Le foto sono state scattate a Milano nel giorno di Sant'Ambrogio
La Storia attraverso personaggi, luoghi ed eventi, nonchè storie di donne e uomini, non sempre potenti e famosi, spesso semplici e umili persone che, grazie al loro lascito di memorie e testimonianze quotidiane, ci consentono di conoscere meglio il loro tempo ed approfondire il nostro passato. Blog senza fini di lucro, che tratta argomenti storici, culturali e di costume.
lunedì 18 dicembre 2017
venerdì 8 dicembre 2017
Ul
piasè de cüntala su dei brianzoli
(il piacere di conversare, di raccontarla a qualcuno)
(il piacere di conversare, di raccontarla a qualcuno)
Si
è molto parlato su questo blog della trasmissione orale di fatti, notizie,
storie tra le più svariate nei periodi quando la televisione non era ancora
entrata prepotentemente nelle case dei brianzoli. Se togliessimo le chiacchiere di
paese ed i pettegolezzi, che hanno sempre fatto parte del vissuto di una
comunità di persone, le storie più o meno vere, o verosimili, ovvero infarcite
di balle macroscopiche, fino agli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso
venivano raccontate e tramandate ai più giovani oralmente. Solitamente ciò
avveniva in inverno nelle calde e maleodoranti stalle oppure davanti al grande
camino della cucina, ove erano sedute almeno tre generazioni della famiglia
patriarcale, mentre durante i mesi più caldi i principali centri di
“comunicazione culturale” erano i portici ed i loggiati delle cascine e dei
cortili rurali. In quei luoghi erano quasi sempre le persone più anziane a
raccontare le storie e i bambini ed i più giovani ascoltavano in religioso
silenzio, a volte a bocca aperta, altre volte con gli occhi sgranati. Per le
generazioni passate era naturale e istintivo ul piasè de cüntala su ed i bambini di allora si immedesimavano nel
racconto e viaggiavano di fantasia. Era un raccontare alla buona, spontaneo e
senza pretese, però sempre con una morale, mural,
un messaggio che dicesse qualcosa di utile a tutti, di esemplare, da cui
trarre insegnamento per una migliore norma di vita.
Le
storie di temp indree tramandateci dalla
tradizione orale brianzola sono sostanzialmente esposizione di fatti veri, o
solo in parte, senza pretese di essere in possesso di documenti e testi
scritti. Alcuni racconti partivano da contingenze reali e man mano venivano ricostruiti
e riadattati con ambiti ambientati ad hoc e con le caratteristiche dei
protagonisti, in sintonia con i tempi e i luoghi nei quali i fatti erano accaduti. Nella maggior parte delle vicende raccontate dai vecchi campeggia la
figura del “brianzolo tipo”, con i suoi pregi e difetti, le sue manie, le
rigidità di usi e costumi, le sue ingenuità ma anche le sue furbizie.
Agli
inizi del secolo scorso, ed almeno fino agli anni Sessanta, il vissuto terreno
del brianzolo ruotava attorno alla Provvidenza, ai Santi ed ai suoi Morti. Sono
questi aspetti importanti per capire su che basi si fondava la sua mentalità e
come gli riuscisse di non “uscire dal seminato”. Il vecchio contadino aveva
innato il senso del rispetto delle regole, dello stare al proprio posto, dell’attaccamento
alla propria comunità. Ciò era dovuto anche al fatto che la vita comunitaria
rurale della vecchia Brianza era piuttosto povera di avvenimenti e di novità e
che i fatti e le cadenze si ripetevano stagione dopo stagione, anno dopo anno.
Le novità le portavano in cascina e nei piccoli centri rurali i carbunatt, i cavalont, gli strascee,
coloro che avevano la possibilità di spostarsi con i carri verso Milano, Monza
e Sesto San Giovanni.
La
peculiarità delle storie raccontate qui in Brianza riguardava quasi sempre una
velata serenità di spirito che oggi si è persa e smarrita e della quale noi
oggi proviamo una sicura nostalgia. Si trattava di quella condizione “spirituale”
che apparteneva a classi di persone umili, buone di carattere, prive di
turbamenti, tranquille. Secondo il vecchio brianzolo l’uomo non era quasi mai
protagonista della propria vicenda terrena, governata com’era dalla Provvidenza, di
fronte alla quale l’uomo è spesso soltanto muto spettatore. Quella Provvidenza era
il piano di Dio, dalla quale il contadino traeva insegnamenti oppure
giustificazioni, ma era certo che a quel disegno divino dipendeva il suo
destino spirituale e terreno.
I
racconti brianzoli erano tutti emanazione delle persone anziane ed ebbero come ribalta,
come abbiamo visto, i luoghi tipici del vissuto contadino. Nella stalla, vicino
al grande camino o sotto i portici si potevano ascoltare storie riferite al mondo
dell’infanzia, racconti fantastici o di soldati che avevano combattuto in
guerra oppure ancora racconti edificanti a carattere religioso, tratti dalla
vita dei santi e dei grandi pellegrini.
Siccome
le vecchie storie erano tutte calate nel mondo contadino, per cercare di
capirle e dar loro una seppur minima verosimiglianza bisognerebbe conoscere il
contesto entro le quali nascevano e si sviluppavano, almeno secondo tre concetti
già brevemente richiamati: la Provvidenza, la mentalità contadina e l’indole
del brianzolo. Occorre cioè avere un’immagine precisa dell’intero mosaico, perché
è la sua conoscenza specifica che può consentirci di interpretare e capire quel
mondo ormai scomparso.
Il
prezioso significato sociale della nostra narrativa orale sta nel fatto che
attraverso di essa possiamo ricostruire pezzo per pezzo la vita della cascina,
il ruolo comunitario del cortile e del grande portico comune, la funzione romantica,
oltre che fondamentale, del pozzo, il senso profondo della Provvidenza e della
vita religiosa. Sono le storie che raccontano la vita di quelle generazioni di
persone, storie che animano la chiesa, l’osteria, le botteghe artigiane, il
lavatoio pubblico, il cimitero, la villa padronale.
È
grazie a questo mondo che i racconti e le storie dei vecchi contadini brianzoli
non sono mai banali, perché posseggono un’anima ed una morale condivisa.
Beniamino Colnaghi
Altri post che raccontano la Brianza
La domenica andando alla messa: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2013/06/la-domenica-andando-alla-messa.html
Sant'Antonio Abate in Brianza: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2013/01/santantoni-delpurcell-un-santo.htm
Una vecchia storia brianzola: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2014/03/storie-e-memorie-della-vecchia-brianza.html
Tradizioni popolari brianzole: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2013/11/le-tradizioni-popolari-brianzole-nel.html
La pergola dei Proserpio: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2014/10/normal-0-14-false-false-false.html
Il paesaggio rurale in Brianza: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2014/06/il-paesaggio-rurale-della-vecchia.html
Carrettieri e cavallanti in Brianza: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2015/06/carrettieri-e-cavallanti-brianza.html
Allevamento del baco da seta: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2015/03/canti-riti-e-superstizioni-attorno.html
La medicina popolare in Brianza: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2016/12/iproverbi-della-medicina-popolare-in.html
Le trasformazioni sociali e culturali in Brianza: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2016/01/le-trasformazionisociali-e-culturali.html
Il flauto di Pan: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2017/01/ilflauto-di-pan-mitologia-e-tradizioni.html
venerdì 1 dicembre 2017
Pillole di saggezza e buon senso 1
"È in arrivo il nuovo digitale"... ma "dire no grazie, per me può bastare così non è previsto, non è permesso, bisogna continuamente cambiare apparati, imparare l'uso, resettare le abitudini, rimettere mano al portafogli". "... è una questione di libertà di fermarsi".
