Il caso Pier Paolo Pasolini (5 marzo
1922 – 2 novembre 1975)
di Gianni Borgna e Carlo Lucarelli, pubblicato su MicroMega 6/2005
Una ricostruzione minuziosa, attraverso fatti e testimonianze, di quel 2
novembre 1975 in cui fu ucciso Pasolini, e delle incongruenze delle
ricostruzioni ufficiali e ufficiose che vorrebbero spiegare l’omicidio. Fino a
questa clamorosa e documentata ipotesi, l’unica che fa andare al suo posto
tutti i pezzi del terribile puzzle: un omicidio politico premeditato.
Prologo:
l’arresto di Pelosi
È l’una e mezzo di notte del 2 novembre
1975 e sul lungomare Duilio di Ostia, un chilometro e mezzo prima di piazzale
Cristoforo Colombo, c’è una gazzella dei carabinieri in servizio di pattuglia.
All’improvviso, un’Alfa 2000 GT, una bella macchina, gli passa davanti a tutta
velocità, contromano e in senso vietato. Non si ferma all’alt, e così i
carabinieri fanno inversione di marcia e si lanciano all’inseguimento.
Raggiungono l’Alfa all’altezza di uno stabilimento balneare, la stringono
contro la carreggiata e la costringono a rallentare e a fermarsi.
Dalla gazzella scende un appuntato, che va a vedere chi c’è in quella macchina
e perché sta correndo così, ma non fa in tempo a distinguere il conducente che
all’improvviso l’Alfa riparte e cerca ancora di scappare. L’appuntato rimonta
in macchina e di nuovo la gazzella si lancia all’inseguimento su quella strada
del lungomare di Ostia.
Raggiungono di nuovo l’Alfa, la stringono contro il marciapiede e questa volta
l’appuntato tira fuori il mitra e lo fa vedere, e l’Alfa si ferma. Sembra la
scena di un film, uno di quei polizieschi all’italiana che si vedevano in
quegli anni, negli anni Settanta, Roma violenta, o Il trucido e lo sbirro, ma
non è un film, è cronaca, cronaca vera, e dall’auto non scende un attore o uno
stunt-man, non scendono Thomas Milian o Maurizio Merli, ma un ragazzo
spaventato che cerca ancora di scappare, a piedi, ma viene subito preso dai
carabinieri, che gli girano un braccio dietro la schiena e gli mettono le
manette.
Il ragazzo si chiama Pino Pelosi, detto Pino la Rana, ha 17 anni e ha qualche
precedente per furto.
Perché scappava? Intanto è minorenne, e non potrebbe neppure guidarla,
quell’auto. E poi dice di averla rubata, l’ha presa vicino al cinema Argo, nel
quartiere Tiburtino, a Roma, vicino a dove abita. Ad Ostia c’è andato per
accompagnare un amico, poi ha visto i carabinieri, ha avuto paura ed è
scappato. Sanguina da una ferita, perché ha battuto la testa contro il volante
mentre stava scappando.
E l’auto? L’auto di chi è? Lo dicono i documenti della macchina, la carta di
circolazione. È di Pier Paolo Pasolini, uno scrittore, un poeta, un regista del
cinema. Uno famoso. Pino Pelosi ha rubato la macchina di un personaggio noto.
Alle cinque del mattino Pino Pelosi viene portato al carcere minorile di Casal
del Marmo. Prima, però, insiste perché i carabinieri tornino alla macchina, a
cercare qualcosa, un pacchetto di sigarette e un accendino e anche un anello
d’oro con una pietra rossa e la scritta: «United States Army».
Ha anche il segno dell’anello attorno al dito, e lo fa vedere ai carabinieri,
che lo aiutano a cercare.
Però non trovano niente. Poi, Pelosi viene portato in carcere e l’Alfa 2000
alla rimessa e lì i carabinieri si accorgono che dentro c’è anche un pullover
verde, un vecchio maglione usato e piuttosto logoro. È sul sedile posteriore,
assieme al giubbotto e al maglione di Pino Pelosi, e ad altri indumenti. C’è
anche un plantare, uno solo, per scarpa destra.
L’Alfa 2000 nella rimessa, il ladro in galera. Alle tre di notte i carabinieri
avvertono i genitori di Pelosi. Vostro figlio è dentro per furto d’auto. Lo
potete andare a trovare domani mattina al carcere minorile di Casal del Marmo. Caso
risolto, un furto sventato prima ancora che fosse compiuto.
E invece c’è qualcos’altro. In carcere, appena arrivato, Pino Pelosi parla con
il suo compagno di cella. È inutile nasconderlo, perché tanto prima o poi lo
scopriranno, così gli dice cos’ha fatto.
Ha ammazzato Pasolini.

Pier Paolo Pasolini
I
fatti: il luogo del delitto
Alla foce del Tevere, vicino ad Ostia,
c’è una spianata in una zona che si chiama Idroscalo. È una zona popolare, un
po’ degradata, piena di casette abusive che sono poco più di baracche.
Il corpo di quell’uomo si trova proprio lì, vicino ad una stradina in terra
battuta che unisce Ostia a Fiumicino. In mezzo ad un campetto da calcio chiuso
da una recinzione. Vicino a lui, e sotto di lui, ci sono pezzi di legno
insanguinati, ciocche di capelli e un anello, un anello con una pietra rossa e
la scritta: «United States Army». Poco lontano, vicino alla porta del campetto
da calcio, c’è una camicia di lana, a righe, imbrattata di sangue, molto
sangue, sul dorso e sulle maniche. E una tavoletta imbrattata di sangue e di
capelli.
E un’altra, rotta in due pezzi, con sopra scritto «via dell’Idroscalo». Ci sono
anche tracce di pneumatici che dalla porta del campetto arrivano fino all’uomo.
E poi c’è lui, l’uomo. È steso in avanti, con la tempia e la guancia sinistra
appoggiate a terra, il braccio destro scostato dal corpo e quello sinistro
sotto. Indossa una canottiera parzialmente sollevata sul dorso, con un solo,
piccolo strappo, e calzoni abbottonati alla cintola, con la cintura slacciata e
la cerniera abbassata. La prima persona
ad accorgersi di lui, alle sei e trenta del mattino, è la signora Maria Teresa
Lollobrigida. È appena arrivata lì con il marito, perché sono «proprietari» di
una di quelle baracche. Crede che quella macchia informe a pochi passi da lei
sia dell’immondizia e sta per imprecare quando si accorge che si tratta invece
di un cadavere.
Chiamano subito la polizia, che arriva in un quarto d’ora. Il commissario
Vitali di Ostia si rende immediatamente conto che quell’uomo è stato massacrato
come difficilmente si può immaginare. È coperto di sangue, ha ecchimosi e
profonde escoriazioni sulla testa, sulle spalle, sul dorso e sull’addome, ha
fratture alle falangi della mano sinistra e dieci costole spezzate. Ha profonde
escoriazioni al volto e il naso schiacciato verso sinistra. È stato massacrato,
con una ferocia impensabile.
Il commissario, stupito, crede di riconoscere in quel grumo di sangue Pier
Paolo Pasolini. Un poeta, uno scrittore, un regista, che tutta l’Italia
conosce. Vicino a lui scorge anche un anello in oro giallo sormontato da una
pietra rossa. Lo prende e se lo mette in tasca. Alle sette e trenta arriva sul
posto il dottor Fernando Masone, capo della squadra mobile di Roma. Alle otto e
tre quarti, infine, il dottor Carlo Iovinella. In quel momento i carabinieri
hanno per le mani un ladro di auto, mentre la polizia è alle prese con un
cadavere, che non è ancora chiaro come sia arrivato fin lì. L’unica cosa certa
è che si tratta proprio di Pasolini, perché alle dieci del mattino l’attore
Ninetto Davoli, uno dei suoi amici più cari, ne effettua il riconoscimento.
