sabato 3 marzo 2012

Ambrogio Colnaghi, “Ul Campée” di Casa Gnecchi.


Nel 1866, cinque anni dopo l’Unità d’Italia, Verderio Superiore, Verdée de sura, contava poco più di 900 abitanti, era incluso nel mandamento III di Brivio e faceva parte della provincia di Como. Sindaco era Giuseppe Gnecchi Ruscone, che guidò l’amministrazione comunale dal 1859 al 1889.

Verderio, come del resto la maggior parte dei comuni brianzoli, era composto da un piccolo nucleo di case, prevalentemente concentrate nel centro storico, e da alcune cascine, abitate da famiglie contadine, Paisòn, che vivevano di agricoltura e di piccoli allevamenti di animali domestici. Considerato che, in quel periodo storico, i contadini erano condannati all’ignoranza, alla superstizione ed alla fame, e che in Italia meno del 10% della popolazione concentrava nelle proprie mani circa il novanta per cento della ricchezza nazionale, la legge era, come scriveva Gaetano Salvemini, “la voce del padrone”. I contadini non avevano molto di che vivere, perché il loro sostentamento dipendeva, oltre che dalla forza delle braccia e dalle condizioni meteorologiche, dal fatto che il raccolto doveva essere diviso con la famiglia Gnecchi, i Gnecch, proprietaria pressoché di tutte le terre e degli immobili di Verderio. Fino ai primi anni Venti del Novecento, le assegnazioni dei beni ai coloni avvenivano con contratti di mezzadria, successivamente, a seguito del “Biennio rosso” (1919-1920) che generò numerosi scioperi e proteste di operai e contadini, che reclamavano l’aumento delle paghe e condizioni di vita più umane, si passò al cosiddetto pagamento misto dell’affitto, ossia al versamento ai padroni di una quota in denaro ed alla consegna di parte dei raccolti e degli animali. Pier Paolo Pasolini ha narrato instancabilmente quel mondo ormai perduto, ha raccontato nei suoi scritti l’Italia dei contadini, del dialetto e delle tradizioni secolari, ha espresso continuamente il rimpianto per la fine della civiltà contadina e arcaica conosciuta in Friuli, ed ha monitorato, fino al suo tragico omicidio, l'evoluzione delle borgate e dei piccoli centri rurali, dal dopoguerra agli anni del potere capitalistico. E’ stato lui a parlare per primo di omologazione culturale e di mutazione antropologica degli italiani alle prese con la modernizzazione senza valori ed il consumismo sfrenato.

Ambrogio Colnaghi, detto Bös, nasce a Verderio Superiore il 5 luglio 1866 inCùrt dei Barbìs” (baffi), cortile che si affaccia sulla via Angolare, oggi corrispondente al civico numero 2.
Si presume che, storicamente, i cognomi Colnago e Colnaghi abbiano avuto origine da soprannomi legati al toponimo Colnago di Cornate d’Adda. Dalle ricerche, tuttora in corso, che sto svolgendo per comporre il mio albero genealogico, risulta che una famiglia Colnago si insediò a Verderio Inferiore, presumibilmente intorno alla prima decade del 1700 alla Cascina Casa Nuova, ora Canova, adiacente la Bergamina. Sui registri anagrafici relativi a quegli anni, consultati presso la Parrocchia di Verderio Inferiore, risulta che la Cascina Casa Nuova era classificata frazione di Verderio Inferiore.

Un giovane componente di quella famiglia patriarcale, Luigi Colnago, dopo essersi sposato con Cecilia Gesuina Scaccabarozzi, nativa di Ornago, si trasferì a Verderio Superiore e mise su casa in Cùrt dei Barbìs. La coppia ebbe cinque figli maschi: il primogenito, Felice, mio bisnonno paterno, nacque nel 1864, mentre il secondo lo chiamarono Ambrogio, Bös appunto, il quale sposò Clementina Brivio, detta Mentina, che da nubile abitava a Contra di Missaglia, dalla quale ebbe quattro figli: Luigia, Carolina e Angelo che morirono in tenera età, e Angela, Angiulina, che, invece, si è spenta alla veneranda età di 95 anni. La foto qui sotto ritrae Ambrogio e Clementina già avanti con gli anni.