Michele Serra, L'amaca, "la Repubblica" del 4 novembre 2017
"Viaggiare ha un effetto liberatorio: più viaggi, più ti liberi dai pregiudizi. Perché comprendi che la tua civiltà non è esclusiva"
Marco Polo
"Rifiuta ciò che non ti serve. Riduci ciò di cui hai bisogno, Riutilizza ciò che consumi"
Bea Johnson, Zero rifiuti in casa, Logart Press editore
venerdì 10 novembre 2017
Il “sarto di Ulm”, ovvero
colui che voleva volare, e l’apologo di Bertolt Brecht
Ulm
(Ulma, Germania), è una città tedesca affacciata sul Danubio, famosa nel mondo
per aver dato i natali ad Albert Einstein, nel 1879, e per la presenza di una
grande e bella cattedrale in stile gotico, il cui campanile, alto 161 metri e con
768 gradini, è indicato come il più alto al mondo.
Ad
onor del vero vi sarebbe un terzo motivo che dovrebbe aggiungere fama alla
città, ossia la vicenda che riguardò un suo cittadino, tale Albrecht Ludwig Berblinger.
Berblinger nacque infatti a Ulm il 24 giugno 1770, settimo
figlio di Albrecht Ludwig Berblinger e di Dorothea Fink. Rimasto orfano del
padre all’età di 13 anni, come spesso accadeva all'epoca nelle famiglie
numerose e di umili origini, Albrecht fu mandato in un orfanotrofio, ove fu
costretto a studiare come sarto, sebbene lui, appassionato di meccanica,
ambisse a diventare un orologiaio.
Tuttavia,
intrapresa la carriera di sarto, Berblinger mantenne sempre un grande interesse
per la meccanica, disciplina che lo portò, nei primi anni dell’Ottocento, a
progettare e costruire alcune carrozzine per bambini e altri piccoli veicoli.
Successivamente ideò alcune protesi per le gambe. Ma il suo grande sogno fu
quello di inventare una macchina che permettesse all’uomo di volare. Lavorò incessantemente
per alcuni anni alla costruzione di un oggetto simile al deltaplano, con la
convinzione che potesse volare. Il suo progetto, non suscitò solo curiosità, ma
alimentò ilarità in gran parte della popolazione. Molti si chiesero se
Berblinger non fosse diventato matto.
Ma le
chiacchiere malevoli e le critiche non impedirono al “sarto di Ulm” di
terminare la costruzione della sua invenzione, che rese quindi nota al pubblico
tramite un'inserzione del 24 aprile 1811. Poche settimane dopo annunciò il suo
tentativo di sorvolare il Danubio il 30 maggio, alla presenza del Re e di
migliaia di spettatori, ma, all’ultimo momento, Berblinger rinunciò. Il giorno
seguente, forse più convinto, tentò quindi nuovamente di sorvolare il Danubio,
partendo dai bastioni di Ulm. Il tentativo fallì, in quanto Berblinger
precipitò col velivolo nelle acque del fiume, dal quale venne tratto in salvo
da alcuni pescatori.
Berblinger
cadde quindi in miseria, avendo speso quasi tutti i suoi capitali nella
realizzazione del progetto e nel 1819 fu dichiarato civiliter mortuus,
una condizione che gli permise di ricevere una sovvenzione dalla sua città.
Albrecht
Ludwig Berblinger morì il 28 gennaio 1829 in un ospedale di Ulm, all'età di 58
anni. Venne sepolto in una tomba nel campo dei poveri.
La macchina da volo ideata da Berblinger (fonte Wikipedia)
Bertolt
Brecht (1898 – 1956), il noto drammaturgo, poeta e regista teatrale tedesco scrisse
una versione diversa sulla “fine” del povero sarto, dedicandogli una poesia e
un apologo.
"Vescovo, so volare",
il sarto disse al vescovo.
"Guarda come si fa!"
E salì, con arnesi
che parevano ali,
sopra la grande, grande cattedrale.
Il vescovo andò innanzi.
"Non sono che bugie,
non è un uccello, l'uomo:
mai l'uomo volerà",
disse del sarto il vescovo.
"Il sarto è morto", disse
al vescovo la gente.
"Era proprio pazzia.
Le ali si son rotte
e lui sta là, schiantato
sui duri, duri selci del sagrato".
"Che le campani suonino.
Erano solo bugie.
Non è un uccello, l'uomo:
mai l'uomo volerà",
disse alla gente il vescovo.
il sarto disse al vescovo.
"Guarda come si fa!"
E salì, con arnesi
che parevano ali,
sopra la grande, grande cattedrale.
Il vescovo andò innanzi.
"Non sono che bugie,
non è un uccello, l'uomo:
mai l'uomo volerà",
disse del sarto il vescovo.
"Il sarto è morto", disse
al vescovo la gente.
"Era proprio pazzia.
Le ali si son rotte
e lui sta là, schiantato
sui duri, duri selci del sagrato".
"Che le campani suonino.
Erano solo bugie.
Non è un uccello, l'uomo:
mai l'uomo volerà",
disse alla gente il vescovo.
Scrisse dunque Brecht che quell’artigiano,
fissato nell’idea di apprestare un apparecchio che permettesse all’uomo di
volare, un giorno, convinto di esserci riuscito, si presentò al vescovo dicendogli
che poteva volare. Si lanciò dal tetto della cattedrale ma, ovviamente, si
spiaccicò sul selciato.
Tuttavia,
constatò amaramente, ma lucidamente Brecht, alcuni secoli dopo gli uomini
riuscirono effettivamente a volare, come riuscirono, aggiungo io, in molte
parti del mondo, dopo avanzamenti e sconfitte, storie non lineari né univocamente
progressive, dopo secoli di lotte contro lo schiavismo e la tirannide, la dominazione
coloniale, le guerre di religione, gli uomini riuscirono, dunque, ad ottenere
la libertà, a sviluppare scienza e tecnologia, a migliorare le proprie
condizioni economiche, di salute, di vita più dignitose.
Beniamino Colnaghi
sabato 4 novembre 2017
La Valle di Ledro e la Boemia: storie di guerra e di amicizia
I deportati ledrensi in Boemia, dalla diffidenza all'accoglienza all'integrazione
I deportati ledrensi in Boemia, dalla diffidenza all'accoglienza all'integrazione
Accadde tutto
oltre cento anni fa, a poche ore dalla dichiarazione di guerra del Regno
d´Italia all´Impero austro-ungarico. Il 24 maggio 1915 l´Italia entrò nel primo
conflitto mondiale schierandosi con i Paesi dell‘Intesa. L'entrata in guerra dell'Italia aprì un grande fronte
sulle Alpi, esteso dal confine con la Svizzera, a ovest, fino alle rive
del mare Adriatico, a est. Le forze del Regio esercito sostennero il
loro principale sforzo bellico contro le unità dell'esercito imperiale austro-ungarico,
con combattimenti concentrati nel settore delle Dolomiti, dell'Altopiano di
Asiago e soprattutto nel Carso.
