a cosa può significare in queste condizioni una
recessione economica, e vi corre un brivido se vi si affaccia il parallelo con
la Germania degli anni Trenta. Qualche analogia il nostro processo di
industrializzazione degli ultimi dieci anni con quello tedesco di allora ce
l’ha: fu in tali condizioni che il consumismo aprì la strada, con la recessione
degli anni ’20, al nazismo….
Quando vedo intorno a me i giovani che stanno
perdendo gli antichi valori popolari e assorbono i modelli imposti dal
capitalismo, e rischiano una forma di disumanità, una forma di atroce afasia,
una assenza di capacità critiche, una passività, ricordo che erano le forme
tipiche delle SS e vedo stendersi sulle nostre città l’ombra orrenda della croce
uncinata. Una visione apocalittica la mia.Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui.
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