Ma a quel punto le tessere del mosaico cominciano a combaciare. E di lì a poco
Pino Pelosi decide di confessare.
I
fatti: le indagini e la confessione di Pelosi
Ore 22.30: piazza dei Cinquecento, a
Roma, proprio davanti alla stazione Termini. «Mi trovavo con gli amici
Salvatore, Claudio e Adolfo», è Pino Pelosi a raccontare il suo incontro con
Pier Paolo Pasolini, quella notte. Adr, c’è scritto sul verbale, A domanda
risponde.
Ore 22,30: Pelosi è lì fermo assieme ai suoi amici davanti al chiosco di un bar
quando si avvicina un’Alfa 2000 grigio metallizzata. Scende un uomo che va a
parlare con uno dei ragazzi, Adolfo. Gli dice: «Ci facciamo un giro?» e Adolfo
ride, ma non ci sta. Allora l’uomo si avvicina a Pino e gli fa la stessa
proposta. «Vuoi venire a fare un giro con me che ti faccio un regalo?».
Pino è giovane, ma è «scampanato», come dice lui stesso, non è uno che dorme,
capisce la situazione e sa cosa vuole quell’uomo. Però accetta, e sale con lui.
La macchina si dirige in direzione di via Nazionale. L’uomo chiede a Pino se ha
delle particolari preferenze su dove andare, e Pelosi gli risponde di avere
fame. Al che l’uomo dichiara di conoscere una trattoria che di solito è ancora
aperta a quell’ora. Pino propone all’uomo di ritornare al bar per prendere le
chiavi di casa e della macchina. L’uomo è contrariato, dato che sono ormai
distanti dalla stazione, ma alla fine acconsente e torna indietro. È passata
almeno mezz’ora quando i due si riaffacciano dalle parti di piazza Esedra. Pino
chiede le chiavi di casa e dell’auto a Claudio, dicendogli che, se avesse fatto
tardi, lui avrebbe potuto prendere la macchina, dato che aveva altre chiavi, e
che avrebbe potuto lasciarla sotto casa sua, dove lui, Pino, l’avrebbe poi
potuta riprendere.
Finalmente i due si indirizzano verso la trattoria Biondo Tevere, dalle parti
della basilica di San Paolo, dove l’uomo è conosciuto e sicuramente riapriranno
la cucina per lui. E infatti, tutti lo conoscono e lo salutano, perché
quell’uomo è Pier Paolo Pasolini, uno famoso, ma Pino non lo conosce, non
l’aveva mai visto prima, per lui è soltanto Paolo.
Pino mangia, spaghetti aglio, olio e peperoncino e petto di pollo, Paolo no,
beve una birra e gli fa tante domande, vuole sapere chi è, cosa fa, come vive,
si interessa, con curiosità, quasi con passione. Restano nella trattoria fino
alle 23,30, poi escono, Paolo fa benzina in un self-service e poi prende una
strada alberata, verso Ostia, la via Ostiense. Dice a Pino che andranno in un
luogo isolato, che faranno qualcosa e che lui gli darà 20 mila lire.
È Pino Pelosi che parla, A domanda risponde. Teniamoci a mente quello che dice,
e teniamoci a mente i luoghi. Piazza dei Cinquecento, davanti alla stazione
Termini. La trattoria Biondo Tevere, vicino alla basilica di San Paolo. Via
Ostiense, fino all’Idroscalo di Ostia, il luogo appartato. Ore 24,00. L’Alfa
2000 si apparta nel campetto da calcio, vicino alla porta.
Inizia un rapporto sessuale che però si interrompe. È sempre Pino Pelosi che
racconta. Pino esce dalla macchina, si avvicina alla recinzione e quell’uomo,
Paolo, lo segue. Vuole da lui qualcosa che Pino non vuole fare, e quando Pino
si ribella lui diventa violento. Prende un bastone e ha una faccia da matto che
gli fa paura. La recinzione sta a 20 metri dalla macchina. Pino scappa e quell’uomo
gli corre dietro. Altri 50 metri. Pino ha un paio di scarpe con i tacchi un po’
alti, come usavano allora, negli anni Settanta, scivola e cade sulla schiena.
L’uomo lo raggiunge e quando Pino cerca di divincolarsi lo colpisce alla testa
col bastone, Pino scappa ancora e l’uomo lo colpisce di nuovo. Allora Pino vede
per terra una tavoletta e la rompe sulla testa dell’uomo, poi lo colpisce con
due calci al basso ventre, gli afferra i capelli e lo colpisce anche in faccia,
con altri due calci, ma niente.
Pino dice che l’uomo barcolla ma non si arrende, ringhia «ti ammazzo», e
colpisce Pino con il bastone. Allora Pino perde il controllo e lo colpisce con
la tavoletta finché Paolo non cade a terra.
Poi? Sempre Pino, A Domanda Risponde. Scappa verso la macchina portando con sé
i due pezzi della tavoletta e il bastone insanguinato, che getta vicino alla
rete di recinzione. Poi sale in macchina e scappa con quella. Nell’andarsene
sente l’auto sobbalzare, ma non sa perché, sarà un’asperità del terreno, una
cunetta, una buca. Si ferma alla fine della strada ad una fontanella per
sciacquarsi dal sangue e poi riparte. Ore 1,30, lungomare Duilio di Ostia. La
gazzella dei carabinieri vede passare l’Alfa 2000, di corsa e contromano, e inizia
l’inseguimento.
A Domanda Risponde, sempre le stesse cose, in cinque interrogatori diversi,
senza contraddizioni. Tutto chiaro e tutto semplice. Tutto molto verosimile.
Pier Paolo Pasolini è stato ucciso da un ragazzo che aveva adescato per avere
un rapporto omosessuale a pagamento. Caso chiuso.
I
fatti: quello che non torna
Ma sono in tanti a dubitare della
verità proposta dalla polizia, anche perché, appunto, troppo verosimile per
essere vera, troppo «pasoliniana»: i familiari di Pasolini, Graziella
Chiarcossi, sua cugina, che con Pasolini divide l’appartamento; gli amici Laura
Betti e Sergio Citti; gli avvocati di parte civile Nino Marazzita e Guido
Calvi; e persino gli avvocati di Pelosi, Tommaso e Vincenzo Spaltro, che
affermano: «Noi concordiamo con le notizie date dall’Europeo che sul posto del
delitto c’erano delle altre persone. La storia raccontata dalla Fallaci ci
persuade in questo senso: noi siamo convinti che Giuseppe Pelosi non è
l’assassino, per la semplice ragione che non ha la capacità fisica né psichica
di commettere un omicidio». Pino la Rana, a questo punto, li estromette
inopinatamente dall’incarico, dopo un insolito colloquio in carcere con i suoi
genitori.
Insomma, ci sono un sacco di cose che non convincono. A partire dalle indagini
compiute in fase istruttoria.
Sono in tanti a dubitare di quelle indagini. Già lo avevano fatto, appunto, i
giornalisti, fin dal primo momento. Oriana Fallaci ed altri giornalisti del
settimanale L’Europeo conducono anche una controinchiesta.
Salta fuori un testimone che dice che Pasolini era entrato in una baracca con
Pino Pelosi e due motociclisti, che poi lo avevano inseguito fino al campetto,
colpendolo con una catena.
Arriva un altro testimone, un omosessuale che frequenta il giro della
prostituzione, e che dice che Pasolini è stato ucciso perché faceva troppe
domande sul racket dei ragazzi di vita. Ne arriva un altro ancora, «il ragazzo
che sa» lo chiama la Fallaci, che dice che Pasolini è caduto in un agguato
organizzato per rapinarlo e che è stato ucciso per avere reagito. «Gli volevano
solà er portafoglio» dice il testimone ai giornalisti, prima di scappare via.