Alla vigilia del conflitto bellico, la regione
Trentino-Alto Adige, poi interessata da sanguinosi combattimenti, era parte
integrante dell´Impero austro-ungarico. Allo scoppio della guerra nel 1914 la
popolazione adulta maschile della regione, compresa tra i 21 e i 42 anni, venne
chiamata alle armi. Gli austriaci erano
convinti che l´Italia non avrebbe mantenuto a lungo la sua neutralità e che i
primi scontri sarebbero avvenuti nella zona della Valle di Ledro, costruendo
imponenti opere militari di difesa e sbarramento. A causa della pericolosità
della situazione, gli austriaci diedero l´ordine di evacuare tutta la
popolazione civile da quei territori. Il 22
maggio del 1915, sulle pareti delle case della popolazione ledrense, venne
affissa la Notificazione dell’Imperial Regio Capitano di Riva che ordinava
l’evacuazione per tutta la popolazione della Valle, da effettuarsi entro 24
ore. Il 23 maggio del 1915, giorno di Pentecoste, nel giro di poche ore,
migliaia di persone, in prevalenza donne, bambini ed anziani, furono costretti
a lasciare le loro case e quella che fino a quel momento era stata tutta la
loro vita, per una destinazione e un futuro ignoti. Tutto quello che gli fu
concesso portare con sé furono un bagaglio e i viveri necessari per alcuni
giorni di viaggio. Questo vero e proprio esodo di massa coinvolse in totale
circa 75.000 persone che da tutto il Trentino furono spostate nelle regioni
interne dell’Impero: Austria, Moravia, Boemia; regioni per loro lontane, di
lingue e culture diverse. Di queste persone, 11.400 circa, provenienti in
prevalenza dalla valle di Ledro, arrivarono in Boemia. Se si considera che
molta di quella gente non era mai prima di allora uscita dalla Valle, si può
forse capire il dramma psicologico che gli sfollati dovettero sostenere.
La popolazione venne caricata su
camion, treni e carri e trasportata per giorni lungo centinaia di
chilometri in condizioni estreme e, una volta giunta in territorio boemo,
distribuita tra le famiglie ceche dei comuni di Buštehrad, Chynava, Doksy,
Dřetovice, Nový Knin, Milin, Přibram, Ptice, Svárov, Železná, Všeň e
Stříbro; paesi dai nomi impronunciabili e di cui i trentini non conoscevano la
lingua. I ledrensi furono accolti dalla popolazione boema e morava
dapprima con curiosità e diffidenza e furono sistemati alla meglio in palestre
e scuole trasformate in dormitori, o presso famiglie boeme. La promessa
austriaca di una permanenza che doveva durare soltanto poche settimane venne
disattesa e gli italiani capirono presto che in quelle terre lontane dalla
propria casa sarebbero rimasti per un tempo indefinito e avrebbero dovuto
iniziare da capo a costruirsi un’esistenza degna. Così, senza mezzi economici e
senza conoscere la lingua locale, i ledrensi dovettero reinventarsi
un’esistenza combattendo, almeno all’inizio, contro un insidioso nemico: la
fame. I primi tempi furono molto duri anche a causa delle differenze
linguistiche che all’inizio impedivano la comunicazione. Molti, per sfuggire
alla fame, mangiavano le rane pescate negli stagni e qualsiasi cosa fosse
commestibile. Ma poco a poco la diffidenza iniziale della popolazione boema e
la differenza linguistica furono superate grazie alla laboriosità e alla
modestia degli italiani che da subito cercarono di rendersi produttivi e di
guadagnarsi il rispetto e la stima dei cechi, che non tardarono a manifestarsi,
forse anche a causa del risentimento che i due popoli provavano contro gli
austriaci, il comune oppressore. Successivamente, ai profughi venne assegnato
un contributo giornaliero in denaro pari a 70 haler che scongiurò i
problemi più urgenti di sussistenza. Le donne italiane furono impiegate nei
campi carenti di manodopera a causa della guerra e, con il loro duro lavoro, si
guadagnarono l’affetto e il rispetto della popolazione locale. I bambini furono
i primi ad imparare la lingua perché giocavano con i loro coetanei cechi e
aiutarono presto i genitori a comunicare con la popolazione locale. Se da una
parte il soggiorno boemo fu per i ledrensi un esilio forzato, dall´altra è
anche vero che questo esilio si trasformò in una storia di grande
solidarietà e di amicizia che poco a poco nacque tra gli italiani ed i cechi.
Nel cuore dei profughi la parola “Boemia” era sinonimo di esilio, ma in quelle
lontane terre gli italiani continuarono a mantener vive le proprie tradizioni
riuscendo ad integrarsi con la popolazione locale e a stringere con essa
sinceri e duraturi rapporti di stima, rispetto e amicizia reciproci.
Nel corso dei mesi, mentre sul fronte
italiano infuriava la guerra, in Boemia le donne trentine continuarono ad
occuparsi della famiglia, aspettando speranzose il ritorno dei figli e dei
mariti dal fronte. Quando l’esercito italiano riuscì ad occupare i paesi della
Valle, il 4 novembre del 1918 le ostilità cessarono e il Regio esercito
italiano ormai entrato a Trento issò il Tricolore sulle alture fino a poco
tempo prima occupate dal nemico. Alla luce della nuova situazione, i profughi,
dopo quattro anni in terra boema, poterono far ritorno alla proprie case
insieme ai soldati che tornavano dal fronte. Ma se l’arrivo in Boemia era stato
traumatico, lo fu altrettanto il doversi separare dagli amati cechi, ormai
amici, che avevano permesso ai ledrensi di sopravvivere in quei duri anni. I
rapporti di stima ed amicizia allacciati erano destinati a durare per
sempre. Al ritorno a casa, i profughi e i soldati superstiti finalmente si
ritrovarono: le mogli poterono riabbracciare i loro mariti e le madri i propri
figli, ma i paesi nei quali facevano ritorno erano spesso ridotti a un cumulo
di macerie, le case scoperchiate, i campi distrutti e disseminati di mine e proiettili
inesplosi. Ai ledrensi non restò altro che iniziare nuovamente da capo, con
nuova forza e grande dignità, per ricominciare a vivere normalmente.
Negli anni immediatamente successivi
alla fine della Seconda guerra mondiale i deportati della Valle di Ledro ricordarono
spesso, e i loro discendenti ricordano ancora oggi, l’esodo in Boemia con
profonda gratitudine nei confronti del popolo ceco, ritornando più volte in
quelle località del Centro-Europa in segno di riconoscenza verso quelle
popolazioni che li avevano ospitati, alla ricerca dei loro vecchi amici e, contemporaneammente,
per visitare nei cimiteri boemi le tombe dei loro cari, deceduti in quelle terre
lontane.
Ancora nel 2009, a quasi un secolo
dall’esilio nell’attuale Repubblica Ceca è stato siglato, per volontà
dell’amministrazione della Valle di Ledro, un gemellaggio in segno di amicizia tra
i comuni della Valle e otto comuni cechi, a ricordo di quell’esperienza e in
segno di reciproca e perpetua amicizia. In tale occasione é stato
pubblicato il libro: “Boemia. L’esodo della Val di Ledro 1915 – 1919”, curato
da Dario Colombo, e prodotto un DVD, che narrano nei particolari la vicenda e
raccolgono le testimonianze dirette di questa pagina poco conosciuta della
storia del nostro Paese.
È in questo contesto che la nuova terra in cui si
ritrovarono la maggior parte dei ledrensi al termine di quella odissea, la
Boemia e la Moravia del Sud, Paesi dove si parlava un idioma a loro
incomprensibile, diventò a poco a poco il luogo dove si alimentò la speranza
del ritorno e si coltivarono, nel limite del possibile, le proprie tradizioni e
la propria cultura. “Boemia” era l’esilio e, negli anni seguiti al ritorno in
Valle, “Aver fatto la Boemia” espresse giorno dopo giorno il concetto intero
dell’esodo, indipendentemente dal fatto che chi lo avesse espresso fosse stato
davvero in Boemia e non a Mitterndorf, a St. Pölten, in Moravia o in altre zone
dell’impero e tale fu la forza evocativa di quella parola che non necessitò mai
di alcun chiarimento ed anzi, più si allontava negli anni la vicenda reale, più
nel ricordo dei sopravvissuti acquistò forza e contenuto. Perché se da un lato
l’esodo fu dramma, dolore, in qualche caso anche morte, dall’altro divenne
anche una straordinaria storia di solidarietà, d’intraprendenza, di
integrazione che permise ancora una volta ai trentini di conquistarsi il
rispetto e l’ammirazione delle popolazioni locali, che, dopo la diffidenza ed
il rifiuto iniziali, salutarono, anche con le lacrime agli occhi, la partenza
degli esuli al momento del ritorno in Italia, avendo altresì costruito e
stretto rapporti che sarebbero durati per decenni. Rispetto e ammirazione che
furono soprattutto per le donne, le meravigliose donne ledrensi che portarono
avanti pressoché sole intere famiglie, mentre padri, fratelli e mariti
vestivano l’uniforme dei Kaiserjäger e dei Kaiserschützen sui Carpazi, in
Galizia, sul fronte dolomitico.