Grazie ad un documento notarile lasciatomi da mio padre, che negli anni 1952-1954 comprò dalla famiglia Gnecchi Ruscone il terreno che coltivava in via dei Maggioli e gli immobili ubicati proprio in quella corte, ho recentemente scoperto che, per un certo periodo di tempo, il cortile venne denominato “Cùrt del Campari”. Presumo che tale nome fosse stato assegnato alla corte in virtù del fatto che Ambrogio ricoprisse l’incarico di “Campée”, camparo, di Casa Gnecchi.
Il camparo, un mestiere che oggi non esiste più, oltre ad essere una delle figure più caratteristiche del paese, era colui che occupava un ruolo importante nella gestione e manutenzione delle proprietà terriere della famiglia borghese del luogo. Non saprei dire con precisione in quale anno venne nominato camparo. Ritengo che ciò possa essere avvenuto entro la prima decade del Novecento. Possiedo il certificato di nascita di suo figlio Angelo, datato 1908, sul quale risulta che Ambrogio svolgesse già l’attività di Camparo.
Ambrogio, oltre ad avere il compito di controllare, regolare e mantenere in buono stato i fossi ed i canali irrigui che portavano acqua ai campi coltivati, dirigeva e coordinava, con esperienza e serietà, le attività dei contadini e dei salariati. Dopocena, quando la regiùra sparecchiava la tavola, annotava su un piccolo registro i lavori e le attività svolte durante la giornata dai lavoranti e appuntava le ore impiegate, che poi trasferiva al sciùr Giüli, Giulio Beretta, il fattore di Casa Gnecchi, che provvedeva a contabilizzarle e pagarle ai salariati.

Bös mi è stato descritto un bell’uomo, di alta statura, con un paio di folti baffi che, spesso, incutevano soggezione e sprigionavano autorità. Portava spesso un vestito di velluto marrone ed un cappello a larghe tese. Possedeva un carattere forte e fiero, intraprendente e rigoroso, che gli permetteva di svolgere le proprie mansioni nell’esclusivo interesse dei suoi padroni, i quali ponevano in lui piena e incondizionata fiducia. Nello stesso tempo era anche un uomo apprezzato dai contadini di Verderio, grazie alla sua competenza e alla dedizione che metteva nel proprio lavoro.
Nell’attuale struttura del centro ricreativo di via dei Contadini Verderesi, erano ubicati diversi locali contenenti materiali vari e un deposito di fieno. In uno di questi locali, Ambrogio aveva ricavato il proprio laboratorio, nel quale riparava gli attrezzi agricoli, affilava le falci atte al taglio dell’erba e dei cereali, assegnava il lavoro ai contadini quando essi venivano impiegati nelle proprietà Gnecchi. Sua nipote Fulvia mi ha recentemente confidato che Bös era molto abile nel costruire attrezzi agricoli in legno e che le sue specialità erano i rastrelli e i Bàger, il basto di legno da mettere sulle spalle per poter trasportare due secchi alla volta.
Oltre il lavoro di Campée, Bös svolgeva altri mestieri, altrettanto preziosi e utili “all’economia aziendale” della famiglia Gnecchi Ruscone.
Mio padre mi ha spesso raccontato, e Felice Colnaghi, suo nipote, mi ha recentemente confermato che durante i periodi dell’anno nei quali maturava la frutta, Ambrogio radunava i contadini nelle proprietà della famiglia Gnecchi coltivate a frutteto e dava loro disposizioni per la raccolta della frutta che, ma ciò è pleonastico ricordarlo, veniva poi caricata sui carri agricoli trainati dai cavalli e interamente portata nei depositi situati presso la villa padronale. Il frutteto probabilmente più grande di Verderio Superiore si trovava nell’area, detta Breda, tuttora cinta da un alto muro, che oggi fiancheggia via Gramsci. In quell’area erano presenti decine e decine di piante da frutto, di diverse qualità, in prevalenza meli, peri, ciliegi, viti, cachi, noci e noccioli.

Bös era anche presidente della sezione cacciatori di Verderio Superiore, carica che, si presume, mantenne fino alla sua morte. Da un documento Gnecchi intitolato “Denuncia delle armi”, datato 23 agosto 1919, si apprende che Ambrogio fosse in possesso di un fucile da caccia marca Vinchester a due canne parallele. Seppur Verderio fosse un piccolo paese, pare che la sezione verderiese avesse una quarantina di iscritti che si riunivano periodicamente presso una saletta del Prestinèe, l’attuale panificio Riva. Al centro delle due foto che seguono, Ambrogio è ritratto in piedi con in mano il gagliardetto tricolore della sezione. Alla sua destra, in posa con il fucile, è riconoscibile Giovanni Riva, soprannominato Gion, classe 1902, che abitava in Cùrt di Giòn (via Angolare 3), la stessa da dove proveniva mia nonna Clelia, conosciuta in paese con il soprannome di scighéra, nebbia.


Immagini della sezione cacciatori di Verderio. Ambrogio Colnaghi è al centro con il gagliardetto

Ma ciò che più di ogni altra cosa mi incuriosiva, e mi generava fantasie tipiche di quell’età e di quel periodo storico, consisteva nei racconti di mio padre sul roccolo, Ròcul, (o bressana) la cui gestione gli Gnecchi avevano affidato ad Ambrogio, il quale deteneva il possesso delle chiavi del casello ed il compito di tenere l’area in ordine e ben curata.
Il roccolo era formato dal casello che ancora oggi è visibile nelle vicinanze dell’azienda agricola Boschi, e da un piccolo boschetto di carpini a forma geometrica, attrezzato per la cattura degli uccelli. C’era anche un pozzo dal quale si attingeva acqua fresca per abbeverare gli animali.