Sono dichiarazioni strane. Non reggono molto neppure quelle. I testimoni
individuati dalla polizia ritrattano, uno fa risalire le sue informazioni a
fonti «parapsicologiche», di altri la Fallaci e i giornalisti non vogliono
rivelare l’identità. Ma i punti in discussione riguardano soprattutto la
conduzione delle indagini. Quando la polizia arriva sulla spiaggia
dell’Idroscalo, alle sei e quarantacinque di quella domenica mattina, trova
accanto al corpo di Pasolini una piccola folla di curiosi. Nessuno li
allontana, e gli agenti lasciano perfino che alle nove un gruppo di ragazzi in
maglietta e calzoncini giochi una partita sul campetto vicino. Non è una zona
interessata dai rilievi, dice la polizia. No, dicono i giornalisti, il campetto
era a pochi metri, tanto che a volte la palla arriva sul luogo del delitto e
sono gli stessi agenti a rilanciarla ai ragazzi con un calcio. E dietro la porta
del campetto, dicono i giornalisti, ci sono pezzi di legno macchiati del sangue
di Pasolini e la sua camicia intrisa di sangue, che sta in un posto strano, a
70 metri da dove è stato ritrovato il corpo. Comunque sia, tutta quella gente
che cammina sul luogo del delitto rende impossibile rilevare eventuali tracce
di passi o di pneumatici. È una scena del delitto veramente confusa, quella,
con molti reperti raccolti senza che ne venga segnata correttamente la
posizione precisa.
E poi c’è la macchina. La macchina resta nella rimessa dei carabinieri per
parecchi giorni e viene consegnata alla scientifica soltanto il giovedì. È
rimasta lì per quattro giorni, aperta e sotto la pioggia, finché non viene
messa sotto una tettoia e nel farlo l’autista che la sposta va anche a sbattere
contro un palo. C’è qualcosa di interessante in quell’auto, ci sono un maglione
e un plantare per scarpa che non appartengono a Pasolini, il maglione è di
taglia diversa e la famiglia non lo riconosce, e di plantari Pasolini non ne ha
mai portati. Non appartengono neanche a Pelosi e nella macchina ci sono finiti
il giorno dell’omicidio, perché prima l’auto era stata lavata e ripulita
accuratamente.
E c’è un’altra cosa. C’è una macchia di sangue sul tetto dell’Alfa 2000, come
se qualcuno ci si fosse appoggiato con la mano sporca di sangue per aprire la
portiera.
La portiera è quella di destra, quella del passeggero, non quella da cui si
entra per guidare.
E poi c’è la perizia del medico legale di parte civile. Inizialmente la morte
di Pasolini era stata attribuita a dissanguamento. La parte civile, la famiglia
di Pasolini, affida la perizia al professor Faustino Durante, medico chirurgo,
docente dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Roma.
Pier Paolo Pasolini è morto perché la sua auto gli è passata sopra,
fratturandogli dieci costole e lo sterno, lacerandogli il fegato e facendogli
scoppiare il cuore. Nelle fotografie ci sono le tracce dei pneumatici che
arrivano fino al suo corpo e gli passano sopra.
Prima, però, è stato massacrato. In quel campetto all’Idroscalo ci sono alcuni
oggetti sporchi del sangue e dei capelli di Pasolini, due paletti e due
tavolette di legno, e infatti quattro o cinque ferite sono state provocate da
quelli. Ma le altre? Tutto quel massacro? I colpi alla testa? Per il professor
Durante Pasolini è stato colpito con qualcosa di molto più resistente e pesante
di qualche pezzo di legno fradicio e friabile. Il professor Durante fa notare
un’altra cosa. Pasolini è coperto di sangue, «un grumo di sangue», l’hanno
definito. Ma Pino Pelosi no. Ha soltanto una macchia di sangue su un polsino,
un’altra sui calzoni e un’altra sotto una suola. Non si spiega. Va bene, si è
lavato le mani alla fontanella in fondo alla strada, ma non basta. Non si
spiega.
Come non si spiega che Pasolini non abbia reagito all’aggressione, perché
Pelosi, a parte una piccola escoriazione sulla fronte che si è fatto sbattendo
con la testa sul volante quando lo hanno fermato i carabinieri, non ha lividi o
ferite. Eppure Pasolini è un uomo forte e dinamico, uno che pratica sport, che
gioca a calcio, uno che avrebbe reagito, in una colluttazione. E Pino Pelosi
non è un gigante, è un ragazzo di 17 anni, alto 1 metro e 71, e di 60 chili di
peso.
I
fatti: la perizia del professor Durante
Per il professor Durante e per gli
avvocati di parte civile la dinamica dell’omicidio di Pier Paolo Pasolini non è
quella raccontata da Pino Pelosi. Pino la Rana non era solo.
Arrivano altre persone, che trascinano fuori Pasolini dall’auto e lo
aggrediscono, lo picchiano, lo colpiscono con oggetti contundenti.
Pasolini cerca di difendersi coprendosi la testa, come dimostrano le maniche
della camicia imbrattate di sangue, se la toglie anche, lui stesso, perché la
camicia è intatta, e cerca di tamponarsi le ferite con quella. Ma l’aggressione
continua, Pasolini cerca di scappare, lascia lì la camicia, ma viene raggiunto
e ancora massacrato. Prende un calcio al basso ventre così forte che gli
impedisce qualunque altra reazione. Qualcuno, uno degli aggressori che entra
dalla parte del passeggero, oppure Pelosi che si appoggia alla macchina, non
certo Pasolini, che è stato aggredito troppo lontano dall’auto, lascia quella
macchia di sangue sulla carrozzeria.
Poi gli aggressori di Pasolini se ne vanno, Pelosi monta in macchina e facendo
manovra passa sul corpo di Pasolini, forse senza volerlo, e gli fa scoppiare il
cuore.
I
fatti: il processo di primo grado
Il processo a Pino Pelosi, imputato di
«omicidio nella persona di Pasolini Pier Paolo» si apre il 2 febbraio 1976
presso il Tribunale per i minorenni di Roma, perché Pino Pelosi non ha ancora
diciott’anni. La famiglia di Pasolini, con gli avvocati Guido Calvi e Nino
Marazzita, si costituisce parte civile, per poter seguire le indagini e il
processo.
Pino Pelosi siede sul banco degli imputati come autore dell’omicidio, da solo e
in quel modo, secondo quanto ha ammesso lui stesso e secondo quanto è emerso
dalle indagini della polizia. La confessione e le indagini. Ma c’è qualcosa che
non va. Il processo, un processo così semplice, l’omicidio di un omosessuale
che voleva rimorchiare un ragazzino, si rivela molto più complesso. E pieno di
colpi di scena. A presiedere il Tribunale per i minorenni di Roma c’è un
magistrato che si chiama Alfredo Carlo Moro, ed è il fratello del presidente
della Democrazia cristiana Aldo Moro. È un magistrato zelante, il presidente
Moro, esamina tutti gli atti assieme ai magistrati che compongono la giuria,
respinge la richiesta di considerare Pino Pelosi incapace di intendere e di
volere avanzata dalla difesa sulla base della perizia del professor Aldo
Semerari, un criminologo dalla biografia molto particolare, che spesso
incrocia fatti relativi alla strategia della tensione e che poi verrà ucciso
dalla camorra. Il 26 aprile 1976 il presidente Moro pronuncia la sentenza. Pino
Pelosi viene condannato a nove anni, sette mesi e dieci giorni e a 30 mila lire
di multa per atti osceni, furto aggravato e omicidio volontario nella persona
di Pasolini Pier Paolo.
Ma attenzione, non è tutto qui. «Ritiene il collegio», dice il presidente Moro,
«che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte
all’Idroscalo il Pelosi non era solo». Quel maglione e quel plantare ritrovati
nella macchina che non appartengono né a Pasolini né a Pelosi. Impronte di
scarpe rinvenute sul luogo del delitto, lontano dalla zona calpestata dai
curiosi, che non appartengono né a Pelosi né a Pasolini. Il sangue sul tetto
della macchina dalla parte del passeggero, la dinamica del delitto ricostruita
dal professor Durante. A massacrare Pier Paolo Pasolini in quel modo, secondo
il Tribunale, non c’era soltanto Pino la Rana. C’erano anche altre persone.