Non è casuale che la copiosa corrispondenza seguita
agli anni dell’esodo tra la Valle e la Boemia sia stata soprattutto
corrispondenza tra donne, spesso accomunate dal crudele destino della perdita
di un figlio, di un marito, di un fidanzato, di un padre nella terribile
carneficina durata quattro anni, ma soprattutto legate da quel filo invisibile ma
non per questo meno solido che univa donne che avevano lottato giorno dopo
giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, per conquistare o condividere un pezzo
di stoffa, un pugno di farina, una coperta. “Aver fatto la Boemia” diventò dunque
allegoria per un periodo davvero straordinario della Valle, segno della
capacità di superare una prova di quella portata con l’unica risorsa del
proprio coraggio, della propria integrità e del proprio lavoro. Un coraggio,
un’integrità, un’intraprendenza che vengono prepotentemente alla luce nei diari
e nei racconti dei protagonisti, volutamente lasciati al presente proprio in
quanto evocatori di valori che ancor oggi fanno parte, devono fare parte, di
una comunità. Di tutto questo insieme di ricordi, sensazioni, valori la parola Boemia
è sicuramente la sintesi più vera e felice, la parte fondante della spontaneità
popolare, che nessuno può permettersi di dimenticare.
Patto di Gemellaggio
Noi Sindaci, liberamente eletti dal suffragio dei nostri cittadini, rappresentanti dell‘Unione dei Comuni della Valle di Ledro, composta dai Comuni di:Bezzecca, Concei, Molina di Ledro, Pieve di Ledro, Tiarno di Sopra e Tiarno di Sotto,
e dei Comuni Boemi di:
Buštěhrad, Chyňava, Doksy, Milín, Nový Knín, Příbram, Ptice, Všeň,
auspichiamo che non si ripetano più guerre come quella tragica avvenuta negli anni 1914 -1918, che ha causato spaventose sofferenze ai cittadini di tutta l’Europa e ha costretto tutta la popolazione della Valle di Ledro ad abbandonare le proprie case e i propri averi e trovare temporanea amorevole ospitalità tra la gente dei Comuni Boemi. Nei cimiteri della Boemia riposano ancora i Ledrensi che laggiù hanno perso la vita e che non hanno potuto ritornare nella propria Valle. Con l’aiuto degli amici Boemi ci impegneremo a ricordarli e a mantenere un decoroso aspetto delle loro tombe.A ricordo di quella dolorosa esperienza, nello spirito della pace, della stima reciproca, della comprensione e dell’ affetto umano dei propri abitanti, le Amministrazioni Comunali della Valle di Ledro e dei Comuni Boemi istituiscono dei rapporti di gemellaggio fortemente auspicati dai nostri concittadini perchè continuino i vincoli di amicizia che sono nati nel corso della prima guerra mondiale tra le nostre popolazioni.A tal fine ci impegneremo a mantenere legami permanenti tra le nostre Comunità e a favorire in ogni campo la cooperazione e gli scambi istituzionali, culturali e sociali (scolastici, sportivi, parrocchiali, delle singole associazioni e di tutti i nostri concittadini) per sviluppare con una migliore comprensione reciproca il sentimento vivo della fraternità europea.Il presente accordo, redatto il lingua italiana e ceca ha durata illimitata e in ogni caso è valido fino a che le parti lo desiderano secondo la manifesta volontà di tutti, è stato sottoposto all´approvazione dei rispettivi Consigli Comunali ed entrerà in vigore dalla data della sottoscrizione.Valle di Ledro, 28 giugno 2008
Viaggi di amicizia in BoemiaNoi Sindaci, liberamente eletti dal suffragio dei nostri cittadini, rappresentanti dell‘Unione dei Comuni della Valle di Ledro, composta dai Comuni di:Bezzecca, Concei, Molina di Ledro, Pieve di Ledro, Tiarno di Sopra e Tiarno di Sotto,
e dei Comuni Boemi di:
Buštěhrad, Chyňava, Doksy, Milín, Nový Knín, Příbram, Ptice, Všeň,
auspichiamo che non si ripetano più guerre come quella tragica avvenuta negli anni 1914 -1918, che ha causato spaventose sofferenze ai cittadini di tutta l’Europa e ha costretto tutta la popolazione della Valle di Ledro ad abbandonare le proprie case e i propri averi e trovare temporanea amorevole ospitalità tra la gente dei Comuni Boemi. Nei cimiteri della Boemia riposano ancora i Ledrensi che laggiù hanno perso la vita e che non hanno potuto ritornare nella propria Valle. Con l’aiuto degli amici Boemi ci impegneremo a ricordarli e a mantenere un decoroso aspetto delle loro tombe.A ricordo di quella dolorosa esperienza, nello spirito della pace, della stima reciproca, della comprensione e dell’ affetto umano dei propri abitanti, le Amministrazioni Comunali della Valle di Ledro e dei Comuni Boemi istituiscono dei rapporti di gemellaggio fortemente auspicati dai nostri concittadini perchè continuino i vincoli di amicizia che sono nati nel corso della prima guerra mondiale tra le nostre popolazioni.A tal fine ci impegneremo a mantenere legami permanenti tra le nostre Comunità e a favorire in ogni campo la cooperazione e gli scambi istituzionali, culturali e sociali (scolastici, sportivi, parrocchiali, delle singole associazioni e di tutti i nostri concittadini) per sviluppare con una migliore comprensione reciproca il sentimento vivo della fraternità europea.Il presente accordo, redatto il lingua italiana e ceca ha durata illimitata e in ogni caso è valido fino a che le parti lo desiderano secondo la manifesta volontà di tutti, è stato sottoposto all´approvazione dei rispettivi Consigli Comunali ed entrerà in vigore dalla data della sottoscrizione.Valle di Ledro, 28 giugno 2008
Durante il mese di giugno del 2009 una buona parte della
popolazione della Valle di Ledro, mezzo migliaio tra sindaci, assessori
comunali, sacerdoti, vigili del fuoco volontari, cooperatori, associazioni
culturali, sportive o di volontariato e soprattutto famiglie, partecipò ad alcuni viaggi in Repubblica Ceca, promossi
ed organizzati dall’Unione dei Comuni e dalla Cassa Rurale di Ledro.
L’obiettivo fu quello di rivivere le emozioni dei nonni e bisnonni che tanto
raccontarono di quelle terre lontane, di quella gente generosa che li aveva
aiutati in un momento così tragico della loro esistenza e con cui avevano
stretto forti legami di amicizia. A Svatá Hora i ledrensi ebbero l’occasione di
partecipare all’inaugurazione di un monumento a ricordo degli oltre 400 profughi
della Valle di Ledro che ancora riposano nei cimiteri della Boemia.
E già da alcune settimane, autorità e
cittadini italiani e cechi stanno preparando nuovi viaggi di amicizia e
fratellanza volti a ricordare la ricorrenza del 4 novembre 2018, data che segna
il centenario della vittoria italiana e della fine della Prima guerra mondiale.
Beniamino Colnaghi
mercoledì 25 ottobre 2017
Martin Luther. Dopo cinque secoli sono ancora
attuali le sue tesi?
