Nonno Defendente era sveglio da almeno due ore. Tutte le sante
mattine si svegliava alle quattro per mungere e regolare le mucche. La stalla e
il campo vicino alla roggia “Molino nero” erano tutta la sua vita. Rimase vedovo
presto. Sua moglie Francesca, Ceca,
morì durante il parto del suo quinto figlio, avvenuto in una gelida notte di
gennaio. Volle chiamarlo Benedetto, il figlio, “ricco di benedizioni divine”.
Defendente uscì dalla stalla verso le sei e si diresse col
secchio del latte nella sua umile dimora. Umile, ma pulita e dignitosa. Quando
all’età di 40 anni rimase vedovo, non volle l’aiuto di nessuno: né di sua
sorella maggiore, Clara, nubile per scelta, né delle vicine di casa che, a suo
dire, avrebbero poi spettegolato nelle botteghe del paese sui suoi modi di
condurre la casa ed educare i figli. Nulla di illegale né di riprovevole, si
intende. Ma quella fedina penale macchiata dalla partecipazione alle proteste
popolari nel 1919, caratterizzate dalle lotte operaie e contadine contro i
padroni e i latifondisti, lo “marchiò” per lunghi anni. Si sa, queste cose
fanno male, soprattutto in un momento storico contraddistinto da pesanti
scontri ideologici e odiose discriminazioni. Il padrone lo cacciò di casa. Era
una sua facoltà contrattuale, che esercitò immediatamente.
A quel punto, Defendente, già sposato e padre di un figlio
maschio, dovette caricare “armi e bagagli” su un carro prestatogli da suo padre
e trasferirsi in una piccola cascina della Bassa lombarda. Zona malsana: in
estate afa e zanzare lunghe un dito, durante i mesi invernali nebbia fitta che “si
tagliava con il coltello”. Ma Defendente era uno tosto, un combattente nato.
Cominciò a lavorare alacremente ed a sfornare figli a ripetizione: cinque in quattordici
anni.
Una cascina lombarda
Fu uno dei primi a meccanizzare il lavoro dei campi. Comprò un
trattore usato Landini e alcune macchine agricole che gli permisero di ampliare
le attività e ridurre i tempi. Crebbe i suoi cinque figli con dignità e con la
forza del lavoro. Insegnò loro ad essere onesti, ad avere sempre la “schiena
dritta” e non scendere mai a compromessi.
Nella sua vita andò poco in chiesa; partecipava alle funzioni
religiose solo quando si rendeva strettamente necessario. Non era ateo, ma la
sua fede si fermava spesso sul gradino del portone della chiesa. Però fece
battezzare tutti i suoi figli e, diventati maggiorenni, lasciò loro ampia
libertà sull’impostazione religiosa della loro vita.
Quando Defendente entrò in casa, il suo volto scavato e
rugoso, dai tratti severi per sopracciglia folte e ormai bianche, molto simili
a embrici sporgenti, si distese improvvisamente.
“Carletto, Carletto, forza, scendi, la colazione è
quasi pronta!”, disse mamma Ambrogia, trafelata e ansimante. Carletto, Carlo all’anagrafe, era nipote
di nonno Defendente, figlio del suo primogenito. Come avveniva normalmente
nelle società contadine, il figlio primogenito, dopo aver contratto matrimonio,
rimaneva con la sua nuova famiglia nella casa dei genitori. Ci si arrangiava
come si poteva, normalmente alzando una nuova parete, stramezza, nella grande camera da letto dei genitori.
L’onore di scegliere il nome del bambino venne affidato al
nonno paterno, il quale non ci pensò su due volte: “Si chiamerà Carlo, come mio
padre e come Marx”.
L’uso di chiamare i neonati con il nome dei loro avi e quello
di riproporre il nome degli anziani nei neonati, nelle culture contadine
s’inquadra in una particolare disciplina nominale che ha diverse valenze di
tipo etno-antropologico, le quali si possono riassumere nel desiderio di
onorare il capostipite, trasferire col nome anche il carattere della persona
donante e la convinzione di trasferire l’anima del donante e con essa la vita.
Carlo era già sveglio da un pezzo. Era troppo agitato ed
eccitato dalla novità. Si era girato e rigirato nel letto e, nei brevi
intervalli di sonno, aveva sognato le guglie del Duomo di Milano, che vide per
la prima volta in una foto sul libro di geografia. Quattordici anni appena
compiuti, sarebbe partito da casa senza essere accompagnato dai genitori. E’
vero, tre anni prima partecipò ad una colonia estiva a Rimini, organizzata
dall’oratorio locale, ma non si trovò a suo agio. Gli mancarono, seppur per il
breve periodo del soggiorno, i suoi genitori e, soprattutto, sentì la mancanza del
nonno, il suo vero punto di riferimento. Suo padre e sua madre lo iscrissero
alla colonia perché nel mese di giugno di quell’anno ebbero la loro
secondogenita.
“Carletto, scendi,
farai tardi, la corriera non ti aspetterà”. Nella cucina del piano inferiore la
colazione era già servita sul grande tavolo di ciliegio massello. Il tavolo
venne costruito dal falegname del paese, un certo Ugeni, Eugenio, che sapeva usare la pialla e lo scalpello come
pochi altri. Il materiale grezzo fu invece fornito dallo stesso Defendente, il
quale fu costretto a tagliare un vecchio ciliegio malato, messo a dimora da suo
nonno nella cascina che lo vide nascere. Suo nonno, secondo una storia
raccontatagli da suo padre, fu un fervente garibaldino e, per salutare l’Unità
d’Italia, piantò due ciliegi ai lati del portone d’ingresso della cascina.