Rimaste ignote.
I
fatti: i processi di secondo e terzo grado
L’imputato e il procuratore generale si
appellano alla sentenza. Il 4 dicembre 1976 la sezione per i minorenni della
Corte d’Appello di Roma assolve Pino Pelosi dall’imputazione di atti osceni e
furto, ma conferma la condanna per omicidio. Attenzione, però. Riesaminati
tutti gli elementi che avevano convinto il presidente Moro, la nuova Corte
ritiene «estremamente improbabile, per tutte le cose dette, che Pelosi possa
avere avuto uno o più complici». A massacrare e uccidere Pier Paolo Pasolini,
quella notte all’Idroscalo, c’era soltanto lui, Pino la Rana.
Il 26 aprile del 1979 la Corte di cassazione conferma la sentenza. Caso chiuso.
Pier Paolo Pasolini è stato ammazzato da Pino Pelosi. Da lui e basta.
Una brutta storia, una storia di prostituzione e di violenza. Un delitto tra
omosessuali. Una cosa da dimenticare in fretta.
I
fatti: Pelosi parla di nuovo
Sempre la stessa versione, senza mai un
cambiamento, una contraddizione, niente. Per trent’anni.
Fino al maggio del 2005. Quando succede qualcosa.
Il programma si chiama Ombre sul giallo, e va in onda su Rai3. Alla conduttrice
Franca Leusini e alla presenza dei due ex avvocati di parte civile Guido Calvi
e Nino Marazzita, Pino Pelosi dice di non essere lui l’assassino di Pasolini.
Ad ucciderlo sono stati tre uomini, tre uomini che lui non conosce, che
parlavano con un accento del Sud, siciliano, o calabrese. Lui era andato
all’Idroscalo con Pasolini per compiere un atto sessuale, poi era sceso dalla
macchina per orinare contro la rete. A quel punto spuntano dal nulla tre
persone, una aggredisce lui, lo picchia e lo minaccia. Le altre due afferrano
Pasolini, lo tirano fuori dalla macchina e lo massacrano. «Fetuso», gli
gridano, «frocio», «sporco comunista». Non sono stato io, dice Pelosi, non l’ha
neanche toccato Pasolini. Sono state tre o più persone che l’hanno massacrato,
all’improvviso, tre sconosciuti. Pasolini l’hanno ammazzato, lui l’hanno
lasciato andare, è montato in macchina ed è partito, non vedeva niente, c’era
tutta acqua, è passato sopra Pasolini senza accorgersene. Prima di lasciarlo
andare, però, quelle persone lo hanno minacciato. Fatti gli affari tuoi, stai
zitto e non parlare.
Ci sono alcuni punti oscuri nel suo racconto, alcune contraddizioni, che gli
vengono fatte notare. Se non è stato lui ad aggredirlo, come c’è finito il suo
anello vicino al corpo di Pasolini? Se quando è scappato in macchina non si era
accorto di essere passato sopra il suo corpo, perché appena l’hanno arrestato
ha detto «ho ammazzato Pasolini» al suo compagno di cella? E se davvero non
conosceva le persone che l’hanno minacciato, e loro, come dice lui, non si sono
più fatti vivi per rinnovare le minacce, perché si è fatto tutti quegli anni di
carcere senza dire niente? Pino Pelosi non ricorda, l’anello deve essergli
caduto quando è andato a vedere come stava Pasolini, per il resto non sa, era
giovane, era sconvolto, aveva paura.
Che siano vere del tutto o anche soltanto in parte, le affermazioni di Pino
Pelosi, dell’unico imputato del delitto, reo confesso e condannato per una pena
interamente scontata, cambiano molte cose. Cambia Pasolini, intanto.
Trasgressivo, scandaloso, eccessivo, qualunque cosa, ma non un violento, non
un uomo che viene ucciso dalla reazione di un ragazzino di diciassette anni a
cui stava usando violenza. E poi cambiano anche molte altre cose. Perché, finché
era stato Pelosi ad uccidere Pasolini, Pino la Rana e basta, allora era un
conto, ma se non è stato lui e le cose sono andate, anche solo in parte, in
modo diverso, allora si aprono altri scenari e possono saltare fuori altri
moventi. Per cercare di capirci qualcosa bisogna ricominciare tutto da capo.
Tornare indietro e ripartire proprio da quegli anni, gli anni Settanta. Il
novembre del 1975.
Le
ipotesi: un delitto ‘semplicemente’ politico
Sono gli anni Settanta, è il 1975 e la
politica, da qualcuno, a destra, a sinistra e nello Stato, è intesa come
violenza, quella delle stragi, del terrorismo, o anche quella diffusa che
insanguina le strade. Soltanto in quell’anno le vittime della violenza diffusa
sono otto, come Sergio Ramelli, a cui alcuni militanti di estrema sinistra
spaccano la testa con una chiave inglese, come Alberto Brasili, accoltellato da
giovani di destra perché attraversa una zona nera vestito «da comunista», o
come Gianni Zibecchi, investito da un camion dei carabinieri durante una manifestazione.
Sono delitti politici, ma sono delitti politici anche altri, che più che al
campo della cronaca o del giallo sembrano appartenere direttamente a quello
dell’orrore. Come il massacro del Circeo, nel settembre del 1975, quando un
gruppo di tre ragazzi di buona famiglia, tre neofascisti del quartiere Parioli,
a Roma, porta due ragazze nella villa di uno di questi, a San Felice Circeo, in
provincia di Latina. Lì le seviziano tutta la notte e ancora il giorno dopo per
ore e poi, credendole morte, le caricano nel baule di un’auto e tornano a Roma.
Lì parcheggiano l’auto in una piazza e vanno a cercarsi una pizzeria per
mangiare. Una delle due ragazze, però, non è morta. Comincia a picchiare sul
portello del baule finché qualcuno non la sente e chiama i carabinieri. Che
aprono il baule e la trovano lì, a guardarli con gli occhi spalancati, accanto
al corpo dell’amica.
O come lo stupro di Franca Rame. Nel marzo del 1973, a Milano, l’attrice Franca
Rame sta camminando per via Nirone quando viene affiancata da un furgoncino.
Dentro ci sono cinque estremisti di destra, che la obbligano a salire, la
chiudono dentro e la violentano, ripetutamente. Dalla testimonianza di uno
degli esecutori e di un ufficiale dei carabinieri, l’azione sarebbe stata
ispirata e celebrata addirittura da alti ufficiali della divisione Pastrengo,
di Milano.
Sono crimini politici, per la militanza attiva di chi li compie e per
l’espressione di un modo di concepire chi è diverso, che sia un avversario
politico, una donna o un omosessuale, come un nemico da abbattere con la
violenza, da cancellare dalla faccia della terra.
È in questo clima che avviene un delitto come quello di Pier Paolo Pasolini? È
questo odio che ha ucciso Pasolini, frocio e comunista? 2 novembre 1975. Ore
22,30.
Pier Paolo Pasolini è nell’Alfa 2000, in piazza dei Cinquecento, davanti alla
stazione.
Pino Pelosi viene avvicinato da Pasolini, torna al bar per riprendere le chiavi
e intanto avverte gli amici. Ragazzi di borgata, così simili ai protagonisti
dei suoi libri e dei suoi film, ma anche ragazzi violenti, con idee politiche
confuse ma precise, in cui Pasolini non è un poeta, non è un omosessuale, ma è
quel frocio comunista di Pasolini, un nemico, uno a cui si deve dare una
lezione, uno che si può bastonare e magari anche uccidere. Così lo seguono, lo
tirano fuori dalla macchina e lo massacrano.