Il 31 ottobre 1517, cinque secoli
fa, Martin Luther (Lutero) affisse sulla porta della Schlosskirche del castello
di Wittenberg (Germania) le sue 95 tesi contro la pratica delle indulgenze.
Martin Luther (Eisleben, 1483 – 1546) aveva 34 anni. Il monaco tedesco, con l’affissione
delle sue tesi, cambiò il volto della Chiesa e la vita di milioni di persone.
Il suo gesto cambiò anche la cultura, la società e la storia dei tedeschi. E
quindi dell’Europa intera. Con la diffusione delle sue tesi, infatti, la
Cristianità si spaccò in due: al Nord le chiese riformate di Lutero, e poi di
Calvino, al Sud i cattolici fedeli all’infallibilità del papa e della gerarchia
della Chiesa apostolica e romana. Tutto ciò che fino ad allora il cristiano
aveva creduto, sperato o temuto venne messo in dubbio dalla protesta di Lutero.
Certo, l’invenzione della stampa ad opera di Gutenberg diede l’impulso decisivo
alla diffusione della Riforma luterana, ma le tesi di Luther furono senza ombra
di dubbio “rivoluzionarie”. Quella del monaco tedesco fu una dieta radicale
contro una Chiesa romana sempre più grassa e corrotta e contro la fame
compulsiva di potere e denaro.
Martin Luther in un ritratto di Lucas Cranach (1529)
Un’altra grande intuizione di Luther fu la traduzione della Bibbia in tedesco,
che ebbe una larghissima diffusione in Germania, tanto che generazioni di
tedeschi impararono a leggere su quel testo e il tedesco di Lutero è l’impronta
più profonda nella grammatica dell’anima tedesca. Non si possono comprendere i
tedeschi senza i secoli di biblicismo interiore dell’etica luterana. Dal 1517
in poi nell’Europa del Nord la religione diventa un modo più rigoroso per
gestire i debiti con Dio. L’operazione di Luther, e soprattutto dei calvinisti,
di annullare lo spazio del Purgatorio per radicarlo nella vita terrena
contribuisce alla spaccatura tra Nord e Sud dell’Europa, che comprende, tra l’altro,
la cultura, le regole della vita e l’etica del lavoro.
Contro la trasformazione dei peccati in oro, con la salvezza dell’anima
dei fedeli, contro cui si scaglia Martin Luther, basti vedere la lingua di Sant’Antonio
nella basilica di Padova: il culto della reliquia si basa sulla magia dell’incarnazione
del Verbo in una lingua. Dalla Riforma luterana spariscono dalle chiese
protestanti non solo le immagini di Maria, ma anche le reliquie, passaggi decisivi
per capire l’essenza del cristianesimo e delle sue confessioni.
domenica 1 ottobre 2017
Le case di ringhiera,
edifici tipici del Nord Italia, e la storia di un ombrello nero
Il
ricordo più nitido che ho riguardo le case di ringhiera nasce e si sviluppa nel palazzo dove abitava la sorella di mio nonno, a Cinisello Balsamo. Del ricordo sono parte integrante un ombrello nero, di tela,
come usavano una volta, e lo sguardo di rimprovero di mio padre.
Prima
di arrivare all’ombrello nero, però, devo fare un salto indietro di oltre mezzo
secolo e spiegare brevemente gli antefatti.
I
miei bisnonni materni, Natale Scotti (1864) e Teresa Airoldi (1868), nacquero
entrambi a Porto d’Adda, allora provincia di Milano, e lì risiedettero fino
alla loro morte. Ebbero quattro figli: mio nonno Giuseppe nel 1899 e tre
femmine, Rosa, Giovanna e Angelina. Rosa rimase “zitella” e ben presto lasciò
il paese per andare a servizio presso una famiglia della borghesia milanese.
Giovanna morì abbastanza giovane mentre Angelina, l’ultimogenita, prese marito
a Cinisello Balsamo, da poco unificato a causa della politica del regime
fascista in tema di accorpamento forzato dei comuni.
La
nuova famiglia si stabilì in un quartiere costruito nei primi anni del secolo
scorso da una cooperativa edilizia locale. Gran parte del quartiere era formato
pressoché da palazzi di tre-quattro piani dotati del cortile interno condominiale,
sul quale si affacciavano tutte le unità immobiliari, che condividevano la
stessa ringhiera, o ballatoio. In buona sostanza la porta di ingresso di ogni
unità abitativa si trovava su un unico e lungo ballatoio comune che correva
lungo tutto il piano, interrotto solamente dall’accesso alla rampa delle scale.
Spesso le case avevano nel cortile un altarino, una piccola edicola votiva o un
affresco dedicati alla Madonna o a qualche santo prediletto. Durante la festa
patronale i segni della religiosità popolare e della fede erano più illuminati del
solito e lungo le ringhiere si stendevano le sandaline e le ghirlande di fiori
di carta.
Le
case a ringhiera rappresentavano un vero e proprio modello abitativo, non solo
architettonico, ma anche un modello sociale di relazioni, perché lì i numerosi
bambini si ritrovavano a giocare tutti insieme, i giovani s’innamoravano lungo
i ballatoi, gli uomini si scambiavano le vicissitudini della vita e le
esperienze della fabbrica, le donne “esportavano” il lavoro della casa, tra
rammendi, mastelli e secchi per il bucato. Si condivideva tutto in quegli
edifici, dalle chiacchiere delle donne anziane alle liti tra coniugi ai rumori
dei primi elettrodomestici che facevano capolino nella società italiana che
stava pian piano rialzando la testa dopo oltre un ventennio di dittatura
fascista e di guerra.
Le
case di ringhiera erano presenti un po’ in tutte le città del Nord
Italia. Milano e il suo hinterland ne erano pieni. Non riguardavano solamente
le case popolari, ma a Milano anche alcuni palazzi della piccola e media
borghesia ne erano adorni.
V’erano
infatti ringhiere e ringhiere.
V’erano
quelle dei fatiscenti palazzi di Porta Ticinese, di piazza Vetra, di alcune vie
che si affacciavano sui navigli che si aprivano su abitazioni di un solo
locale, dove spesso si annidavano personaggi furtivi o sbandati. V’erano le
ringhiere popolose e chiassose delle case di Porta Comasina, di Porta Vittoria,
di Corso Garibaldi e di altri rioni milanesi dove viveva un popolo laborioso,
composto, per la maggior parte, da operai delle officine e delle grandi
fabbriche di Milano e del suo hinterland. V’erano poi le ringhiere delle case
del centro, normalmente più ordinate, più pulite, spesso trasformate in piccoli
giardini, con i gerani e altri fiori riposti nelle fioriere e i rampicanti che
formavano deliziosi pergolati. Su queste ringhiere di case borghesi si aprivano
non più di tre o quattro appartamenti per ogni piano, senza che ciò, tuttavia,
togliesse socialità e vicinanza tra le famiglie residenti.
La
ringhiera, nella maggior parte dei casi, avvicinava, affratellava più d’ogni
altro mezzo moderno di convivenza sociale. Sui ballatoi si organizzavano gite e
scampagnate, gare di bocce e tornei di carte, feste e matrimoni. In quei tempi,
la ringhiera era uno dei luoghi, parimenti al circolo, all’oratorio,
all’osteria dove si “produceva” socialità. Certo, i pettegolezzi erano
all’ordine del giorno, qualche vecchia ruggine o beghe di cortile potevano
creare piccole tensioni e malumori ma la “filosofia” di quelle case tendeva poi
a riappacificare, unire, creare le condizioni per sanare i contrasti.
Dopo
aver cercato di spiegare come erano strutturate le case di ringhiera e quale
fosse il modello sociale che in esse regnava, vorrei ritornare alle ringhiere
del palazzo di Cinisello Balsamo, ove viveva la sorella di mio nonno. E
all’ombrello nero.