Il casello

Il casello era strutturato su due piani: al piano terra vi era un locale nel quale si appendevano le gabbie con gli uccelli da richiamo: merli, fringuelli, usignoli, quaglie, allodole etc., mentre il primo piano era adibito a deposito. Il boschetto di carpini era costituito da due fila di piante disposte a ferro di cavallo ben curate dalla potatura effettuata dai contadini, lungo le quali venivano tese le reti. L’addetto, dopo aver disposto nel boschetto le gabbiette prelevate dal casello contenenti i richiami, si appostava dietro un paravento in legno, nel quale erano stati ricavati piccoli spioncini, e, al momento opportuno, emetteva versi che imitavano i segnali di allarme degli uccelli nei confronti dei rapaci e, contemporaneamente, manovrava lo spauracchio (un filo al quale erano appesi barattoli e campanacci) che spaventavano i volatili causandone la fuga verso le reti, nelle quali rimanevano impigliati e subito catturati.
In buona sostanza, l’uccellagione, ossia la pratica della cattura degli uccelli con reti, col vischio e con altre insidie, era molto diffusa nelle pianure e nelle Prealpi del Nord Italia fino agli anni Sessanta del secolo scorso. Il motivo prevalente era dovuto al fatto che la gente era povera ed affamata e, attraverso la caccia e l’uccellagione, colmava le carenze alimentari dovute alle difficili condizioni di vita. Oggi, a ragione, queste tecniche sono state abbandonate fino alla completa chiusura dei Roccoli, avvenuta in seguito al recepimento delle direttive europee in materia di caccia.

In merito al Roccolo ho due brevi aneddoti, raccontatimi recentemente da Fulvia e Felice Colnaghi.
Presso l’azienda Boschi erano in corso dei lavori sotto l’attenta direzione di un membro della famiglia Gnecchi. Verso mezzogiorno arrivò il calesse a prelevare il padrone per ricondurlo alla villa per il pranzo. Ma il padrone confidò a Bös che non aveva appetito e che avrebbe rinunciato volentieri al prelibato pasto. Ambrogio, invece, aveva fame e rispose: “oh sciùr padron”, io sto aspettando l’arrivo della mia nipotina che mi porterà “ul stüen”, recipiente di metallo col manico, colmo di minestra di patate e verdure o di “pulenta e pult”; considerata la fame che ho, per me qualsiasi cibo va bene.
L’altro aneddoto si riferisce ad un periodo in cui avvenivano dei furti di cereali e di altri prodotti della terra nei campi adiacenti il Roccolo. Bös, per cercare di arginare il fenomeno e individuare i responsabili, decise di fermarsi fino a tarda sera o addirittura di dormire nel casello. Una sera, mentre stava percorrendo a piedi la stradina campestre (oggi corrispondente alla via Cantù) che portava verso il Roccolo, fu affrontato da due “fantasmi” coperti da lenzuola bianche, due figuri un po’ stupidotti, menga tònt scrocch, che avevano l’obiettivo di spaventarlo e di farlo desistere dal suo intento. La cosa si ripeté per altre due o tre volte, finché Ambrogio si spazientì, e, munito di una roncola, affrontò e rincorse gli sprovveduti fantasmi che, da allora, non si fecero più vedere.

C’è una bella foto d’altri tempi, qui sotto riprodotta, mostratami da Fulvia Colnaghi, comparsa anche sul libro di Giulio Oggioni “Quand serum bagaj”, che ritrae “Ul Campée Bös” in bella posa con alcuni suoi parenti: Ernesta Aldeghi, zia Nesta, originaria della Cascina Salette, moglie di suo nipote Luigi, che tiene in braccio Felice Colnaghi, e parecchi nipotini, fra cui la stessa Fulvia, Vittoriano e mio padre Giovanni. La foto, che dovrebbe risalire all’estate del 1930, è stata scattata sul terreno che la sua famiglia aveva in affitto al Saruchèn, l’area alla destra dell’attuale via S.Rocco.



Verderio Superiore - anno 1930
In piedi da sinistra: Giovanni Colnaghi, Ambrogio Colnaghi, Fulvia Colnaghi, Ernesta Aldeghi con in braccio Felice Colnaghi. Seduti: terzo da sinistra è Vittoriano Colnaghi

Ambrogio è deceduto il 4 aprile 1942 all’età di 75 anni ed è stato sepolto nel cimitero del paese.
Oggi i suoi resti riposano nell’ossario comune posto sotto la cappella centrale del vecchio cimitero.
 
In memoria di mio padre.

Ringrazio sentitamente Fulvia, Tina e Felice Colnaghi per avermi permesso di realizzare queste brevi note storiche, che avevo in serbo di fare da tempo, attraverso la presa visione di alcune fotografie di Ambrogio e la divulgazione di preziose ed utili informazioni sulla sua vita.

Sono grato ai parroci di Verderio Superiore e Verderio Inferiore per avermi concesso l’autorizzazione a consultare gli archivi parrocchiali.

Beniamino Colnaghi

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