Le
ipotesi: un delitto ‘complessamente’ politico
Forse è andata così. O forse no. Perché
anche in una ricostruzione come questa ci sono dei buchi, dei punti oscuri, che
fanno pensare a qualcos’altro. C’è chi pensa che l’omicidio di Pier Paolo
Pasolini non fosse così improvvisato, così estemporaneo. C’è chi pensa che quel
massacro all’Idroscalo fosse qualcosa di più. Fosse un agguato. E che il
movente fosse politico in senso stretto.
Per seguire questa pista occorre riandare a sabato 20 gennaio 2001, quando il
quotidiano La Stampa pubblica un articolo a nove colonne dal titolo «Mattei, un
delitto italiano». Il fatto è strano per più di un motivo. Mattei è morto da
quarant’anni. La sua morte è stata considerata accidentale. Eppure il
quotidiano torinese quel giorno è l’unico giornale italiano a soffermarsi
sull’argomento con tanta dovizia di particolari e a rilanciare la tesi
dell’attentato.
In verità, La Stampa sta informando i suoi lettori sul fatto che la procura di
Pavia, competente per territorio, lavora da tempo alla riapertura del caso. C’è
un giudice che, dal 20 settembre 1994, continua ad indagare in assoluta
solitudine per ricostruire la vicenda e ribaltare verità fino a quel momento
consolidate. Il suo nome è Vincenzo Calia.
Ma il fatto davvero significativo è che il giornale dedica due intere pagine
all’argomento, mostrando di prendere in seria considerazione i risultati della
sua inchiesta. La morte di Mattei non fu un incidente. Mattei fu ucciso. E non
– come si era ipotizzato all’epoca – dal cartello delle grandi compagnie
petrolifere, le famose Sette sorelle, o dall’Oas francese, o da altre
organizzazioni internazionali. Mattei fu ucciso in un complotto tutto italiano,
maturato all’interno dell’Eni e della Democrazia cristiana, il suo partito di
appartenenza. Che cosa c’entra Pier Paolo Pasolini con Enrico Mattei? C’entra.
Per un motivo. Perché è uno scrittore.
«Io so», aveva scritto Pasolini, «perché sono un intellettuale, uno scrittore»,
perché mettere insieme i fatti, ristabilire una logica, mettere in scena la
ragione e il buon senso, «fa parte del mio mestiere, dell’istinto del mio
mestiere». Queste cose Pasolini le scrive in un articolo che si intitola «Il romanzo
delle stragi» e che mette assieme molte buone intuizioni sulle chiavi di
lettura dei fatti della strategia della tensione. Questo romanzo, il romanzo
delle stragi, ma non solo, il romanzo di parte della storia oscura d’Italia,
Pasolini lo stava scrivendo. Si chiama Petrolio, ed uscirà molti anni dopo la
sua morte, nel 1992 (perciò all’epoca dei fatti non si poté nemmeno prenderlo
in considerazione); 500 pagine, ma dovevano essere 2 mila, incompleto, soltanto
abbozzato, pieno di notazioni a margine, di aggiunte, e di tutti quei segni che
fanno gli scrittori per ricordarsi qualcosa da scrivere meglio o da sviluppare.
Di cosa parla Petrolio? Dell’Eni. Non soltanto di quello, parla di tante cose,
ma parla dell’Eni, della morte di Mattei, del suo successore Eugenio Cefis,
della strategia della tensione, della politica italiana fino alla metà degli
anni Settanta. Cambia i nomi, Enrico Mattei diventa Ernesto Bonocore ed Eugenio
Cefis diventa Aldo Troya, ma i personaggi sono volutamente riconoscibili. Uno
dei paragrafi, «Lampi sull’Eni», è certamente tra i più scottanti. Pasolini
stesso dice di averlo scritto e ad esso rimanda il lettore. Ma tra le carte
dello scrittore non è mai stato trovato.
Nella prima delle due pagine della Stampa sull’inchiesta del giudice Calia,
sempre a nove colonne ma di taglio basso, Filippo Ceccarelli parla di Pasolini.
Lo fa per ricordare queste cose, naturalmente. Ma, soprattutto, per citare un
episodio davvero interessante. Ne è protagonista il celebre politologo Giorgio
Galli, il quale, richiesto di una consulenza storica sugli equilibri e gli
squilibri fra le correnti democristiane nel 1962 (anno della morte di Mattei),
si vide sottoporre dal giudice Calia una specie di schemino, disegnato a mano,
con tante diramazioni e alcuni nomi, tra cui quello di Eugenio Cefis. Ebbene,
quello specchietto era desunto proprio dal libro di Pasolini. In Petrolio, Aldo
Troya, cioè Cefis, viene descritto come un uomo «dal sorriso colpevole»,
«capace di tutto», alla guida di un «impero privato». Non solo. Quell’«impero»
viene descritto fin nei più minimi particolari, per almeno una decina di
pagine. Proprio Galli, del resto, nel suo recente libro su Mattei, ricorda che
i collaboratori del presidente hanno sempre sostenuto che «Cefis creava società
ad hoc (in proprio) per affidare loro commesse dell’Eni». Ebbene, nel romanzo
di Pasolini quelle società sono descritte con dovizia di particolari.
Ma c’è di più. Alla pagina 117 di Petrolio si legge: «In questo preciso momento
storico […] Troya (!) sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica
la soppressione del suo predecessore (caso Mattei, cronologicamente spostato in
avanti). Egli con la cricca politica ha bisogno di anticomunismo (’68): bombe
attribuite ai fascisti». Si capisce perché il giudice Calia fosse così
interessato. «Con venticinque anni di anticipo», commenta Ceccarelli, «lo
scrittore Pasolini era giunto alle conclusioni della sua lunga inchiesta».
E si comprende anche il presumibile stupore di Giorgio Galli. Tanto più forte,
se si pensa che Pasolini, in uno degli appunti finali di Petrolio, ha persino
previsto in una «visione», che è anche una profezia, la strage alla stazione di
Bologna che avverrà molti anni dopo, ed è stato anche il primo a collegare,
praticamente in tempo reale, l’attentato a Mattei a piazza Fontana e alle altre
stragi. Tesi, questa, che proprio un politologo come Giorgio Galli ha cercato
nel tempo di dimostrare e che è stata autorevolmente avallata da Amintore
Fanfani in un discorso al Congresso dei partigiani cattolici tenutosi a
Salsomaggiore nel 1986: «Chissà, forse l’abbattimento dell’aereo di Mattei, più
di vent’anni fa, è stato il primo gesto terroristico nel nostro paese, il primo
atto della piaga che ci perseguita». Dove, come commenta il giudice Calia, «Fanfani,
dando per certo che l’aereo di Mattei era stato abbattuto, aggiungeva che,
“forse”, dietro quell’abbattimento c’erano gli stessi ambienti che, in seguito,
utilizzarono il terrorismo come strumento politico».
A questo punto la domanda è d’obbligo: ma come ha fatto Pasolini a capire tutte
queste cose? Che fosse un intellettuale geniale è fuori discussione. Che fosse
riuscito con la sua intelligenza a collegare le tessere più diverse del puzzle,
anche. Ma per essere così documentato, per citare nomi, fatti, dati, delle
informazioni deve pur averle avute. La risposta si trova al Gabinetto Viesseux
di Firenze. È lì che sono conservate, oltre al manoscritto originale del
romanzo, tutte le carte preparatorie di Petrolio e i materiali che Pasolini
andava consultando. Tra questi c’è un libro, Questo è Cefis. L’altra faccia
dell’onorato presidente, scritto da un tal Giorgio Steimetz, anche se è stato
accertato che si tratta di uno pseudonimo. Scrive Steimetz: «Ridurre al
silenzio, e con argomenti persuasivi, è uno dei tratti di ingegno più
rimarchevoli del presidente dell’Eni». Gli fa eco Pasolini: «Egli doveva, per
la stessa natura del suo potere, restare in ombra. E infatti ci restava. Ogni
possibile “fonte” d’informazione su di lui, era misteriosamente quanto
sistematicamente fatta sparire». Le pagine sulle attività imprenditoriali di
Cefis, sulle società a lui in qualche modo collegate, Pasolini le deve dunque
al libro di Steimetz, di cui Petrolio per questa parte è né più né meno la
parafrasi. Diverso il discorso per quel che riguarda il ritratto psicologico e
umano di Cefis. L’introspezione pasoliniana è, a tale riguardo, finissima.