Quando Carlo cominciò a divorare la colazione, sua madre si
affacciò alla finestra e vide le prime foglie cadere dagli alberi. “Oh, Signor,
vardée, comincia l’autün”, disse.
Il ragazzo non si alzò dalla sedia finché non ebbe finito di
inzuppare il pane imburrato nel latte. Sulla stufa di ghisa sfrigolava
dell’altro latte per la colazione del nonno, che finì col traboccare sugli
anelli roventi, sollevando uno strepito di bollicine crepitanti in una
nuvoletta di fumo acre.
La corriera dei pendolari era pronta sulla piazza del
Municipio. Mancavano dieci minuti alle sei e mezza, ma il motore era già
acceso, provocando una fastidiosa e maleodorante nuvoletta nera. Gli operai arrivavano
alla spicciolata, qualcuno con l’ombrello aperto, per via di una leggera
pioggerellina autunnale. Tutti avevano in mano una borsa di cuoio o una sporta
dentro le quali era ben riposta la gavetta, schiscéta, il contenitore a più scomparti per portarsi sul
luogo di lavoro il cibo già cotto a casa. Dalle vicine stalle, oltre
l’inconfondibile odore di sterco, provenivano i muggiti delle mucche e le
bonarie lamentele dei contadini. I giovani operai ormai non ci badavano più,
perché erano tutti di estrazione contadina e sapevano bene quanto fosse dura
quella vita. Le promesse di una vita migliore e le speranze di elevare la
condizione economica e sociale, rispetto a quella dei loro padri, li avevano
spinti a chiudersi in fabbrica dieci ore al giorno. Ma era ancora sangue
contadino a scorrere nelle loro vene ed era l’odore acre della terra che
filtrava nelle loro narici.
La schiscéta
Carlo arrivò accompagnato dalla mamma e da un loro vicino di
casa, che prendeva la corriera per Milano tutti i giorni, compreso il sabato. In
quegli anni la ricostruzione del Paese imponeva duri sacrifici e chiedeva il
massimo impegno da parte delle classi sociali meno abbienti, quelle che
avrebbero voluto riscattarsi dopo secoli di subalternità.
Qualche operaio più anziano si lasciò andare a qualche battuta
scherzosa, tanto per far sentire a proprio agio il ragazzo.
“Ue, Carletto, che
buon profumino che esce dalla tua borsa, la mamma ti ha preparato un buon
pranzetto, neh?”. “Devi mangiare, ragazzo, la vita del pendolare è faticosa”.
La corriera alle 6.30 in punto partì scoppiettando dalla piazza.
Percorse poche decine di metri, Carlo voltò la testa indietro, cercando il
volto di sua madre. La vide che si stava unendo ad un gruppetto di donne
vestite di nero, appena uscite dalla chiesa. Il campanile rintoccava le ore,
l’osteria “Lisander” stava alzando la clèr,
la saracinesca, il lattaio caricava i contenitori del latte sul calesse, il
garzone del prestinèe, sulla
bicicletta nera con due grandi cesti di vimini, stava consegnando il pane:
scene di vita quotidiana in un piccolo borgo contadino.
Il cielo grigio e uggioso fece improvvisamente sparire ogni
traccia del paese. La campagna si aprì, facendo intravedere i lunghi filari di
gelsi che cingevano i campi addormentati e i pioppeti che fiancheggiavano il
fiume. Sulla corriera la compagnia si animò: l’autista cominciò a cantare
motivetti allegri e spensierati, alcuni operai iniziarono a giocare a briscola,
altri ascoltavano la piccola radio a transistor appoggiata all’orecchio per non
disturbare.
A mano a mano che la corriera lasciava alle sue spalle i
piccoli paesi che si affacciavano sul “grande stradone” e incontrava le prime
case dei quartieri periferici della metropoli, Carlo si “caricò” di curiosità.
Osservò ogni palazzo, scrutò in ogni negozio, si meravigliò della frenesia con
la quale si muoveva la gente della città. Fantasticò sulle grandezze e le
meraviglie di Milano.
Il Duomo di Milano
Un’ora dopo la partenza la corriera scaricò gli operai in un
grande parcheggio adiacente il piazzale intitolato a
Luigi Emanuele Corvetto, giurista e politico ligure. Gli operai
si divisero. Erano parecchie le fabbriche che avevano sede in zona. Carlo, con
altri sette operai, si diresse verso Corso Lodi ove aveva sede una nota azienda
metalmeccanica. Una folata di vento obbligò il gruppetto ad alzare il bavero
dei giacconi e stringersi nelle spalle. Sul breve percorso, due vecchi milanesi
in bicicletta, avvolti nel tipico tabarro nero, alzarono gli occhi verso gli
operai e urlarono: “Ocio, operai, proletari campagnoli, a Milan i murön fan l'üga, a Milano i gelsi fanno l'uva, ossia a Milano ogni cosa è
possibile, tutto può essere realizzato.
Gli operai, abituati alle battute dei vecchi milanesi, si
misero a ridere. Anche Carlo rise, per non essere di meno, anche se non ne comprese
bene il senso. Strinse la borsa sotto il braccio destro e salutò gli altri
lavoratori, con educazione e rispetto, i quali proseguirono ancora per un
centinaio di metri prima di timbrare il cartellino nella loro fabbrica.
Carlo era arrivato. Ad attenderlo c’era il custode, che lo
invitò a salire al 5° piano, presso l’ufficio del personale. Durante la salita
in ascensore tutto gli parve bello ed entusiasmante. Pensò a nonno Defendente
ed alla carezza che il vecchio gli diede quella mattina prima di uscire di casa.
I suoi occhi brillarono di emozione e di gioia, incastonati su
un viso fiorito di colori campagnoli.
Beniamino Colnaghi
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