Nei
primi anni Sessanta capitava spesso che i miei genitori mi portassero a far
visita ai miei nonni materni, nel frattempo trasferitisi da Porto d’Adda a Milano,
e alle due zie di mia madre. Allora la famiglia “allargata” era una realtà forte
e le relazioni tra i miei parenti erano buone. L’occasione per far visita alla
zia Angelina, rimasta vedova da pochi mesi, fu l’avvicinarsi della ricorrenza
dei defunti e la doverosa visita al cimitero di Balsamo, ove era stato sepolto il
corpo dello zio Luigi, Luisin per i
parenti. Era una domenica di fine ottobre. Grigia, triste, piovigginosa. Mio zio
parcheggiò la Fiat 600 bianca sulla via e tutti insieme ci dirigemmo verso il portone
del palazzo a ringhiera, cominciando a salire le scale che conducevano al terzo
piano. Ciò che per anni rimase nella mia mente di bambino nato e vissuto in un
piccolo paese brianzolo fu l’impatto con il contesto abitativo e urbano che mi
circondava. Palazzi alti, fitti, che si rincorrevano uno dopo l’altro,
incroci di strade, gente che sembrava sempre indaffarata. Tutto ciò mi incuriosiva
e, nello stesso tempo, mi rendeva abbastanza insofferente. Molto probabilmente
fu con questo stato d’animo che mi approcciai a far visita alla zia Angelina. Dalla zia Rosa ricordo che ci andavo più volentieri, per via del fatto che, sopra
una credenza del salotto buono, arredato con mobili d’epoca, argenteria e
soprammobili di pregio, erano posti dei vasi di vetro finemente decorati, colmi
di piccoli confettini bianchi ripieni di rosolio, caramelle alla liquirizia e zuccherini
colorati all’anice, che mi venivano regolarmente offerti. La zia Angelina,
invece, aveva il braccino più corto e, se andava bene, mi toccavano dei
biscottini con il tè.
Dopo
i saluti di rito e gli sbaciucchiamenti della zia e delle cugine chiesi a mia
madre di poter uscire sul ballatoio. “Sì, ma non sporgerti dalla ringhiera, può
essere pericoloso… e rimani qui sul piano”, ammonì mio padre. Appena fuori
cominciai a correre lungo gli stretti ballatoi, da un capo all’altro del
palazzo. Incrociai il vano scale e subito fui colto dall’istinto di salire le
scale fino al quarto piano, l’ultimo, il più alto. Non c’ero mai stato. Con
sguardo furtivo diedi un’occhiata alla porta della casa della zia e, sentendo
che i miei parenti discutevano amabilmente al suo interno, cominciai a salire
le due rampe di scale. Al piano superiore, nella zona centrale della ringhiera,
sapevo che abitavano due vecchie signore, anch’esse vedove, amiche della zia
Angelina: la Rusèta (Rosa, Rosetta…) e
la Teresina.
Causa
la giornata di pioggia, la Rosetta aveva lasciato appeso sul corrimano della
ringhiera il suo ombrello nero, grande, massiccio, con il manico di legno, come
usava in quel tempo.
Erano
già ormai diversi minuti che gironzolavo sui ballatori e per timore che mio
padre mi stesse cercando feci per allontanarmi dalla casa della Rosetta e
scendere al piano di sotto, quando mi venne in mente che avrei potuto fare
qualcosa con quell’ombrello. Ritornai sui miei passi, raggiunsi l’ombrello, lo
afferrai e, in una frazione di secondo, decisi che lo avrei lanciato giù in cortile. Un volo di quattro piani. Non avevo mai visto
cadere un oggetto da un’altezza simile, neanche dal palazzo dove abitavano i
miei nonni a Milano, che di piani ne aveva cinque. Detto, fatto. Ovviamente
l’ombrello si sfracellò al suolo, il manico di legno si ruppe in alcuni pezzi e
la maggior parte delle bacchettine metalliche si piegarono. Il botto richiamò
l’attenzione di alcuni residenti del primo piano che, guardando verso l’alto,
scorsero un bambinetto di 6 anni dalla testa ricciuta, che, colta al volo la mala parata, cominciò a correre giù
dalle scale e dirigersi verso la casa della zia Angelina. Entrai un po’
trafelato e mi misi a sedere vicino a mia madre, temendo le conseguenze del mio
gesto. Della Rosetta, ma soprattutto di mio padre. Non erano trascorsi più di
un paio di minuti quando dal cortile si levò una voce femminile che invitava la
zia Angelina a scendere. Ven giò un
moment. Ma il vociare dal cortile e il trambusto che si era nel frattempo
levato attirarono i miei parenti sul ballatoio, compresi i miei genitori, che
ci misero davvero poco a comprendere la dinamica dell’accaduto e a individuare
il responsabile. Che venne “salvato” dalla bontà cristiana della Rusèta, la quale, in buona sostanza, mi
definì piccolo pargoletto innocente del
Signore e che simili gesti potevano essere perdonati ad un angioletto di sei anni. Mio padre, con la faccia scura e lo sguardo severo, dopo essersi
scusato con la Rosetta, si impegnò a comprarle un ombrello nuovo. Però, precisò la vecchietta, al voeri ner col manic de legn.
Beniamino Colnaghi
sabato 16 settembre 2017
Giornate Europee del Patrimonio
Domenica 24 settembre 2017 ore 15.00
Museo Etnografico dell’Alta Brianza, Località Camporeso, Galbiate
Diventare grandi: giovani antropologi alla prova
con Marco Aime, Daniela Ferrario, Rosalba Negri
Una ricerca sui cambiamenti e i riti di passaggio nelle vite di ieri e di oggi
L’antropologo accademico, la studiosa del MEAB e l’insegnante con i suoi studenti
ne commentano le premesse e i risultati.
Info: MEAB tel. 0341.240193
Per conoscere il Meab: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2013/11/le-tradizioni-popolari-brianzole-nel.html
lunedì 11 settembre 2017
Verderio: la Madonna dell'aiuto è riapparsa
Aprendo il collegamento che segue si possono leggere alcune notizie storiche sull'affresco da poco riapparso nell'edicola di via Principale: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2015/12/verderio-la-madonna-dellaiuto-da-alcune.html
Aprendo il collegamento che segue si possono leggere alcune notizie storiche sull'affresco da poco riapparso nell'edicola di via Principale: http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2015/12/verderio-la-madonna-dellaiuto-da-alcune.html
domenica 10 settembre 2017
Folco Terzani
"Io uso il computer ogni giorno ma non ho la più pallida idea di come funzioni, l'aeroplano non so come faccia a volare, l'iPod a ricordarsi tutta quella musica o l'economia a fluttuare.
Sono circondato da meccanismi che non capisco.
Fra i sadhu invece ho riscoperto la bellezza degli elementi - l'acqua, la terra, il fuoco, l'aria.
Mi sono sentito felice camminando sulla terra, facendo il bagno nei fiumi freddi dell'Himalaya, stando accucciato accanto alle fiamme di un fuoco, respirando spazio."
Folco Terzani, A piedi nudi sulla terra, Mondadori
lunedì 4 settembre 2017
La via Francigena nei magnifici territori
della provincia di Siena
Beniamino Colnaghi
I percorsi della via Francigena nelle terre di Siena, prodotto dalla Provincia di Siena, edizione 2003, Editrice Le Balze, Montepulciano
Via Francigena, sito ufficiale: http://www.viefrancigene.org/it/
Via Francigena, Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Via_Francigena
Visitare Siena, inoltrarsi tra le colline della sua
provincia e ammirare le principali testimonianze architettoniche, artistiche e
paesaggistiche presenti sul territorio implica necessariamente il fatto di
occuparsi di una strada medievale i cui apporti culturali ed economici furono
significativi per Siena e il suo territorio. Il passaggio della Francigena nel
senese, infatti, e delle sue varianti, sia immediatamente tangenti o limitrofe
ai territori dei comuni sia integrate con il sistema della viabilità locale, generò
la nascita ed il successivo forte sviluppo di diverse tipologie di strutture
assistenziali, umanitarie e commerciali ad essa funzionali e collegate.