Pasolini ne coglie le ambiguità e le riassume sotto la categoria del «misto»:
il «misto della sua personalità, che si manifesta sin dai tempi della sua
giovinezza», come dimostra anche la sua esperienza di partigiano in una
«formazione mista degasperiana e repubblicana», che lottava sui monti della
Brianza.
Si può persino azzardare un’ipotesi: Pasolini conosceva Cefis. Erano infatti
coetanei. Pasolini era nato il 5 marzo del 1922, Cefis il 21 luglio del 1921.
Ma quel che più conta è che il futuro presidente dell’Eni e della Montedison
era nato a Cividale del Friuli, a pochi chilometri da quella Casarsa della
Delizia dove era nata la madre del poeta e dove lui stesso aveva a lungo
vissuto. Pasolini si sofferma, in Petrolio, su questo dato e parla di
«Cividale, Civitas: la città del Friuli; la Firenze del Friuli», con acribia
filologica. Ma come era pervenuto a Pasolini il libro di Steimetz? La domanda è
tutt’altro che irrilevante, dal momento che, edito nell’aprile del 1972
dall’Ami (Agenzia Milano informazioni, finanziata tra gli altri dall’Ente
minerario siciliano di Graziano Verzotto), il volume era immediatamente sparito
dalla circolazione, al punto che oggi è irrintracciabile anche nelle più
importanti biblioteche e non compare mai in nessuna bibliografia.
Su questo punto, per certi versi decisivo, non ci sono ancora delle certezze.
Sappiamo solo che fu lo psicoanalista Elvio Fachinelli a inviarglielo in
fotocopia, come attesta una lettera del 20 settembre 1974. Fachinelli dirigeva
una rivista, L’erba voglio, che, curiosamente, si era occupata molto di Cefis,
di cui aveva pubblicato articoli ed interventi. E ciò aveva attirato l’attenzione
di Pasolini, che a sua volta era come ossessionato da Cefis. Il famoso
«articolo delle lucciole», quello in cui il poeta diceva che non avrebbe dato
nemmeno una lucciola per la Montedison, è di lui che parlava. E al Viesseux,
oltre alle fotocopie del libro di Steimetz, ampiamente chiosate e sottolineate,
è possibile rinvenire altri materiali relativi a Cefis, come un suo discorso
all’Accademia militare di Modena, pronunciato il 23 febbraio 1972, e i
ciclostilati di altre conferenze, persino l’originale di una conferenza
intitolata «Un caso interessante: la Montedison», tenuta l’11 marzo 1973 presso
la Scuola di cultura cattolica di Vicenza, con annotazioni a margine dello
stesso Cefis mai da lui pronunciate.
Per non dire che, nel paragrafo dal titolo «Storia del petrolio e retroscena»
(corrispondente agli appunti 20-30 di Petrolio, oggi a pp. 117-118 del libro),
Pasolini arriva a ripromettersi di inserire tutti i discorsi di Cefis, «i quali
servono a dividere in due parti il romanzo in modo perfettamente simmetrico e
esplicito». Per sbrogliare questa intricata matassa, ci viene in soccorso,
ancora una volta, la conclusione dell’inchiesta del giudice Calia, che
fornisce, sia pure indirettamente, una possibile chiave di lettura anche di
questi fatti. Negli atti conclusivi della sua inchiesta (20 febbraio 2003),
Calia dedica ampio spazio alla vicenda della sparizione del giornalista
dell’Ora Mauro De Mauro. De Mauro fu rapito a Palermo la sera del 16 settembre
1970 davanti alla sua abitazione. Se il suo corpo non fu mai ritrovato e di
lui, da quel momento, non si seppe più nulla, ben presto però fu chiaro che il
suo rapimento era da collegarsi al «caso Mattei».
De Mauro, infatti, aveva ricevuto dal regista Francesco Rosi la richiesta di
collaborare alla sceneggiatura del suo film su Enrico Mattei attraverso la
ricostruzione degli ultimi due giorni di vita del presidente dell’Eni, che si
svolsero proprio in Sicilia da dove poi ripartì per il suo ultimo, tragico
volo. Il giornalista si era molto appassionato al tema, anche perché otto anni
prima proprio lui era stato inviato dell’Ora a seguirli «in presa diretta». E
aveva cominciato a sentire un’infinità di testimoni. Fu proprio raccogliendo
queste testimonianze che si trovò improvvisamente di fronte a una versione
radicalmente diversa dei fatti, a un’altra «verità».
A fornirgliela fu Graziano Verzotto, un senatore democristiano, che in quel
momento era presidente dell’Ente minerario siciliano. Al giudice Calia,
Verzotto dichiara: «Eugenio Cefis e Vito Guarrasi [un celebre avvocato
civilista, consulente dell’Eni e di molte altre società nazionali operanti in
Sicilia, quasi sconosciuto alla stampa e all’opinione pubblica, ma al centro di
vicende economiche e politiche di rilevanza nazionale] – e il loro entourage –
si erano sicuramente avvantaggiati della morte di Mattei: entrambi, infatti,
erano stati poco prima della sua morte allontanati dagli incarichi che
ricoprivano prima». E ancora: «Ritengo che il sequestro del giornalista sia
intimamente connesso al progetto per la costruzione di un metanodotto tra
l’Africa e la Sicilia». Era nata, infatti, un’accesa disputa tra l’Ems e l’Eni
sulla fattibilità e sulla convenienza del controverso metanodotto. «Io avevo
ritenuto», dichiara sempre a Calia Verzotto, «che era mio dovere, quale
aderente a una corrente Dc (Gullotti) che si opponeva alla corrente
“fanfaniana” (cui faceva riferimento Eugenio Cefis), nonché quale presidente
dell’Ems (come tale direttamente interessato alla realizzazione del
metanodotto), dare un fattivo contributo per contrastare chi si opponeva al più
volte citato progetto di realizzazione del metanodotto. […] Tra gli oppositori
al progetto […] si stagliava, naturalmente, il presidente dell’Eni».
La ragione per la quale Verzotto decise di dire queste stesse cose, e molte
altre, al giornalista dell’Ora fu, appunto, questa. Egli era perfettamente
consapevole che il film di Rosi «poteva essere uno strumento per sostenere e
alimentare la campagna che l’ente da me presieduto intendeva portare avanti contro
la presidenza dell’Eni e contro coloro che si opponevano alla realizzazione
del metanodotto». E quando De Mauro verrà sequestrato, Verzotto non ci metterà
molto a capire che quella è anche un’intimidazione nei suoi confronti, e
cercherà di adeguarsi. «Ebbi l’impressione che De Mauro fosse stato sequestrato
anche per spaventarmi e per convincermi ad abbandonare il progetto del
metanodotto». E dunque: dietro a De Mauro, che lavora per il film di Rosi, c’è
Verzotto, con le sue informazioni; dietro a Pasolini, che lavora a Petrolio,
c’è ancora una volta Verzotto! È a questo contesto che si riferisce Dario
Bellezza nel suo libro Il poeta assassinato? «Pasolini», scrive, «mi disse un
giorno, poco prima di morire, che aveva ricevuto dei documenti compromettenti
su un notabile Dc». Per poi concludere: «Per me, ne sono più che convinto, c’è
stato un mandante ben preciso che va ricercato fra coloro per i quali Pasolini
chiese il processo. Un potente democristiano». Basta questo per uccidere un
uomo come Pier Paolo Pasolini? Forse sì, se è bastato per far tacere per sempre
una voce, certo meno temibile, come quella di Mauro De Mauro.
