mercoledì 24 giugno 2020

Schirpa o ta, il corredo che la sposa portava in dote nel matrimonio

La dote è l’insieme dei beni conferiti dalla famiglia della sposa, o dalla sposa stessa, al marito. La dote era il contributo della donna “ad sustinenda onera matrimonii” ed era un elemento indispensabile al matrimonio, sia fra i ceti altolocati sia fra quelli popolari. Dal Medioevo in poi si comincia a parlare di exclusio propter dotem, cioè dell’esclusione delle donne dall’eredità paterna attraverso un indennizzo costituito appunto dalla dote, anche se vi sono numerose testimonianze di donne che continuarono a ereditare beni, oltre alla dote. La dote doveva essere proporzionata allo status della sposa e la sua entità era un indicatore della classe sociale. Fra i contadini era spesso in denaro ma, in alcune regioni italiane ed europee, era anche diffusa l’abitudine di portare in dote al marito un piccolo appezzamento di terra, del bestiame o attrezzi utili al lavoro dei campi. Gli altri beni, come le lenzuola, le camicie, i grembiuli, la biancheria facevano invece parte del corredo che la madre della sposa e la sposa stessa cucivano e portavano in dono allo sposo e alla sua famiglia.
Con questo antico atto, risalente al diritto longobardo, quindi, la famiglia della sposa concordava e quantificava con il futuro sposo e la sua famiglia la dote e il corredo, che, come abbiamo visto, poteva era costituita da beni immobili, oppure argenti o da denaro contante.
Fino al 1975 la dote era un bagaglio indispensabile e obbligatorio per la sposa e un onere necessario per padri e fratelli: non averla era per una donna una vera e propria tragedia, un ostacolo nel trovare un marito. Ovviamente la dote era proporzionata alle possibilità della famiglia della sposa e allo status sociale dello sposo a cui veniva concessa.
Dopo le nozze la dote non diventava di proprietà dello sposo ma era da lui soltanto amministrata. Alla morte del marito, la dote tornava alla vedova in piena e libera proprietà. Se invece moriva prima la moglie, senza aver messo al mondo dei figli, il marito era tenuto a restituire la dote alla famiglia della sposa.
Ma nella cruda realtà di quei tempi, anche il marito era tenuto a dare alla moglie una "controdote" e un mantenimento che dovevano servire alla moglie per far fronte ai suoi bisogni.
Prima della celebrazione del matrimonio, la descrizione dettagliata e il valore totale della dote e del corredo matrimoniale erano oggetto, per famiglie diciamo benestanti, di un atto davanti al notaio, oppure, più semplicemente, da un atto del dà paróla, cioè un impegno verbale delle parti o in alcuni casi persino l’accordo matrimoniale si sanciva con una stretta di mano tra galantomen, galantuomini. Spesso ai capitoli matrimoniali era annesso un elenco compilato a mano da una persona di famiglia o amica, capace di scrivere, dove erano riepilogati i beni in tessuti, mobili, oggetti di casa e gioielli assegnati alla sposa.
Insomma, anche se la dote non è più una cosa necessaria, è rimasta da parte delle famiglie la volontà di dare una continuità ai propri valori e delle proprie tradizioni, anche mediante il tramandarsi di beni materiali.
Per quanto riguarda il corredo, in passato, per ogni figlia femmina si cominciava il ricamo delle stoffe sin da quando queste erano bambine: ciò avveniva in tutte le famiglie, indipendentemente dall'estrazione sociale, che influiva solo sulla numerosità e sulla ricchezza dei tessuti. I pezzi erano  conservati in cassapanche o piccoli armadi di legno e dettagliati per iscritto su una lista. Un corredo era composto da una parte per la casa ed una personale. In una famiglia borghese, ad esempio, il corredo per la casa era generalmente costituito da 24 lenzuoli doppi di puro lino ricamati a mano, 24 semplici, 36 coppie di federe, 12 asciugamani di tela più 6 per gli ospiti, 12 tovaglie d'organza più 6 per tutti i giorni e così via. La parte personale invece contemplava capi di biancheria, camicie da notte di seta, camicie di tela, mantelle, fazzoletti e via dicendo.
Ovviamente, nelle famiglie contadine, i pezzi portati in dote e la qualità dei tessuti erano decisamente più limitati.
Dalle testimonianze orali raccolte da alcuni anziani qui in Brianza, tramandate dai loro “vecchi”, che venivano quindi dall’Ottocento, mi è stato riferito che la dote nuziale era chiamata ancora schirpa, mentre il termine dóta  è più vicino a noi, diciamo a partire dai primi anni del secolo scorso. Il termine schirpa pare deriverebbe, secondo il Cherubini e il Banfi, dal latino barbaro “scerfa”, che significherebbe dotazione.

 
 

Ricordo che mia nonna paterna, classe 1904, rimasta purtroppo vedova a 37 anni, con due figli piccoli da crescere, quando era in fase di confidenze mi raccontava dei tempi della sua gioventù. Partiva dalla triste vicenda di sua madre, morta per le complicanze del parto un mese dopo la sua nascita, della crescita ad opera di una amorevole e affettuosa zia, della miseria vissuta durante il periodo della Grande guerra e concludeva con la perdita del marito, morto su un carro agricolo nel 1941(1). Al che, schiacciando l’occhio a mio padre, cercavo di riportarla su argomenti per lei più piacevoli, come quando i genitori di mio nonno e mia nonna decisero che fosse giunto il momento di far maritare i due ragazzi. Per mia nonna questo passo l’avrebbe portata ad entrare in una famiglia più “strutturata” che le avrebbe consentito di migliorare la sua condizione economica. Ciò che le piaceva raccontare erano i preparativi del matrimonio ed in particolare dei mesi impiegati a predisporre la dóta; parlava di un gran lavoro di ricamo e di cucito, di maglieria, di giorni e serate  intere passate con l’ago tra le dita per mettere insieme il suo modesto corredo matrimoniale. Modesto, ma fatto da lei, probabilmente con l’aiuto di qualche zia. Io ero già un ragazzo, ma mi piaceva ascoltare la nonna raccontare, perché lei parlava solo il dialetto brianzolo, il vecchio dialetto, con terminologia oggi pressoché scomparsa, schietta e sincera, proprio come era la gente contadina quando l’agricoltura era la regina della povera economia popolare.
Tuttavia, qui in Brianza, almeno fino al secondo dopoguerra, la famiglia che "perdeva un reddito" dalla formazione di una nuova famiglia era quella di origine della sposa. Dopo le nozze, infatti, i coniugi non costituivano un nucleo autonomo, ma andavano a vivere “in famiglia”, ossia insieme alla famiglia dello sposo. Tuttavia, la famiglia dell’uomo, pur non versando un risarcimento vero e proprio, anche se provvedeva a fornire qualche capo di biancheria, si sobbarcava le spese maggiori del matrimonio, volte a predisporre almeno un paio di locali, cucina e camera da letto, per la nuova coppia, il mobilio e le spese per i festeggiamenti nuziali.
Ma tutti i passaggi che portavano alla celebrazione del matrimonio, dote compresa, erano regolamentati, oltre che nei contenuti, anche nei tempi, in quanto essi si collocavano in un momento preciso delle varie tappe che componevano la sequenza rituale delle nozze, al cui centro vi era naturalmente il rito religioso.

Beniamino Colnaghi

Note

 

 

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