Prima
del Giubileo dell´anno 2000 si fece un gran parlare, molto spesso a sproposito e
con diverse deformazioni, della via Francigena. Ma la strada in questione non
può essere equiparata ad una via consolare romana, come ad esempio la via
Emilia o la via Aurelia, o, ai giorni nostri, ad un‘autostrada. Nel Medioevo
non esisteva un‘autorità che avesse il potere o fosse in grado di costruire
percorsi sovraregionali, come fu possibile per l´Impero romano. Quindi,
partendo da questo assunto, si può affermare che non è mai esistita una via Francigena
a lunga percorrenza che unisse Roma al Nord Europa. Ci furono invece diverse
varianti e possibilità, come attestano alcuni documenti medievali, che citano
occasionalmente una via o strada francigena, o francisca, o romea. Come
accennato, le possibili varianti furono molteplici. Come quella percorsa
dall´arcivescovo di Canterbury, Sigerico che, tra il 990 e il 994, superò le
Alpi al Gran San Bernardo e attraversò la Manica non lontano da Calais. Oppure,
due secoli dopo, il viaggio del re di Francia, Filippo Augusto, che, di ritorno
in patria dalla Terra Santa, percorse itinerari diversi in Toscana e superò le
Alpi al Moncenisio.
Relativamente alle origini della via Francigena,
questo itinerario comincia ad essere documentato nella prima metà dell´VIII
secolo ma, se ci limitassimo al tratto italiano, dovremmo precisare che il
percorso comincia a definirsi con i Longobardi che, per recarsi nella Tuscia e scendere nei loro possedimenti
meridionali passavano per l´Alpem
Bardonis, Monte Bardone, cioè da quel passo che in seguito sarà detto della
Cisa. Per i Longobardi questa strada ebbe un forte peso strategico perchè in
Toscana permetteva un percorso intermedio tra la costa, soggetta ad attacchi
dal mare, e i territori orientali controllati dall´Esarcato. La via che
superava il Monte Bardone mantenne grande importanza anche con l´avvento dei Franchi, tanto che da
questi in qualche maniera prese il nome. Sulla via
Francigena si viaggiava prevalentemente a piedi. Solo i piú abbienti potevano
permettersi il lusso di una cavalcatura mentre le merci venivano trasportate
con animali da soma. Le strade medievali erano spesso tortuose e ripide e i
selciati erano malridotti e i ponti stretti e insicuri. Per meglio comprendere,
in maniera eloquente, la struttura della via Francigena e chi fossero i suoi
utenti, basti osservare gli affreschi del Buon
Governo di Ambrogio Lorenzetti, contenuti nel Palazzo Pubblico di Siena.
Sul tratto senese della strada si notano i signori a cavallo con il falcone e
il seguito dei servi, ma anche il mercante con il mulo, il contadino che porta
in cittá il porco, il pellegrino ed anche il povero che chiede l´elemosina. Le difficoltà e la
lentezza del viaggio rendevano necessaria la presenza di numerosi ospizi,
secondo il principio cristiano dell´aiuto al prossimo, bisognoso di assistenza
materiale e spirituale. Nel senese furono decine e decine gli ospizi
documentati presenti sulla Francigena. Una trentina nella sola Siena. L‘ospitalità
era offerta anche da istituzioni religiose quali monasteri, pievi, canoniche.
Successivamente si diffuse un‘ospitalità che oggi potremmo definire laica, a
pagamento, quale quella delle taverne, delle osterie, delle terme, la cui
conduzione vide spesso impegnate intere famiglie.
Entrando ora nel merito
dei percorsi della strada che interessano i comuni senesi, con le eccezioni di
Volterra (provincia di Pisa) e Cortona (provincia di Arezzo), che ho ritenuto
di visitare per la loro storia e bellezza, dopo essersi infilata in Lunigiana
ed aver toccato Lucca, la Francigena si avvicina
ad un passaggio che intorno all’anno Mille era tra i più temuti: la piana del
Serchio, i boschi delle Cerbaie,
i paduli di Porcari e di Fucecchio, aree paludose oggi bonificate, l’Aqua nigra menzionata da Sigerico.
Il passaggio
dell’Arno lo si vede scorrere da un solido ponte in
muratura e se si alza lo sguardo dagli argini già si vede svettare la torre di San Miniato,
roccaforte imperiale a controllo della strada. Oltre quel
crinale si distende il mare ondulato delle colline toscane. Orizzonti
vastissimi si aprono dal crinale che si affaccia sulla Val d´Elsa,
dove si cammina seguendo fedelmente le orme dell’arcivescovo Sigerico. I
viandanti si ritrovano immersi nella solitudine dei campi di grano,
contemplando paesi lontani: Castelfiorentino, Gambassi Terme, Certaldo, una
costellazione di borghi sui crinali, i casali, le pievi romaniche tra gli ulivi
e i cipressi, poco più a sud, si cominciano a intravedere le magnifiche torri di San
Gimignano, ricordato fin dal X secolo come castello di
pertinenza della Chiesa volterrana. Due secoli più tardi la comunitá di San
Gimignano si staccò progressivamente dal dominio politico di Volterra, avviando
la formazione di un proprio distretto. Tra varie difficoltà e apposizioni di
ostacoli da parte di Firenze e Siena, nei primi anni del Trecento la città fu
teatro di una grande espansione mercantile e di operazioni finanziarie di ampio
raggio che, però, non ressero a lungo alla forte pressione e ingerenza
fiorentina e alla grave crisi internazionale che iniziò verso la metà del
Trecento. La crescita urbana della città ebbe un arresto definitivo. Ma l‘immobilismo
dei secoli e drastiche operazioni di tutela del patrimonio monumentale hanno
creato le premesse per la fortuna di oggi, tanto da poterci consentire di
ammirare una cittá che ha pochi eguali al mondo.
San Gimignano
Poc‘anzi ho accennato al
fatto che Volterra meriti senz‘altro una visita, in primis per la sua bellezza e per la vicinanza a San Gimignano, e
poi perchè essa, seppur non interessata direttamente dal passaggio della
Francigena, estese storicamente il suo territorio e il dominio proprio su zone
oggi appartenenti alla provincia di Siena.
Volterra
Il percorso della Francigena descritto da Sigerico poco più a sud di San
Gimignamo entra nel territorio comunale di Colle di Val d´Elsa, la quale si vide
certamente favorita e beneficiata da tale passaggio, sia dal punto di vista
dello sviluppo economico sia dall‘incremento demografico. Nel corso del
Medioevo Colle mantenne dapprima una politica di equilibrio tra le due città
egemoni della Toscana, Siena e Firenze, per poi avvicinarsi sempre più a quest´ultima.
Numerosi sono i monumenti di un certo interesse presenti sul suo territorio,
soprattutto a Colle Alto, sviluppatosi lungo la sottile cresta di una scoscesa
collina.
L´estremitá
sud-occidentale del comune di Castellina in Chianti era interessata da un
percorso della Francigena proveniente da Poggibonsi che correva sulla destra
del torrente Staggia, il quale vedeva la presenza di alcuni ospizi. Nei primi
anni del Duecento il territorio di Castellina entrò a far parte anch‘esso dell‘influenza
di Firenze, assumendo un ruolo importante nel sistema difensivo del confine
meridionale, in contrapposizione al castello senese di Monteriggioni. Alla metà
dello stesso secolo fu posta a capo di uno dei terzieri che formavano la Lega
del Chianti. Situata sulla cresta di una collina, in posizione panoramica a
dominio delle valli della Pesa, dell‘Arbia e dell‘Elsa, Castellina venne
fortificata e potenziata, ad opera dei Fiorentini, nella cinta muraria, con
torri mozzate a pianta quadrata.