E si può aggiungere un’altra riflessione. In Italia raramente gli intellettuali
vengono uccisi per quello che sanno. Il muro di gomma, allora come adesso, è
così resistente che le informazioni rimbalzano e la «sola puerile voce» non è
mai così pericolosa. Diverso è se si diventa, anche inconsapevolmente, armi
nelle mani di qualcuno più potente e organizzato, soldati inconsapevoli in una
delle tante battaglie oscure che si combattono per il potere. È successo questo
a Pasolini? Le informazioni che qualcuno gli stava passando lo stavano rendendo
troppo pericoloso per qualcun altro?

Ostia, monumento eretto sul luogo ove venne ucciso e ritrovato il corpo di Pasolini
Le
ipotesi: un agguato premeditato
Sergio Citti era uno dei migliori amici
di Pier Paolo Pasolini, aiuto regista in alcuni dei suoi film e fratello di
Franco, il protagonista di Accattone. Pochi giorni dopo la morte di Pasolini va
all’Idroscalo, raccoglie testimonianze e gira un filmato riprendendo tutti i particolari
del luogo del delitto. Un filmato che non si può vedere, almeno per il momento,
perché è stato assunto agli atti dalla magistratura. Adesso, non allora. Come
allora non fu mai interrogato Sergio Citti, che avrebbe avuto qualcosa da dire.
Avrebbe parlato di un furto, quello di alcune «pizze» del film Salò o le 120
giornate di Sodoma.
In gergo si chiamano «pizze», e sono quei grandi contenitori di metallo in cui
stanno arrotolate le pellicole dei film. Un giorno ladri rimasti ignoti entrano
negli stabilimenti della Technicolor, una delle ditte di sviluppo più
importanti di allora, e rubano le pizze di alcuni film. Tra queste ce ne sono
alcune che appartengono a Salò, il film su cui Pasolini sta lavorando, e che
uscirà dopo la sua morte. È un danno grosso, che Pasolini rimedia montando i
«doppi», cioè le alternative alle scene che vengono girate con inquadrature
diverse e tutto sembra finire lì.
Invece no. C’è un uomo che si chiama Sergio Placidi. Conosce Citti e gli
comunica di sapere come è avvenuto il furto. A rubare le «pizze» è stato un
gruppo di ragazzi che frequentano un bar nella zona di via Lanciani, dove vanno
a ballare e a giocare a biliardo. Attenzione, perché c’è un particolare
importante su quel bar. Sarà un caso, sarà una coincidenza, ma quello è il bar
frequentato proprio dal protagonista di questa storia. Pino Pelosi, detto Pino
la Rana, e dai suoi amici: i quali, tra l’altro, in tutte le loro deposizioni,
sono concordi nell’affermare che quel ritrovo è di proprietà di un loro comune
amico di nome Sergio.
I responsabili del furto sono disposti a restituire le pizze di Salò, però
vogliono soldi. Ne vogliono tanti, vogliono due miliardi. La cifra viene
comunicata al produttore del film, Alberto Grimaldi, che naturalmente non ci
sta, offre al massimo 50, 100 milioni, che pure in quegli anni sono molti,
moltissimi. Ma i ragazzi incredibilmente non ci stanno e la cosa finisce lì.
Invece no, non ancora. Pochi giorni prima di quel 2 novembre, il giorno del
massacro, i sedicenti autori del furto si fanno ancora vivi. È Sergio Citti che
ce lo racconta, l’ha saputo da Pasolini. Chiamano il regista e gli dicono che
si scusano, che non sapevano che ci fosse proprio il suo film tra le pellicole
rubate e che glielo vogliono restituire. Vedi, dice Pasolini a Citti, che tra i
ragazzi delle borgate conto qualcosa, che mi vogliono bene, che mi rispettano?
Ed è felice di questo, Pier Paolo Pasolini. Ma all’appuntamento non ci può
andare subito. Sta per partire per Stoccolma, deve presentare la traduzione in
svedese di una sua raccolta di poesie, Le ceneri di Gramsci.
A Roma ci torna la sera del 31 ottobre. Il giorno dopo, il primo novembre, i
ragazzi lo richiamano.
Quello stesso giorno Sergio Citti parla con Pasolini. Devono vedersi la sera
tardi, perché stanno lavorando ad una sceneggiatura, ma Pasolini dice che non
può. Prima deve andare a cena con Ninetto Davoli, al ristorante Il Pommidoro,
poi deve vedere della gente. Deve vedere dei ragazzi. Quelli che vogliono
restituirgli le pizze di Salò.
La testimonianza di Citti è a dir poco clamorosa. Come clamoroso è il fatto che
in questi trent’anni nessun magistrato abbia sentito il dovere di interrogarlo.
Adesso sappiamo perché Pasolini quella sera andò a Piazza dei Cinquecento. Non
per «rimorchiare» dei ragazzi, ma per recuperare le «pizze» del suo ultimo
film. E solo così i conti cominciano a tornare.
Abbiamo già visto, infatti, tutte le incongruenze della versione ufficiale. Ma
solo limitatamente alla scena del delitto. Di incongruenze, però, è pieno anche
il racconto su tutto ciò che precede il crimine.
Non risulta che Pelosi e i suoi amici fossero dei «marchettari». Loro stessi
raccontano che quel sabato erano andati a ballare con delle ragazze nel solito
locale di via Lanciani e solo sul tardi avevano deciso di andare dalle parti
della stazione per passare il tempo e per divertirsi a guardare i «froci». A
guardarli, a provocarli magari, ma non ad andare con loro. La differenza è
sostanziale. Perché non si è mai indagato a fondo su questo punto?
Non è vero che il gruppo di amici non conoscesse Pasolini. Su questo
particolare tutte le loro testimonianze concordano. Tanto lo conoscevano che lo
riconobbero subito, lo salutarono e fecero il gesto di stringergli la mano. Non
è vero – come testimoniò «a caldo» Pelosi – che fu Pasolini a proporre ai
ragazzi di salire sulla sua macchina. È vero invece il contrario. Furono loro a
chiederglielo, insistentemente, ma il regista non si fidò, mise la sicura alla
macchina, e sollevò il vetro quel tanto che basta per rispondere al saluto,
evitando spiacevoli sorprese. Può essere questo l’atteggiamento di uno che è lì
per «rimorchiare»? Ma non basta. Uno di loro gli chiese di poter lavorare in un
suo film e la sua risposta, sia pure in tono scherzoso, fu: «Tanto con la
faccia da ladro che ti ritrovi». Un altro gli chiese di poter fare con lui un
giro in macchina, al che Pasolini replicò che «non poteva farlo perché aveva un
appuntamento». Dunque Pasolini aveva un appuntamento, e tutto questo è
contenuto nei verbali delle deposizioni ufficiali!
Da segnalare che, mentre succedono queste cose, Pino Pelosi è momentaneamente
scomparso. I suoi amici sono unanimi nel testimoniare che lo rivedranno solo
mezz’ora, tre quarti d’ora più tardi, quando Pino la Rana andrà a riprendere le
chiavi.
Ma quando esattamente si è incontrato con Pasolini? E soprattutto, dove sono
stati tutto quel tempo? La risposta a questa domanda è fondamentale. Ancora.
Che bisogno aveva Pelosi di riprendere le chiavi, se lui stesso dice che
Pasolini si era impegnato a riaccompagnarlo a casa? E poi, possibile che della
«sua» 850 (in realtà rubata, lui non aveva nemmeno la patente) ci fossero così
tante chiavi? Comunque sia, verso le 23,30 sono in vista del Biondo Tevere. Qui
le testimonianze concordano. Sì, ma perché andare al ristorante se i due devono
consumare un breve atto sessuale? E soprattutto, perché andare in direzione
della Basilica di San Paolo, e poi di Ostia, se i due devono fare ritorno sulla
Tiburtina? E tanto più che, successivamente, Pasolini deve anche tornare a casa
sua, all’Eur? Non sarebbe molto più logico andare in un prato della Tiburtina,
evitando di fare, tra andata e ritorno, non meno di centoventi chilometri
invece della metà?
Finita la cena, poco dopo la mezzanotte, i due imboccano la via Ostiense.
Pelosi è molto preciso su questo punto. Sì, ma chi conosce Roma sa benissimo
che, provenendo da viale Marconi o da San Paolo, per andare ad Ostia si prende
la via del Mare. Se si sceglie l’Ostiense in genere è perché si deve
raggiungere qualche altra località: Acilia, Vitinia, Dragona.
E si potrebbe continuare a lungo. Viceversa, se si parte dal presupposto che
Pasolini fu vittima di un agguato, tutti gli elementi del puzzle tornano come
per incanto al loro posto.
Il furto delle «pizze» è un tranello: a rubarle potrebbero persino essere stati
degli altri. Pasolini, comunque, va alla stazione all’ora convenuta sperando di
riappropriarsene. L’esca (inconsapevole?) è Pelosi, che, forse, va lì con gli
amici, ignari, per rendere credibile il suo racconto. E infatti loro salutano
Pasolini, mentre Pino la Rana si fa perdere di vista. Poi sale sulla macchina
del poeta, che si fida di lui, mentre un attimo prima aveva reagito con
malcelata diffidenza alle avance degli altri ragazzi. Ma Pino gli dice che le
pizze non le ha, e forse telefona (o finge di telefonare) per sapere dove
devono andare a ritirarle. Gli dicono di andare dopo mezzanotte ad Acilia (o a
Dragona, o a Vitinia). Ma è troppo presto e perciò Pasolini porta il ragazzo,
che ancora non ha cenato, al Biondo Tevere, che è nella direzione giusta.
Finita la cena, i due imboccano la via Ostiense (attenzione, la via Ostiense,
non la via del Mare, che è quella che si prende naturalmente per andare a
Ostia). A quell’ora non ci vuol niente a raggiungere una delle frazioni
limitrofe, Acilia o Vitinia o Dragona. È lì che Pasolini viene raggiunto dai
suoi assassini, sequestrato e portato fino all’Idroscalo, che se non è il posto
più adatto per fare l’amore è sicuramente un buon posto per ammazzare qualcuno?
Ci sono anche alcune testimonianze, in questo senso. Gente che vive
all’Idroscalo e che parla di almeno due macchine arrivate al campetto quella
sera. Gente che dice che sul corpo di Pasolini, del tutto volontariamente, non
passò Pelosi con la macchina del poeta, ma uno dei killer con la sua. Le hanno
raccolte in molti e, tra questi, Sergio Citti, che però, allora, non fu
interrogato. Come non fu interrogato Bravi, il gestore del ristorante Il
Pommidoro, dove Pasolini cenò assieme a Ninetto Davoli. Come non furono interrogati
tanti altri. La nostra è un’ipotesi. Se ne possono fare anche altre. Quel che è
certo è che solo così si può spiegare logicamente e razionalmente quel che
accadde quella maledetta notte all’Idroscalo. Solo così si può cominciare a
dare un volto, se non un nome, agli «ignoti» di cui parlò la sentenza di primo
grado. Se si trattò di un delitto politico in senso lato, di un delitto
«semplicemente politico», questi ignoti potrebbero anche essere delle persone
che magari volevano soltanto rapinare Pasolini, o «punirlo» per la sua
omosessualità e anche, forse, per la sua fede politica. Ma Pasolini, che era
forte e coraggioso, si difese e allora il pestaggio degenerò in un massacro. È
possibile, ma non del tutto convincente. Non è convincente, in particolare,
tutta quella ferocia spinta fino alle estreme conseguenze nei confronti di un
uomo che a quei ragazzi poteva persino essere molto utile. Se, invece, si
trattò di un delitto politico in senso stretto, di un delitto «complessamente
politico», allora è più probabile che i killer fossero dei veri professionisti,
che rispondevano a un preciso mandato. Potevano far parte, tanto per fare un
esempio, di quei gruppi che stavano dando vita a quella che di lì a poco tutti
conosceranno come la banda della Magliana, che imperversò per Roma spargendo
continuamente sangue e terrore, e agendo spesso in combutta con la mafia, con
l’eversione nera, con i servizi deviati.
Si può persino avanzare un’ipotesi particolarmente inquietante. Che Pasolini
conoscesse i suoi killer; o che, quantomeno, conoscesse la loro provenienza.
C’è in questo senso una testimonianza interessante, resa di recente a Fulvio
Abbate, per il libro C’era una volta Pasolini, da Silvio Parrello. Parrello,
detto «Pecetto», è uno dei protagonisti di Ragazzi di vita; uno dei ragazzi che
lo scrittore conobbe negli anni Cinquanta a Donna Olimpia che gli ispirarono la
trama del suo primo romanzo. Alla domanda di Abbate, su chi potrebbero essere
stati gli assassini di Pasolini, Parrello risponde: «Malavita romana, e uno che
aveva un plantare numero 41, piede destro». E continua dicendo che, se si
fossero fatte delle indagini sul plantare, sarebbero arrivati subito al
proprietario, in quanto nell’ambito della malavita romana erano soltanto in tre
a portare il plantare, e non certo tutti e tre piede destro e 41».
Ma è quello che aggiunge dopo ad essere ancor più interessante. Sentiamo. «Da
tempo nel quartiere di Donna Olimpia gira voce che un personaggio, certo
Antonio Pinna, assiduo frequentatore di Pasolini negli ultimi tempi per motivi
che non sono chiari, il 14 febbraio 1976, a processo iniziato, scompare nel
nulla, la sua auto fu rinvenuta parcheggiata all’aeroporto di Fiumicino, sempre
nel quartiere si dice che fu eliminato perché sapeva la verità sulla morte di
Pasolini».
Chi era, questo Antonio Pinna? Davvero è scomparso nel nulla da trent’anni?
Qualcuno ha indagato su questo? È un fatto che molti elementi della banda della
Magliana provenivano da Donna Olimpia; che molti di loro avessero case a Ostia
e ad Acilia; che tutti frequentassero i bar di San Paolo (il famoso bar di via
Chiabrera) e di Ponte Marconi (il bar Barone, in particolare).
C’erano, tra loro, anche alcuni degli «innocenti» e «poetici» ragazzi della
Donna Olimpia e della Magliana degli anni Cinquanta, gli stessi che Pasolini
aveva conosciuto e aveva raccontato nei suoi romanzi?
La cosa è possibile. E renderebbe ancor più atroce tutta questa storia. Come
spiegherebbe la famosa «abiura» del ’75 («I giovani e i ragazzi del
sottoproletariato romano […] se ora sono immondizia umana, vuol dire che anche
allora potenzialmente lo erano»), già contenuta proprio in Petrolio: «Se quei
giovani e ragazzi erano diventati così, voleva dire che essi avevano la
possibilità di diventarlo: la loro degradazione dunque degradava anche il loro
passato (che dunque era tutto un inganno). […] Quei giovani e ragazzi avrebbero
pagato la loro degradazione col sangue: in un’ecatombe che avrebbe resa
(ferocemente ridicola) la loro presuntuosa illusione di benessere».
(23
luglio 2008)
Su Pasolini in questo blog sono anche presenti:
http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2015/11/pier-paolo-pasolini-applaudono-soltanto.html
http://colnaghistoriaestorie.blogspot.it/2013/12/un-paese-di-temporali-e-di-primule-le.html