Castellina in Chianti
Se Castellina ebbe il
compito di difendere da sud il contado fiorentino, Monteriggioni nacque come
baluardo della frontiera a nord dello Stato senese. Tutti i percorsi della
Francigena a nord di Siena confluivano nell´attuale circoscrizione comunale,
per poi unirsi poco prima di raggiungere la città. Il tratto della Francigena
che raggiunge Monteriggioni, proveniente da San Gimignano e Colle Val d´Elsa, è
senza alcun dubbio di grande bellezza paesaggistica e particolarmente ricco di
testimonianze storiche e architettoniche. Monteriggioni, celebre per via della
cinta muraria circolare, con quattordici torri quadrilatere, presenta un asse
viario principale alle cui estremità si
aprono due porte. Al centro è una vasta piazza su cui si affaccia la pieve di
Santa Maria, di forme romanico-gotiche.
Monteriggioni
Pochi chilometri di
percorrenza verso sud ed eccoci a Siena, punto importante di convergenza dei
vari percorsi francigeni. Siena, la colonia romana Sena Julia, emblema della via Francigena e una delle maggiori cittá
del Medioevo, la cui fortuna e prosperità fu gran parte legata alla via stessa,
che vi entrava a nord da Porta Camollia e usciva a sud da Porta Romana, quella
raffigurata dal Lorenzetti nel Buon Governo. Le torri, piazza del Campo, il
Duomo e l´inconfondibile profilo della cittá accompagnavano a lungo i viandanti
e i pellegrini mentre si dirigevano verso Roma, inoltrandosi in un percorso più
netto, anche se vi potevano essere delle varianti. Due di queste si dirigevano,
l‘una verso Isola d‘Arbia, Monteroni, Lucignano d‘Arbia, Buonconvento e giù giù
fino a San Quirico d‘Orcia, punti fissi della Francigena, l‘altra verso Taverne
d‘Arbia, Vescona e Asciano, nel cuore delle Crete Senesi, una via bellissima,
tutta di crinale, tra panorami immensi e dolcissime colline di argilla
coltivate a grano.
Siena
Da Asciano, volendo ricongiungersi con la Francigena in
direzione Buonconvento, come un‘oasi nel deserto, racchiusa entro il verde
immenso di un bosco di cipressi, improvvisamente appare Monte Oliveto, grande
monastero fondato nel 1319 per iniziativa di alcuni nobili senesi che in questo
luogo si erano da tempo ritirati a vita eremitica. In seguito divenne il centro
di un‘importante e vasta congregazione religiosa. Tutt‘ora è sede di una
numerosa congregazione di monaci benedettini.
Abbazia di Monte Oliveto Maggiore
Superato Buonconvento
verso sud, solo l´estremo lembo nord-orientale del territorio di Montalcino è
interessanto dal passaggio della Francigena. Comune autonomo dalla fine del XII
secolo lottò per tutto il Duecento a difesa della sua indipendenza contro le
mire espansionistiche di Siena, che ebbe la meglio nel secolo successivo. L‘importanza
della città nell‘età medievale è testimoniata da numerosi monumenti, tra i
quali la Rocca, il Palazzo Comunale, il Duomo e numerose chiese.
La strada che da
Montalcino porta a San Quirico d´Orcia offre belle vedute sulle dolci colline
delle valli dell‘Asso e dell‘Orcia, con squarci di paesaggio tra i più
fotografii della Toscana. Sede di una pieve ricordata fin dall‘età longobarda,
il castello di San Quirico assunse notevole importanza nel corso del XII
secolo, quando divenne residenza dei funzionari dell‘Impero. Quale ultimo
grande castello prima di uno dei tratti più insicuri dell‘intero percorso, San
Quirico, sede di numerosi ospizi per pellegrini e viandanti, costituì una delle
principali tappe lungo la strada. La stessa struttura urbana si è in gran parte
sviluppata lungo la Francigena, da Porta Camaldoli a Porta Ferrea, oggi
entrambe scomparse. Da ricordare che nel 1154 Federico Barbarossa stabilì qui
il proprio accampamento per trattare con i messaggeri di Papa Adriano IV i
termini della propria investitura ad imperatore. Anche in epoca moderna San
Quirico ha visto passare tra le sue mura principi e imperatori, religiosi,
eserciti e pellegrini, tra i quali i papi Pio VI e Pio VII, quest‘ultimo mentre
si recava a Parigi per l‘incoronazione di Napoleone Bonaparte.
San Quirico d'Orcia
Ad est di quest‘ultima località
troviamo due importanti città della provincia senese, Pienza e Montepulciano.
La prima, molto vicina al passaggio principale della Francigena deve il suo
nome e la sua fama a Enea Silvio Piccolomini, Papa Pio II, che nel 1459 concepì
l‘idea di sperimentare i nuovi sentimenti e i nuovi ideali estetici
dell´Umanesimo nel castello di Corsignano, dove lui stesso ebbe i natali. Nel
giro di pochi anni elevò il castello a sede episcopale, ne cambiò il nome,
obbligò i cardinali al suo seguito a costruirvi proprie residenze e dette
l´incarico al Rossellino di mettere a punto il progetto, che si fermò alla
morte di Pio II. Fulcro estetico ed urbanistico del grande progetto è piazza
Pio II, dalla singulare forma trapezoidale, con il Duomo, dalla facciata
rinascimentale in travertino, e i palazzi che la circondano, tra i quali il
Palazzo Piccolomini, il Palazzo Pubblico e il Palazzo Borgia.
Pienza
Montepulciano, anche se distante
una ventina di chilometri dalla Francigena, merita senz´altro una visita. Per
rendersi conto della bellezza e della storia della città, basti iniziare la
visita dalla piazza Grande, centro monumentale ed insieme alla Rocca elemento
emergente del suo impianto insediativo. L’architettura degli edifici attuali
risale al rinnovamento prodottosi in città nei secoli XV e XVI e mostra gli
influssi delle correnti culturali del Rinascimento fiorentino e romano. Il
Palazzo Comunale, Palazzo Contucci Del Monte, il Duomo e il pozzo meritano
particolare attenzione. E poi conviene percorrere le diverse stradine che
contengono numerosi segni e testimonianze della gloriosa storia di
Montepulciano.
Montepulciano
A sud di San Quirico ai viandanti si aprivano piú
possibilitá per superare il monte Amiata, al fine di dirigersi verso Radicofani,
Piancastagnaio a sud-ovest e San Casciano dei Bagni a sud-est. A sud di questi
tre comuni, in localitá Ponte del Rigo, confluivano tutti i percorsi di quel
fascio di strade che caratterizzava l´andamento della Francigena tra la Val
d´Orcia e l´ingresso nel Patrimonio di San Pietro, cosí come oggi segna il
confine tra la Toscana e il Lazio. Da qui passava il piú antico percorso della
strada, quello di fondovalle, attestato dall´arcivescovo Sigerico e rimasto in
uso fino alla fine del Cinquecento.
Qui la via Francigena entra
nel Lazio e prosegue verso Roma. E qui termina il mio viaggio. Beniamino Colnaghi
Note
e bibliografia
Le fotografie che corredano l’articolo sono state
scattate nel mese di giugno 2017I percorsi della via Francigena nelle terre di Siena, prodotto dalla Provincia di Siena, edizione 2003, Editrice Le Balze, Montepulciano
Via Francigena, sito ufficiale: http://www.viefrancigene.org/it/
Via Francigena, Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Via_Francigena
Iscriviti a:
Post (Atom)